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La chiave
Dal nostro punto di vista mirato, oppure viziato, fate voi, il controverso film La chiave, di Tinto Brass, del 1983, è ad alto tasso fotografico. Sceneggiata dall’omonimo romanzo del giapponese Jun’chirō Tanizaki (1886-1965), del 1956, pubblicato in Italia da Mondadori, nel 1971, Kagi in originale, la storia si affida alla Fotografia per esprimere una sorta di erotismo decadente.
Cioè, e nel concreto, la Fotografia è sostanzialmente trasversale alle vicende a sfondo sessuale ed erotico che compongono l’ossatura della trama e dello svolgimento. Ovviamente, con una intenzione ampiamente frequentata e condivisa da molti, l’erotismo visivo, appunto fotografico (dall’emozione della ripresa alle fasi di sviluppo e stampa delle copie), è un condimento che dà sapore, e forse anche significato, alla trasparente complicità tra i protagonisti.
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In questo senso, oltre ad appartenere al lungo e cadenzato filone dei film erotici del regista veneziano, autentico caposcuola del genere, La chiave è anche uno di quei film che, come molti altri, spesso di profilo basso, hanno appunto raffigurato e messo in scena la combinazione fotografia-sesso, sulla quale ci soffermiamo oggi in un apposito riquadro, pubblicato a pagina 24.
Del resto, già il romanzo originario di Jun’chirō Tanizaki [evocato anche a pagina 12, su questo stesso numero, per il suo Libro d’ombra] è un testo erotico. Come rileva Davide L. Malesi, scrittore con escursioni nella critica letteraria, La chiave è un testo erotico «Non perché sulle sue pagine abbondino minute e/o appassionanti descrizioni di atti sessuali (che non ci sono proprio); né perché i protagonisti si abbandonino a chissà quali esperienze acrobatiche, sul fronte della sessualità (di volta in volta riusciamo a intuire, più o meno, l’entità e la densità delle trasgressioni compiute dai personaggi) [...]. In La chiave, si parla di erotismo non nel senso più “funambolico” o “descrittivo” del termine, bensì nel senso del “complesso delle manifestazioni dell’impulso sessuale sul piano psicologico, affettivo, comportamentale” (come rileva il dizionario De Mauro-Paravia).
«Ovvero: in La chiave, questo complesso di manifestazioni domina ogni azione dei protagonisti, ne pervade ogni gesto; insomma, ne detta il comportamento. Ciò che i personaggi fanno, lo fanno perché spinti da una molteplicità di impulsi di ordine sessuale. In questo senso, La chiave è un libro terribilmente erotico. [...] Ed è un libro, nella sua brevità, dotato di certe qualità importanti (importanti per un romanzo come questo, mi pare). Cioè, in sequenza: grande attenzione al profilo psicologico dei protagonisti, asciuttezza della lingua (dove spesso i libri erotici, veri o presunti tali, si perdono in barocchismi e ampollosità), un equilibrio del testo pressoché perfetto nel “non dire” piuttosto che nel “dire”: con il risultato che tutto ciò che il libro nasconde diventa intensamente desiderato dal lettore. A riprova (se mai ce ne fosse bisogno) del fatto che, in materia d’erotismo, meno si vede e meglio è».
