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PREMIO BUONA MEDICINA
UN CORTOMETRAGGIO, PER SMUSSARE GLI ANGOLI
L’oncologo Domenico Galetta racconta il suo incontro con il giovane migrante Dabo, da cui è nato il cortometraggio “Apolide”. Un messaggio di solidarietà, che lungi dall’essere politico, cerca di dare nuova speranza e significato all’essere medico.
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a cura della REDAZIONE
A Domenico Galetta, direttore dell’Unità operativa di Oncologia medica per la patologia toracica dell’Istituto Oncologico di Bari “Giovanni Paolo II”, è stato assegnato il Premio Buona Medicina 2019 “per avere esposto nel cortometraggio “Apolide” aspetti e circostanze che appartengono alla propria vita professionale e privata, al fine di testimoniare l’impegno costante di tutti i colleghi, basato sui valori fondanti della professione, quali la cura e l’accoglienza senza alcuna distinzione e discriminazione, che sono patrimonio irrinunciabile cui si ispira l’attività quotidiana di tutti i medici”. Nell’intervista che segue, gli abbiamo chiesto di raccontarci la sua esperienza e il messaggio che “Apolide” vuole lanciare.
Quest’anno le è stato conferito il premio la Buona Medicina per l’esperienza da cui è stato tratto il cortometraggio “Apolide”. Ci racconta come è nato l’incontro con Dabo, il migrante che ha curato per un tumore?
L’incontro con Dabo è stato un inatteso incontro professionale. Un giorno ho trovato questo ragazzo che non parlava minimamente italiano nel mio ambulatorio, accompagnato da un mediatore culturale e da una psicologa. Aveva un problema: una neoplasia polmonare avanzata. Questo primo contatto non è stato semplice a causa della difficoltà linguistica, che rendeva necessario, inizialmente, avere delle persone di supporto. Dovevano aiutarci a comunicare per cercare di comprendere anche le mere questioni mediche (terapie, effetti collaterali, consensi informati).
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APOLIDE È UN’OCCASIONE PER POTER DIRE: “PROVIAMOCI!”. PROVIAMO A CONSIDERARE CHE, SE SI HA LA POSSIBILITÀ DI AIUTARE QUALCUNO, LO SI DEVE FARE COMUNQUE. HO GUARDATO A DABO COME UNA QUALUNQUE PERSONA CHE AVEVA BISOGNO DI CURE, INDIPENDENTEMENTE DAL COLORE DELLA PELLE.
Ci siamo riusciti grazie alla perspicacia di Dabo. Successivamente, la lingua non è più stata un problema, data la umana possibilità di comunicare in mille altri modi. Durante la sua permanenza in ospedale, è iniziata una conoscenza “protettiva”, poiché in quanto medico avevo il compito di aiutarlo ad affrontare la malattia, ma anche un’amicizia. Non è stato difficile stabilire un contatto che non fosse solo medico, ma anche umano, essendo Dabo una persona dotata di grande simpatia innata. Così ho conosciuto meglio la sua storia. Dabo tiene a sottolineare che non è un migrante per povertà; la sua emigrazione è nata da un bisogno di miglioramento personale rispetto ad un paese che non lo rappresentava, la Guinea. Si è ritrovato poi a lavorare in Niger e in seguito, risalendo per raggiungere la Francia, imprigionato in Libia per ben sei mesi, dove ha vissuto situazio ni di estrema sofferenza. Ha dovuto pagare con il suo lavoro il riscatto per riconquistare la libertà e affrontare il viaggio verso l’Europa, pur essendo consapevole dei rischi che avrebbe affrontato in mare, dato che non sa nuotare. Sbarcato in Sicilia, la continua tosse che manifestava aveva fatto pensare ad un caso di tubercolosi, ma in realtà nascondeva un tumore polmonare.
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A VOLTE È COME SE LA COLPA SIA DEL MEDICO CHE NON SA CURARE LA MALATTIA, PIÙ CHE DELLA MALATTIA IN SÉ.
Qual è il messaggio che Apolide vuole veicolare al pubblico?
