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THE POINT OF NO RETURN
by The Pill
Punto di non ritorno
BY CHIARA GUGLIELMINA STILL LIFE ANDREA AVOLIO
Quello che vedo io è uno scenario catastrofico. Ma se al di là dell’orizzonte, oltre questa giovane angoscia, non intravedessi nell’alba una forza positiva, probabilmente non sarei ancora qui, tra queste pagine, a scrivere.
Nella vita, come in parete, la differenza la fa la forza d’animo. E noi coi nostri 25 anni, chi più chi meno, non sappiamo educare questo nostro spirito nato stanco. Il punto di non ritorno, in alpinismo, è una linea invisibile che ti separa dalla possibilità di trarti in salvo. Una volta superato quel confine, tornare indietro non è più possibile. Il punto in cui il salvagente che ti ha affiancato per l’intera navigazione d’un tratto svanisce. E tu puoi solo andare avanti assumendoti la piena responsabilità delle tue scelte. Anche di quelle sbagliate. Soprattutto di quelle sbagliate. Scegliere ci provoca attacchi di panico. Io ne ho avuti. E più siamo giovani, più il processo è amplificato. A nostra discolpa dico che se una volta, in gelateria, mio nonno poteva scegliere tra fragola o cioccolato, io ora ho: stracciatella, nocciola, crema, cioccolato, cioccolato bianco, cioccolato fondente, cioccolato senza latte e cioccolato senza cioccolato. Poi ancora: pistacchio, limone, fragola, melone, cocco, caffè, vaniglia, yogurt (della mucca, della capra, delle piantagioni di soia), fior di latte (non fatemi elencare le varietà di latte), menta, banana, mela verde, gianduia, puffo (che razza di gusto è?), malaga, mango (il mio preferito). Che poi che cosa ci fa il mango in una gelateria ai piedi del Monte Rosa? Poi ci sono i gusti senza lattosio, quelli 100% frutta, quelli senza glutine, quelli senza gelato, quelli senza gusto, quelli per i vegani, quelli per i terrapiattisti e quelli per gli influencer: sono coloratissimi e si sciolgono solo dopo essere stati condivisi su Instagram. Ah, e poi c’è il recipiente. “Cono o coppetta?” “Cono per favore.” “Va bene signorina, ma quale? Quello classico o con la glassa al cioccolato, senza glutine o senza zucchero, con la granella di nocciole o con gli zuccherini colorati intonati al suo feed? E la taglia? vuole un cono baby oppure piccolo, medio, standard, large, extra-large, maxi? Insomma signorina, mi dica che gelato vuole prima che finisca l’estate!” “Perché scusi, in inverno non posso avere il gelato?”
La mia è un’autocritica severa. Che non cerca un colpevole nelle cose intorno, ma che guarda con sincerità ai propri errori. Oggi è tempo per tutti di concentrarci solo sull’appiglio a cui abbiamo scelto di aggrapparci. Cercando, invece di un responsabile, il punto in cui siamo inciampati, infortunandoci fino a diventare così irrimediabilmente zoppi.
Ho conosciuto e chiacchierato con un personaggio unico di recente, un alpinista d’eccellenza in Valsesia, dal curriculum incredibi-
le e umile al punto da farmi giurare di non riportare il suo nome. Rispetto la sua decisione e vi parlerò di Italo Tendesane, classe 1935. Ai più curiosi tra voi confesso si tratti di un anagramma.
