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Sei passi cadenzati
Senza ombra di dubbio alcuno: Michele Smargiassi è certamente uno dei più qualificati a occuparsi di Fotografia. Soprattutto oggi, in un tempo e in luoghi (italiani) dove pare che tutti abbiano qualcosa da dire al proposito, e si esprimono con approssimazione di idee, opinioni e linguaggio, da buon giornalista quale è, Michele Smargiassi si pronuncia con visioni originali, pensieri qualificati e esaurienti, lessico eccellente.
Magari, a volte, per quanto raramente, si potrebbero non condividere talune sue osservazioni (comunque sia, sempre intelligenti, briose e vivaci) che animano l’autorevole blog Fotocrazia, sul sito del quotidiano la Repubblica. Però, anche nel caso di (improbabile) disaccordo, l’incontro è incessantemente fonte di accreditati punti di vista, adeguatamente arricchenti per coloro i quali si impegnano nel ragionamento sulla Fotografia, qualsiasi cosa questa significhi per ciascuno di noi.
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Una volta ancora (una volta di più) in edizione Contrasto Books, come già è stato per i precedenti Un’autentica bugia. La fotografia, il vero, il falso, del 2009, e Sorridere, del 2020, l’attuale Voglio proprio vedere è un’azione libraria di grande coraggio e intenzione profonda. Precedute da una introduzione esplicita, con il cui titolo l’autore rivela le proprie intenzioni (Storia eventuale della fotografia), sei gustose interviste ad autori che, con la propria azione, hanno compilato capitoli fondanti della Storia della Fotografia, andando a stabilire princìpi e criteri con i quali ogni fotografo ha dovuto confrontarsi e, perché no?, allinearsi.
Ciò precisato, oltre al coraggio di far “parlare” Nadar (Gaspard-Félix Tornachon; 1820-1910), Eugène Atget (18571927), Tina Modotti (Assunta Adelaide Luigia Modotti Mondini; 1896-1942), Robert Capa (Endre Ernő Friedmann; 1913-1954), Vivian Maier [?] (1926-2009)
e W. Eugene Smith (1918-1978), esprimendo domande e sollecitando risposte in base alle rispettive personalità fotografiche, Michele Smargiassi certifica una condizione sovrastante della rievocazione raziocinante della Storia della Fotografia: non c’è più bisogno di scriverne alcuna altra Storia, perché già tante ce ne sono, che ben scandiscono lo scorrere del Tempo e degli Eventi (e, comunque, è improbabile poterlo/doverlo fare dall’Italia, paese privo di economie e condizioni per potersi definire storici). Però, al contempo, ci sono intelletti -tra i quali quello di Michele Smargiassi, qui e ora in passerella- capaci di affrontare e declinare visioni ulteriori, non lineari nel Tempo, ma intrecciate negli Accadimenti. Appunto, c’è bisogno di chi sia qualificato a compilare “storie eventuali”, “storie essenziali”, “storie trasversali” (che fingano di partire da altro, per esempio dalla filatelia a tema, per approdare alla sostanza), “storie complementari”, “storie di pensiero”, “storie...” e “storie...”. Ancora. Brillante nel proprio vedere, non soltanto guardare, capace di intendere e giudicare (come pochi sanno farlo), Michele Smargiassi non si perde in alcuna selva oscura, ma -al contrario- accende una luce brillante su percorsi fotografici spaziosi, che hanno scritto capitoli di Storia, senza peraltro averne mai avuta l’intenzione di farlo. Sei cammini diversi e Voglio proprio vedere - Interviste impossibili ma non improbabili ai grandi fotografi autonomi; sei cammini (Nadar, Eugène Atget, Tina Modotti, Robert Capa, Vivian Maier, W. Eugene Smith), che non si esauriscono di Michele Smargiassi; Contrasto Books, 2021; 156 pagine 16x22,4cm; 24,90 euro. sui propri passi espliciti, ma si proiettano ol-
tre; sei cammini spontanei, nel senso di sei vite condotte per se stesse e la propria elaborazione esistenziale, che hanno finito per tracciare linee conduttrici che hanno ispirato il Mondo, che hanno formato Coscienze.
Ribadiamo un nostro pensiero: nessuna Fotografia ha mai cambiato il Mondo, soprattutto in consecuzione rapida di causa-effetto (in oltre centottant’anni di Storia, solo tre possono averlo fatto: tre, non quattro). Ma, tutte, insieme sono tessere di un puzzle individuale entro il quale ciascuno ha edificato la propria visione dell’Esistenza. Lo ha fatto la Fotografia, così come lo hanno fatto anche la Poesia, la Narrativa, il Cinema, il Pensiero, la Parola...
Con ognuno degli “intervistati”, Michele Smargiassi affronta temi e modalità coerenti ai rispettivi percorsi d’autore: in modo da comporre tessere che si accostano le une alle altre, per raccontare -per l’appunto- una Storia eventuale della fotografia. Corpus di Voglio proprio vedere, la somma di sei Interviste impossibili ma non improbabili ai grandi fotografi è lettura a dir poco entusiasmante, anche perché pone domande delle quali l’autore conosce la risposta, perché conosce la Storia.
Per esempio, colto e informato, appena dopo aver liquidato l’artificiosa querelle di e con il poeta e critico coevo Charles (Pierre) Baudelaire (1821-1867), Michele Smargiassi chiede a Nadar (Ovvero, l’euforia) di definire la Fotografia. Testuale: «Eccoci al punto, Monsieur Nadar: cosa è, dunque, la fotografia? Ho fatto tanta strada nel tempo, per chiedervi solo questo, in verità. Ma temo di conoscere già la vostra risposta». Previsto: «La fotografia è una scoperta [invenzione] meravigliosa, la cui pratica è alla portata dell’ultimo degli imbecilli» [entro la cui ampia categoria, Nadar includeva anche e addirittura il figlio Paul].