Questo doppio viaggio affrontato da un ragazzo di 27 anni - ovvero il viaggio attraverso il mare per raggiungere una condizione di miglioramento di sé e rispondere al proprio desiderio di crescita interiore e il viaggio nella malattia - mi ha colpito molto.
Ho pensato potesse essere utile raccontarlo come esempio di positività per lo stesso ragazzo, per la ricerca medica e per il nostro sistema sanitario che gli ha consentito di accedere ad una terapia che sicuramente in Guinea non gli sarebbe stata garantita. Il regista Alessandro Zizzo è stato molto bravo a trasformare questa storia nella metafora di una partita di calcio in cui Dabo affronta con la tattica questa sua personale sfida: potrebbe lasciare che un pallone entri in rete, ma potrebbe evitarlo con un bravo portiere in grado di parare il tiro insidioso. Un messaggio di positività come contraltare ad un quadro di casi spesso negativi per la sanità, nella speranza che possa essere anche contagioso.
In un momento storico come quello che stiamo vivendo, pensa che siano straordinari quei valori di accoglienza e di rispetto per l’altro, che dovrebbero essere, invece, alla base dei rapporti umani?
Uno dei miei timori iniziali riguardava il rischio che questo cortometraggio potesse essere trasformato in un messaggio politico. Il mio messaggio non è politico, è un messaggio di solidarietà, una parola che certamente adesso appare un po’ opaca. Mi piaceva pensare che si potesse avvertire forte il “sentire” di potere e di dover fare qualcosa per aiutare una persona, senza incorrere nella retorica. Apolide è un’occasione per poter dire: “Proviamoci!”. Proviamo a considerare che, se si ha la possibilità di aiutare qualcuno, lo si deve fare comunque. Ho guardato a Dabo come una qualunque persona che aveva bisogno di cure, indi pendentemente dal colore della pelle, a cui potevo offrire una possibilità di terapia e di cura. Il nome non è importante, si sarebbe potuto chiamare in qualsiasi altro modo, ma nulla sarebbe cambiato. È importante che si possa essere solidali. Tra l’altro, ho fatto un giuramento tanti anni fa, un giuramento che sento ancora vivo e spero di continuare ad avere la straordinaria opportunità di continuare ad esercitare la professione di medico.
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Deontologia professionale e valori umani: quanto c’è del medico e quanto di lei come persona nella storia raccontata da Apolide?
Non è facile essere medici oggi. E non voglio dire che la categoria dei medici sia una categoria perfetta. Tuttavia, assisto ad una trasformazione dell’idea del medico. A volte il peggioramento della malattia sembra più semplice da attribuire alla colpa del medico che non sa curare la malattia, più che alla malattia in sé.
Questo purtroppo non sempre accade, perché siamo di corsa, perché a volte siamo chiamati a fare tante cose diverse insieme. Ma io voglio essere ottimista e voglio provare a pensare che ci possa essere una terapia di miglioramento anche per l’essere medico. Sarò un idealista, ma non mi capacito all’idea di un medico che abdica all’essere medico; è troppo bello questo mestiere se si riesce a svolgerlo con la giusta dose di sentimento. La sanità è una delle attività che ruota attorno alla persona. E, siccome negli ultimi tempi ci siamo un po’ incattiviti, con il racconto della mia esperienza intendevo smussare qualche angolo di troppo che può far male a tutti, al medico come al paziente.
IL CORTOMETRAGGIO APOLIDE
Il cortometraggio Apolide, diretto da Alessandro Zizzo e prodotto dalla Sinossi Film e da Agorà, in collaborazione con Apulia Film Commission, racconta la storia dell’amicizia tra il medico oncologo pugliese Domenico Galetta e Dabo (Dabo Mohammed Lamine), un giovane della Guinea, costretto ad affrontare un doppio viaggio: quello verso l’Italia a bordo di un gommone e quello della malattia. Dabo è stato infatti curato per un tumore nel reparto di oncologia medica toracica del Giovanni Paolo II di Bari, che ha in qualche modo “adottato” il ragazzo. Protagonisti del cortometraggio sono gli attori Paolo De Vita (Domenico Galetta) e Alassane Sadiakhu (Dabo), con loro l’attrice brindisina Lidia Cocciolo e la francese Ludivine d’Ingeo.