Lo conosco di fama, non di persona. Per contattarlo domando a un amico il numero di telefono e per la prima volta nella chat di WhatsApp appare un fisso: compaiono cifre geroglifiche come il prefisso 0163. “Cercalo qui, ti risponderà la moglie, non ha più l’udito di un tempo, parla dialetto e il cellulare non ce l’ha.” Non è che l’italiano non lo conosca, ha un’ottima padronanza della lingua, ma è naturale che si senta più a suo agio in quelle parole con cui si confrontava in parete coi compagni di cordata. Quando entra nel pieno del racconto, cambia lingua, cambia gesti, cambia tutto. Mentre racconta anticipa involontariamente i momenti di climax fregando i palmi delle mani sul tavolo in legno liscio, come a individuare, tra le venature, una qualche presa che gli rinforzi i ricordi. Aggrappa le unghie alla fessura che in centro unisce le assi di legno come se su quelle pareti ancora stesse scalando. Italo ci presta anche il suo Curriculum:
“Calendario di montagna dal 1964 al 2015”:
28-29 GIUGNO 1964: Dolomiti - Cima Ovest di Lavaredo - Parete Nord - Via Cassin
19 LUGLIO 1964: Monte Bianco - Grand Capucin - Via Bonatti Ghigo
2 AGOSTO 1964: Monte Bianco - Pyramide du Tacul - Via Ottoz
9 MAGGIO 1965: Monte Bianco - Aiguille du Midi - Via Rebuffà
16 LUGLIO 1967: Monte Rosa - Liskamm Orientale, Parete Nord - Via Neruda
6 AGOSTO 1967: Monte Rosa - Canalone Marinelli
3 SETTEMBRE 1967: Monte Rosa - Punta Dufour - Cresta Rey
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Queste solo pochissime tra le centinaia di ascese degne di nota. Oltre ad aver collezionato un palmares invidiabile sulle Alpi, Italo Tendesane ha viaggiato e scalato in tutto il mondo tra Perù, Pakistan, Kirghizistan, India, Nepal, Cina, Bolivia, Argentina, Equador. Qui, come gite e scampagnate rilevanti spiccano il Mera Peak (6.476m), in Nepal e il Diran Peak (7.266m), in Pakistan.
Italo non si definisce un vero e proprio alpinista, non ha fatto nulla che valga la pena ricordare dice. È buffo invece come a noi sbarbatelli basti comprare uno zaino vintage, appenderci un paio di tazze da campeggio e cucirci sopra una patch “The mountains are calling” o qualche altra frasetta figlia di un marketing spiccio per essere pronti ad autoproclamarci esploratori, avventurieri, o peggio, atleti capaci d’imprese eroiche. Alcuni fra noi si inventano addirittura imprese dal nulla e si elevano su uno scranno fai da te colpiti dall’effetto Dunning-Kruger: la distorsione cognitiva a causa della quale individui poco esperti in un campo tendono a sopravvalutare le proprie abilità auto valutandosi esperti a torto.
E la cosa più triste è questa divulgazione espressa che, tramite i social network, enfatizza ogni cosa restituendo un universo distopico che danneggia tutti.
I finti eroi cadranno presto dall’alto del loro piedistallo e, non avendo avuto la pazienza di perseguire un percorso che insegnasse loro l’arte della caduta, si schianteranno rovinosamente al suolo nell’incapacità di rialzarsi. Noi altri, noi spettatori più o meno silenziosi, più o meno critici, non sapremo più distinguere il reale dal fittizio finendo per non credere più in nulla. E, mancandoci lo scopo, non troveremo motivazioni per andare avanti.
Mi sembra che il mondo dello sport, che ho vissuto senza particolari meriti nei miei 17 anni di agonismo sugli sci, sia ormai governato da una monarchia autoproclamata: dove la nuova generazione ha proclamato per sé il titolo di monarca senza legami storici con la precedente dinastia. Perché nemmeno il più acuto tra gli osservatori potrebbe riscontrare una qualche somiglianza tra una come me e uno come Italo Tendesane.
