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SIAMO TUTTI PANGEA
di Caterina Ademollo e Francesca Oriti
Giovedì 17 febbraio abbiamo avuto la fortuna di intervistare Luca Lo Presti, fondatore e direttore di Pangea Onlus, un’associazione per le donne di tutto il mondo, per chi vuole ricostruirsi una vita e ritrovare la pace, e per chi vuole aiutarle a raggiungerla. Pangea opera in varie zone del mondo, in Italia, in Afghanistan, o in India, e siamo andati a scoprire più nel dettaglio cos’è, cosa fa e come.
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Com’è nata Pangea?
Per caso, ero in missione, operando sul campo come volontario presso i campi profughi. Vedendo le situazioni di crisi, e la sofferenza dei bambini e delle famiglie, ho capito di dovermi attivare, ma anche di non poterlo fare lì, su due piedi, senza supporti o appoggi: invece che concentrarmi sui singoli individui, ho cercato di trovare il modo per aiutare più persone possibile. Ed è da questo desiderio che è nata Pangea: inizialmente senza obiettivo, abbiamo fatto un po’ più di fatica per stabilizzarci, ma poi pian piano abbiamo capito dove concentrare i nostri sforzi. Vedendo le varie problematiche dei bambini negli orfanotrofi, siamo poi arrivati a toccare in prima persona quelle che sono anche le situazioni al di fuori di questi, ovvero, com’è naturale, nelle famiglie: così ci siamo avvicinati alle donne, e siamo giunti a comprendere che, aiutando queste ultime, possiamo gradualmente portare aiuto anche ai loro figli, per evitare che esperienze magari violente o traumatiche possano poi avere ripercussioni sul bambino e sulle interazioni all’interno del nucleo familiare, introducendo così nuova sicurezza e consapevolezza riguardo al futuro che potranno costruire.
E per quanto riguarda l’azione di Pangea in Italia?
Qui in Italia agiamo attraverso il progetto “Reama”, nel quale le donne vittime di violenza sono ascoltate e formate affinché possano uscire dalla loro situazione e mettere la propria esperienza a disposizione di altre donne. Vengono inserite in un programma vasto che guarda al futuro, ad esempio con il progetto “Giovani donne: che impresa!”: Pangea prioritizza l’offrire soluzioni alle donne in modo che queste possano raggiungere un’autonomia economico-finanziaria e una propria vera capacità decisionale. Proprio per questo si impegna a fornire strumenti adeguati che le aiutino, in un percorso di accompagnamento, supporto, informazione e formazione per coloro che vogliano entrare nell’universo lavorativo realizzando la propria, unica e inimitabile idea di impresa. Un’esigenza più che mai attuale, viste anche le ripercussioni economiche che la pandemia in atto ha avuto soprattutto sull’universo femminile.
Quali erano le vostre iniziative in Afghanistan prima dell’avvento dei talebani? La nostra filosofia è sempre stata “ascoltare, accogliere e accompagnare”. Trovandoci immersi in un contesto culturale nuovo, la prima cosa da fare era capire le esigenze reali senza imporre la nostra visione del mondo. Tra le donne italiane ed afghane c’è una differenza sostanziale, infatti se quando accogliamo le vittime di violenza domestica nel nostro Paese il primo passo è ridare loro autostima, le donne afghane hanno già raschiato il fondo e non avendo quell’assurda necessità di nascondere il dolore e la morte che invece la nostra società impone, riescono a costruire importati reti di sorellanza. Chiaramente l’ascolto necessita di tempo, ad esempio la mortalità infantile in Afghanistan nella fascia 0-5 è una delle più alte al mondo quindi uno dei nostri primi obbiettivi era la costruzione di asili, ma non abbiamo voluto imporre delle istituzioni che magari poi sarebbero solo risultate inutili, abbia aspettato un arco di 10 anni durante i quali abbiamo agito aiutando le madri in modo che dopo averci dato fiducia fossero loro stesse a richiederci la costruzione degli asili. La nostra idea è sempre stata di creare un progetto di sviluppo, non tanto una rete di assistenzialismo, da qui deriva il microcredito. In realtà il progetto è nato all’improvviso come è nata all’improvviso la stessa Pangea. Ci trovavamo a casa di una donna afghana che possedeva un pollaio e una casa, ma con la guerra si era trovata a fronteggiare la concorrenza di Iran e Pakistan sulle uova e chiaramente non poteva abbassare il prezzo. Siamo arrivati alla conclusione che la cosa migliore sarebbe stata lavorare le uova per farne dolci e altri prodotti, dando alla donna una quantità di denaro necessaria ad attivare un’attività redditizia. Diamo alle donne afghane l’opportunità di accedere ad un microcredito che può variare da un minimo di 120 a un massimo di 500 Euro, da restituire nell’arco di un anno. Mentre le banche occidentali spesso si trovano con clienti fortemente indebitati, noi abbiamo un tasso di insolvenza del 2% perché prestiamo denaro a donne povere e non a uomini ricchi che lo userebbero per dei capricci, rendiamo subito chiari i tassi di interesse e su un ipotetico 10% riprendiamo solo il 5%, arrivando però a disporre solo con il tasso di interesse recuperato di 2000 euro da investire in ulteriori aiuti. Un’altra profonda differenza tra le donne italiane e quelle afghane è che queste ultime raramente fanno piani per il futuro perché non sanno se il giorno dopo loro e i loro figli saranno ancora vive. Il microcredito ha donato loro la speranza nel futuro, che ha portato di conseguenza all’istituzione degli asili fino ad arrivare ad un vero e proprio miracolo, la creazione di una squadra di calcio femminile di ragazze sorde di ogni età che giocavano allo stadio di Kabul sotto la supervisione dell’allenatore della nazionale femminile. Ovviamente tutto ciò si è infranto il 15 agosto dello scorso anno.