Con ambientazione e datazione stravolte rispetto il romanzo originario, il cinematografico La chiave si svolge a Venezia, nei momenti immediatamente precedenti la Seconda guerra mondiale. John Brian Rolfe, detto Nino, anziano professore inglese, intellettuale e fine critico d’arte (interpretato dall’attore Frank Finlay), è sposato con Teresa, non più giovane, ma ancora molto bella, intrigante e avvenente (l’attrice Stefania Sandrelli, ai tempi trentasettenne). Entrambi sono alla ricerca di novità nel proprio rapporto sessuale. Rolfe ha un diario segreto, sulle cui pagine confessa le sensazioni e i desideri che sua moglie gli provoca; un giorno, lascia nel suo studio la chiave (appunto, La chiave) che apre il cassetto in cui tiene nascosto il diario nel quale racconta le sue fantasie erotiche più segrete. Teresa trova la chiave, apre il cassetto e comincia avidamente a leggere il diario. La fotografia, ora. Quando Rolfe si rende conto delle attenzioni che Laszlo Apony, il fidanzato della figlia Lisa (Franco Branciaroli e Barbara Cupisti), riserva alla propria moglie Teresa, escogita di mostrargliela nuda: appunto in fotografia. Da questo momento e su questa base, in comunità di intenti, Rolfe/ Nino e Teresa avviano una serie di eccitanti giochi erotici, che -complice la fotografia- riaccendono nella coppia una grande, estrema sensualità. Tralasciamo ora ulteriori considerazioni sul film, che non ci competono, e fermiamoci alla/sulla fotografia. Quindi, sorvolando anche affascinanti sequenze in camera oscura, inviolabilmente rappresentata in tono rosso diffuso, che il pubblico generico abbina appunto alla stampa fotografica, richiamiamo soprattutto Con la Leica, Laszlo Apony (l’attore Franco Branciaroli) fotografa Teresa (Stefania due situazioni con proSandrelli), durante una gita in riva al mare: posa provocatoriamente scomposta, tagonista la Fotografia: con gonna sollevata sulle gambe, per far intravedere fino al reggicalze. Questa una è a sviluppo immeè anche l’immagine simbolo del film La chiave, del regista Tinto Brass, del 1983. diato; l’altra parte da una Leica a vite coreografica.
Polaroid 95: è un errore! Ma non importa nulla, non soltanto poco.
Infatti, anche se la fotografia a sviluppo immediato prende ufficialmente avvio con la Polaroid Model 95, del novembre 1948, anni dopo i tempi narrativi di La chiave, di Tinto Brass, il suo inserimento nel film è assolutamente congeniale al racconto, all’evocazione di situazioni ed emozioni visive conseguenti la copia fotografica immediata (la Storia si racconta altrove).
Tanto più che, interpellato al proposito, il regista Tinto Brass ha potuto vantare un valore aggiunto di profilo più che alto, vertiginoso addirittura. La Polaroid 95 che appare nel film era di proprietà della moglie, Carla Cipriani, sorella di Arrigo, del marchio veneziano di ristorazione. Si tratta di un apparecchio donato ai Cipriani da Edwin H. Land in persona, durante un suo soggiorno italiano, commosso e appagato dal trattamento ricevuto alla Locanda Cipriani. Dunque, se proprio si dovesse sottolineare soltanto un errore di date, si dovrebbe mitigare ogni pretestuosa severità alla luce dell’origine della Polaroid 95
che compare in La chiave: che proviene Nel film La chiave, di Tinto Brass, del dall’inventore dello sviluppo immediato. 1983, la Polaroid Model 95 originaria viene Nel film, la macchina fotografica, nopresentata al protagonista John Brian vità assoluta dagli Stati Uniti, viene preRolfe (Frank Finlay) dall’artista Laszlo sentata al protagonista John Brian Rolfe Apony (Franco Branciaroli), fidanzato (Frank Finlay) dall’artista Laszlo Apony della figlia Lisa (Barbara Cupisti), che (Franco Branciaroli), fidanzato della figlia con trasporto gli vanta le prerogative Lisa (Barbara Cupisti). In una sequenza della fotografia a sviluppo immediato, nel suo studio, Laszlo Apony vanta le che concretizza in un ritratto posato del- prerogative della fotografia a sviluppo lo stesso John Brian Rolfe: in sequenza immediato, che concretizza in un ritratdalla presentazione alla copia su carta. to posato dello stesso John Brian Rolfe. Ora, come è ovvio che sia, questa Polaroid 95 diventa compagna inseparabile del protagonista, che la usa per fotografare la moglie Teresa mentre dorArchivio FOTOgraphia (2) me, scoprendone nudità