Con W. Eugene Smith (Ovvero, l’ossessione del tutto), Michele Smargiassi affronta il fotogiornalismo... ovviamente: «Lei ci ha dato immagini che traboccano umanità, emozione, commozione. Gliene siamo grati. Ma è giornalismo? Nel giornalismo ci sono regole...» / «Non amo le regole. Non amo il gregge. In un movimento separatista, io farei una scissione. Le regole ferree arrugginiscono. Chi ha scritto le regole che dici tu? Non le ho scritte io, allora non vedo perché dovrei rispettarle».
Eugène Atget (Ovvero, l’ordine delle cose), ancora per una definizione certa e assoluta: «A questo punto, mi corre l’obbligo di domandarvi cosa sia, per voi, la fotografia» / «(Con un gesto sbrigativo) Quello che ho scritto nella mia carta intestata: un documento».
Vivian Maier (Ovvero, la certezza di esistere), in alternanza di dialogo, qua-
Successivamente riproposte in occasioni opportune, e perfino rielaborate da Renzo Arbore in uno dei suoi intelligenti programmi televisivi (con la complicità, tra gli altri, di Roberto Benigni / Dante Alighieri e Paolo Villaggio / Cristoforo Colombo), Le interviste impossibili sono state un elettrizzante programma radiofonico, andato in onda nel 1974 e 1975. A giudizio di molti, che condividiamo, è stata la migliore produzione creativa della Rai, che ancora oggi è frutto di analisi e pubblicazioni.
A cura di Lidia Motta, Le interviste impossibili rappresentarono una sorta di specchio della Storia, entro il quale personalità della cultura italiana (allora) contemporanea incontravano e intervistavano personaggi illustri vissuti secoli e secoli prima. A dare la voce a questi personaggi illustri, un prezioso cast di attori e attrici della migliore e più grande tradizione del teatro italiano... magari reperibili in Rete.
Non ci va di ricercare oltre, ma segnaliamo l’ottima edizione libraria originaria Bompiani, del 1975 (e edizioni successive), con la segnalazione, in copertina, di intervistatori e intervistati. Per quanto le recitazioni siano più performanti della sola lettura in proprio.
Archivio FOTOgraphia
si a “botta e risposta”: «Proprio come direbbe un artista romantico...» / «No, non ci siamo. Lei ha dei preconcetti. Io non faccio arte. Io fotografo».
Tina Modotti (Ovvero, la vita contro l’arte): «Forse troppo per una vita sola» / «(Annuisce) Forse troppo per una donna sola».
Robert Capa (Ovvero, un posto nella realtà), in rievocazione del D-Day 6 giugno 1944, sbarco degli alleati in Normandia: «Un eroe può avere paura, no?» / «Non puoi avere coraggio, se prima non hai paura... Il coraggio è semplicemente un modo molto efficiente di gestire la paura. Il pilota del pontile di sbarco dovette cacciarmi in acqua, con una pedata nel culo. Io sono un giocatore, scommetto sui cavalli, so che puoi esitare fino all’ultimo minuto, ma quando suona la campana, be’, o hai puntato o non vinci nulla. Nell’acqua fino al collo, però, non ero certo di aver scelto il cavallo giusto. Ripetevo come un mantra l’esclamazione dei miliziani di Spagna: “Es una cosa muy seria, muy seria”...».
Domanda di Michele Smargiassi, a seguito di una risposta di Eugène Atget (Ovvero, l’ordine delle cose): «Cambia qualcosa, perdonatemi. In quelle fotografie di vita di strada, più ancora che nelle altre, entra e si fa palese la vostra volontà di creare l’immagine. Nel momento in cui arrestate il moto, la realtà diventa fotografia, prima ancora che voi apriate l’otturatore...».
Risposta: «(Con aria sarcastica) Ditemi, nel prossimo secolo, farete sempre le cose così complicate, quando ragionerete di fotografia? Be’, fatti vostri. Fate un po’ come credete, ma non fatemi dire cose che non ho mai detto né fatto. Quando vennero a chiedermi quella fotografia, quella del gruppo col naso all’aria e gli occhi protetti dai vetrini scuri, mentre guardavano l’eclissi di sole, avete presente, per stamparla sulla copertina di La révolution surréaliste, bene, io gliel’ho venduta, non avrei dovuto? È il mio mestiere fare fotografie per venderle. Però, ho preteso che non la firmassero col mio nome: è solo un documento, ho detto. Volete usare i miei documenti per fare un oggetto d’arte? Ma prego, accomodatevi, lavoro apposta per questo. “Documenti per artisti” è la mia ragione sociale [ribadendo quanto espresso a proposito della Fotografia, appena richiamato]. Degas ha dipinto usando mie fotografie, Utrillo pure. In fondo non mi importa più: una volta che le ho fatte, non sono più mie. Prendetevi la responsabilità, però. È una scelta vostra. Non nascondetevi dietro di me. Se invece insistete a considerare le mie fotografie come un oggetto d’arte in sé, be’, sappiate che non le ho fatte per questo».
Certo, Michele Smargiassi ha una tale conoscenza e competenza della Fotografia, e delle sue migliaia di tessere, da aver potuto compilare con cognizione di causa. Ma, allo stesso momento, quanto di se stesso c’è nelle affermazioni attribuite ai sei grandi fotografi? Presumiamo, molto. Speriamo, altrettanto.
Del resto, in fascetta sovraccopertina, l’autore specifica che «Come disse (veramente) Robert Capa, “tutte le cose scritte in questo libro, vere o meno che siano, forse hanno qualcosa a che fare con la verità”. Almeno, era questa la mia intenzione».
Assolta e risolta. ■ ■