L’avvento dei talebani poteva essere evitato? Che azioni ha intrapreso Pangea dopo il 15 agosto? La guerra in Afghanistan è stata dichiarata esclusivamente per proteggere l’America e punire chi l’aveva messa in pericolo, l’intento di costruire una democrazia è stato dichiarato solo molti anni dopo dalla Segretaria di Stato Clinton, per analogia con la guerra in Iraq. Gli Americani hanno speso per questo conflitto 3 trilioni di dollari e se consideriamo che un pasto in Afghanistan costa appena 10 centesimi è una vergogna che questi soldi siano stati spesi in armi e non in alimenti per la popolazione affamata. Armi che peraltro sono sempre state inutili, sia quando i soldati occidentali combattevano effettivamente sul campo, dato che il Paese è geograficamente impossibile da conquistare, ma in particolare negli ultimi anni, da quando è stato deciso di proteggere i militari americani e alleati per evitare che le loro morti pesassero sulle campagne elettorali e di mandare a combattere invece i cosiddetti contractors. Queste truppe mercenarie, approfittando dell’assenza di una gerarchia organizzata, hanno perpetrato stupri, massacri e rapine, insomma soprusi affatto diversi da quelli dei talebani che quindi hanno ricominciato a guadagnare potere sulla popolazione. D’altra parte gli americani sono sempre stati rappresentati come coloro che vogliono portare via agli afghani il loro Dio, l’unica fonte di sicurezza per una società soggetta da sempre a dominazioni straniere e quindi all’analfabetismo e all’incertezza. C’è inoltre da considerare un fattore geopolitico determinante quale il conflitto tra Stati Uniti e Cina, che ha reso urgente l’abbandono delle guerre infruttifere come quella in Afghanistan, motivo per cui l’amministrazione Trump, accordandosi con i talebani a Doha, ha permesso alle truppe occidentali di mascherare la sconfitta sotto il nome più dignitoso di ritiro. Per quanto riguarda Pangea, abbiamo agito rapidamente, bruciando gli archivi in cui erano contenuti i nomi delle tante donne afghane che abbiamo aiutato negli anni in modo che non venissero perseguitate e redigendo delle liste per decidere chi potesse partire immediatamente verso l’Italia. Abbiamo trasformato un progetto di sviluppo in un’iniziativa volta ad affrontare l’emergenza umanitaria, infatti eroghiamo pacchi di alimenti a circa 80.000 persone e mettiamo a disposizione di donne e bambini delle safe houses, dove ospitiamo anche giornalisti perseguitati. E’ molto difficile salvare afghani portandoli in Italia perché i corridoi umanitari possono partire solo dai Paesi limitrofi e ci sono pochi visti a disposizione. Nonostante l’efficace propaganda e gli incontri a Oslo, in cui ci sono stati dialoghi tra talebani e attiviste, il nuovo governo rimane sempre e comunque uno Stato totalitario incapace di controllare una rete così vasta di rappresentanti che hanno potere di vita o di morte sulla popolazione e refrattario a qualsiasi tipo di dialogo perché l’interlocutore viene sempre incontrato da un kalashnikov spianato. Ringraziamo il direttore di Pangea per averci dedicato il suo tempo e invitiamo i nostri lettori a tenere viva l’attenzione sull’Afghanistan.