complici: e queste stampe vanno ad arricchire il diario segreto delle sue fantasie erotiche. Anche la partecipazione Leica al film La chiave è con... errore! Ma non orrore! Ci manGià presente sulla copertina e controcopertina del catalogo della prima autorevo- cherebbe altro. le sessione d’asta Wetzlar Camera Auctions, del 5 ottobre 2019, in versione dorata Di certo è una Leica per la Leica IA Luxus, il mirino-telemetro verticale è superfluo/inutile con la Leica III a vite con Elmar 50mm (dedotta) del film La chiave, per l’appunto dotata di proprio telemetro incorpora- f/3,5. Essendo nera, doto con il mirino di visione. Comunque, la sua presenza in scenografia è congeniale a una visualizzazione accattivante, oltre che affascinante. L’oggetto è collezionisticamente quotato e apprezzato, tanto da far capolino in ogni asta dedicata. Come vrebbe essere una Leica III, prodotta dal 1933, ma non ci è stato possibile individuare altri elenella terza sessione Wetzlar Camera Auction, dello scorso nove ottobre, odierna menti inequivocabili guida per nostre considerazioni al proposito: su questo stesso numero, da pagina 26. di attribuzione e classificazione certe. Dato
ROBUSTE OSCENITÀ
Come annotato in molte occasioni, siamo soliti considerare il film Blow-Up, di Michelangelo Antonioni come una sorta di autentico e inviolabile spartiacque: della presenza della Fotografia al Cinema: da qui, si possono conteggiare tanti ed eterogenei prima-e-dopo.
In un tempo di grandi sommovimenti, ma di inquietante interregno espressivo, all’indomani di Blow-Up, rari sono stati i fotografi che apparirono sullo schermo in altre vesti che non quelle del sesso. Confondendo l’apparenza con la (tragica) realtà affrontata dal film di Michelangelo Antonioni, del 1966, sceneggiato sulla base del racconto Las babas del diablo / Le bave del diavolo, di Julio Cortázar, sono state molte (troppe!) le pellicole successive al di sotto del limite medio di accettabilità che giocarono la facile carta del fotografo senza scrupoli e privo di morale: «Il fotoamatore è diventato un maniaco sessuale, un appassionato del coito ripreso con la macchina fotografica», ha rilevato Maurizio Porro, sul leggendario mensile Photo 13, dell’ottobre 1971.
Così, registriamo la personalità del giovane playboy di Una storia d’amore, di Michele Lupo, del 1969, che campa seducendo e fotografando belle signore, che poi vengono ricattate. Circa lo stesso accade anche in Una lucertola con la pelle di donna, di Lucio Fulci, del 1971, con Florinda Bolkan e Jean Sorel. Invece, Le foto proibite di una signora per bene, di Luciano Ercoli, dello stesso 1971, proposero l’aggravante sadica, che però era già stata superata dal ricatto foto-erotico con slittamento verso l’omicidio di Vergogna, schifosi!, del precedente 1969 (con Lino Capolicchio; regia di Mauro Severino). I titoli dei film di questa tragica genìa rivelano subito la propria inconsistenza.
Con un salto temporale di una quindicina di anni, la fenomenologia porno-fotografica si abbinò successivamente al filone del film pseudo erotico italiano. Nel 1984, in Fotografando Patrizia, Salvatore Samperi, esponente di spicco del cinema di “pruderie”, presentò un sesso raccontato e spiato attraverso il torbido rapporto tra una sensuale donna di successo (Monica Guerritore) e il fratello minore, introverso, ipocondriaco e pornofilo (Lorenzo Lena). Poco dopo, con Le foto di Gioia, del 1987, Lamberto Bava portò sullo schermo un cast di grande richiamo sessuomane: Serena Grandi, (Capucine), Daria Nicoldi e Sabrina Salerno sono al centro di una storia contorta imperniata su una serie di barbari omicidi compiuti nella villa-studio di una piacente proprietaria di una rivista per soli uomini (uomini soli?).
Questo è pure il motivo conduttore, oppure il pretesto, delle due tornate di Sotto il vestito niente, con le quali Carlo Vanzina, prima (1985), e Dario Piana, poi (1988), hanno raccontato un certo mondo della moda e delle top model, che proprio allora cominciarono a contendere alle attrici internazionali il palcoscenico dello star system. Se possibile, Sotto il vestito niente 2 è addirittura peggiore del film originario, che era stato tratto dall’omonimo pasticciatissimo giallo parapsicologico di Marco Parma (pseudonimo usato da Paolo Pietroni, allora direttore del mensile Max).