Discipline che un tempo erano scoperta ed esplorazione, oggi sono sostanzialmente prestazione atletica. Questo non necessariamente perché uomini come Italo fossero migliori di noi nello spirito, ma in parte anche perché, banalmente, non c’erano alternative. E la mancanza delle stesse faceva piazza pulita da sé, eliminando ancor prima di arrivare ai piedi della parete, l’80% delle cordate. Un ecosistema capace di autoregolarsi in una sorta di selezione naturale. Oggi invece abbiamo da una parte i Big, professionisti che grazie all’allenamento intensivo e all’ausilio di mezzi sempre più sofisticati collezionano imprese di livello inaccessibile e, dall’altra, una calca un po’ piatta e assopita su un’arrampicata a bassa prestazione: sicura a ogni passo e al riparo persino dal più fioco soffio di vento.
In conclusione, quindi, meglio vie corte, vicino a casa, comode e magari con le panchette sotto per portarsi le fidanzate come personal photographer capaci di condividere “l’im-
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presa” live su Instagram, Facebook o TikTok. Magari nemmeno sei in cima che la tua lady ha già editato per te un bel video con la colonna sonora de “Il Gladiatore”. Con in testa solo il pensiero per la giusta caption invece che la ricerca del nuovo, di un potenziale rischio con la possibilità di ritrovarcisi immersi in quel dannato punto di non ritorno. Dove d’un tratto non v’è nulla e insieme tutto. Nessuna connessione sulle tacche dell’iPhone 12 Super Iper Pro, ma finalmente una connessione con il nostro Io da cui, sia mai rischiassimo di sentire qualcosa di vero, fuggiamo sempre più spesso.
Badate bene: è una critica severa, ma sono la prima a mettersi in croce, sudando e vergognandomi fra queste parole. Io stessa forse, se è una buona giornata, riesco a scalare appena un 6b e sogno già di diventare la fotografa di Hervè Barmasse. Non che il sogno sia vietato, ma la linea che lo separa dall’illusione è sottilissima.
Sì, una scelta c’è, ma se radicale porterebbe all’isolamento e, di conseguenza, al vivere al dì fuori della propria epoca e io, oltre a non volerlo fare, non me lo posso nemmeno permettere guadagnandomi la pagnotta con la comunicazione. Sento tuttavia un’esigenza unanime nel voler cambiare le cose e confido che la coscienza di ognuno ci porti insieme al risveglio in quell’alba che si fa più calda.
Concludo lasciando parlare il grande Italo e ringraziandolo per l’esame di coscienza collettivo che ha generato.
“20-21 agosto 2011: Tentativo alla Dent d’Hérens (4.171m) con Andrea e Marzia. Ore 12 e siamo al quinto ancoraggio, ci arrendiamo: mancano 120 metri alla vetta, ma richiedono ancora un’ora di salita e altrettanto per la discesa, le fermate sovrastanti sono intasate di alpinisti, almeno 40. Andrea manifesta stanchezza e incertezza nel salire le placche di roccia sgombre di neve con i ramponi, meglio desistere. Per ben due volte ho tentato questa salita in dieci giorni e per ben due volte ne ho avuto la vetta a portata di mano. Non ne sono dispiaciuto anzi, provo un profondo e intimo piacere, a 77 anni, nel porre fine alla mia carriera alpinistica con questa doppia sfida e insieme doppia sconfitta, su una bella montagna che mi ha concesso due giornate stupende. Il mio non è stato un mesto viale del tramonto, la mia resa è stata sul campo con l’onore delle armi. Nel mio cosiddetto palmares, la Dent d’Hérens mancherà ma, anche se l’avessi “fatta”, quante Dent d’Hérens restavano? E su quale avrei certificato definitivamente la mia età anagrafica in modo onorevole?”
Una cosa che possiamo fare noi millennials esiste e consiste nell’accettazione e nella consapevolezza che tutto è ciclico: siamo in una ruota. I nostri nonni si sono impegnati per lasciarcene una in ottime condizioni. Qualcuno poi l’ha logorata con la stessa disattenzione con cui la stiamo usurando noi oggi. Non siamo ancora al punto di doverla cambiare, ma è fondamentale ripararla presto affinché per i nostri figli possano godere di un viaggio più scorrevole.
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