Comunque, è un vero peccato che Blow-Up abbia innescato questa volgare escalation, perché -in precedenza- il sottile tema dell’oscuro rapporto potenzialmente stimolato dalla macchina fotografica e dalle proprie applicazioni aveva sempre trovato una ospitalità cinematografica soprattutto compiacente e garbata. Certo, registriamolo, l’apparizione sullo schermo della prima figura di donna fotografa, in Legittima difesa, di Henri-Georges Clouzot (Quai des Orfèvres, del 1947), si accompagnò con una oscura rappresentazione di un personaggio ambiguo, amorale più che immorale e -novità per il cinema di allora- dedito ad amori omosessuali. Però, bisogna considerare che il regista calcò i toni per sottolineare i pericoli e le nefandezze che si possono commettere sull’onda di un isterismo collettivo, ben noto a chi, come lui, era stato messo al bando (accusato di filonazismo) più per esaltazione e fanatismo che per prove reali e concrete.
Per quanto ci riguarda e compete, le tinte fosche del pessimismo di Clouzot non modificano il giudizio sulla grande stagione del più sereno e corretto accostamento cinematografico tra la Fotografia e la propria implicita proprietà indagatrice, magari anche erotica o pseudo tale o garbatamente tale, che si è esteso nei decenni e che non si è lasciato coinvolgere nei facili e banali slittamenti che abbiamo appena commentato, ma che si è mantenuto simpaticamente ammiccante.
FOTOgraphia Archivio
Edizione 1983 del romanzo La chiave, di Jun’chirō Tanizaki, pubblicata da Club degli Editori su licenza Fabbri-Bompiani-Sonzogno, con richiamo esplicito alla Fotografia (prima e quarta di copertina).
il doppio bottone di selezione dei tempi di otturazione (sul frontale, quello dei tempi lunghi, da un secondo a 1/20 di secondo, più la posa T), ogni altra versione plausibile è stata realizzata in sola finitura cromata. E non siamo riusciti a distinguere bene il disegno della calotta, che da sé basterebbe per una conferma. Ma queste sono quisquiglie.
In ogni caso, dove sta l’errore (presunto)? Nella inutile e superflua presenza del mirino-telemetro verticale, necessario soltanto con le prime Leica prive di accoppiamento al telemetro del proprio obiettivo di ripresa. Ma! Ma, diavolo, errore da specialisti a parte, questo mirino aggiunto ha una tanta e tale efficace presenza scenografica da averne motivata e giustificata la collocazione. Insomma, fa scena. Ovverosia, fa Cinema (che non è realtà). E tanto basta.
Questa Leica a vite è usata da Laszlo Apony per fotografare la suocera Teresa (Stefania Sandrelli), durante una gita in riva al mare. In posa elegantemente e provocatoriamente scomposta, sollevata la gonna sulle gambe, Teresa lascia intravedere fino al reggicalze: e questa è anche l’immagine simbolo del film, usata nelle locandine e nelle confezioni Vhs e dell’attuale Dvd.
A seguire, la copia di questo ritratto provocante, sottilmente erotico, diventa motivo conduttore della vicenda cinematografica che si avvia alla conclusione: la stessa Teresa ne tiene in mano una stampa bianconero mentre fa l’amore con Laszlo; il marito Nino si compiace in contemplazione, e poi la colloca nel suo ormai famoso diario, là dove Teresa può appagarsi a propria volta, andando a sfogliarne le pagine.
Sotto la stampa, sulla pagina, cosciente che la moglie sfoglierà il diario e ne leggerà le note, Nino riporta un proprio pensiero: «Teresa, I beg you lie to me if you must but tell me you only use him to provoke my lust» (Teresa, ti supplico di mentirmi se devi, ma dimmi che lo usi soltanto per provocare la mia lussuria).
Il senso del diario. ■ ■