A P R I L E 2015 . numero 112 .
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G UNO SGUARDO DIVERSO SUL M O N D O
Alaska: a tu per tu con gli orsi che amano i frutti di mare
Mensile - Germania € 11,50 - Canada CAD 14,00 - Usa $ 14,00 - Canton Ticino CHF 11,50 - Austria, Belgio, Francia, Portogallo, Spagna € 8,00
HAWAII Le isole della felicità
Poste Italiane Sped. in A.P. D.L. 353/03 art. 1 - comma 1 - Verona CMP
VACANZE Sei mesi a Maui, il paradiso dei surfisti TRADIZIONI Giro del mondo in canoa senza bussola
Storia
200 anni fa l’eruzione che ha cambiato il mondo
Ambiente
Così l’industria pesante ha avvelenato la Cina del Nord
Neuroscienze
La forza del pensiero ora può spostare gli oggetti!
Honduras
In cerca della “Città Bianca”, tra mito e realtà
il trekking è meglio farlo qui, in Liguria.
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la domenica notte è omaggio
DAL 10 APRILE AL 10 GIUGNO Ginnastica per il corpo e per l’anima: la Liguria regala benessere. La Liguria è una palestra a cielo aperto. Offre mille opportunità di svago per tutti: dal perfetto relax al divertimento puro, dal pieno di energia pedalando sulle suggestive piste ciclabili sul mare, al brivido estremo di fare free climbing sulle pareti di roccia, dall’Alta Via dei Monti Liguri con 400 Km di sentieri mozzafiato alla libertà di veleggiare in un mare di pace.
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editoriale
Cari lettori, presentare questo numero mi causa un certo, felice, imbarazzo. L’imbarazzo della scelta. Senza falsa modestia devo infatti dire che qualunque sia il vostro interesse in queste pagine troverete di che nutrirlo. Se amate la storia non perdetevi l’articolo sull’eruzione del vulcano Tambora, che esattamente due secoli fa ha cambiato il mondo in modi imprevedibili: per esempio ha contribuito all’invenzone della... bicicletta! Se VITTORIO EMANUELE preferite i viaggi avete la scelta tra un classico ORLANDO direttore di GEO paradiso tropicale come le Hawaii e un’avventura veorlando@gujm.it alla Indiana Jones in Honduras. Anche gli amanti degli animali possono scegliere tra orsi e gru. Chi si occupa di tematiche ambientali troverà pane per i suoi denti nel servizio dal Nord della Cina, dove è in corso una catastrofe ecologica di cui si parla troppo poco. E, come deve fare ogni imbonitore che si rispetti, ho tenuto il meglio per ultimo. Credo infatti che il reportage a pag. 58 sia davvero sconvolgente. Se finora, infatti, chi sosteneva di poter spostare gli oggetti con la sola forza del pensiero era sicuramente un ciarlatano (o un bravo illusionista), oggi non è più così. Grazie alle Bci (Brain Computer Interfaces) è infatti possibile, per esempio, leggere gli impulsi elettrici mandati dal cervello di una persona paraplegica e trasferirli ai suoi muscoli, col risultato di fargli muovere l’arto paralizzato. E le possibili applicazioni (nel bene e nel male) non si fermano qui. Insomma, la fantascienza non è mai stata così vicina.
3 GEO 04/2015
SOMMARIO APRILE 2015
26
DOSSIER HAWAII
Le isole dove tutto è possibile Alle Hawaii non troverete solo il fascino del paradiso tropicale da cartolina, ma anche foreste pluviali, deserti e vulcani spettacolari.
26
Un redattore di GEO e la sua famiglia si sono trasferiti per sei mesi sull’isola di Maui, il regno dei surfisti, per sperimentare se in questo paradiso i sogni possono davvero trasformarsi in realtà oppure se non è proprio tutto oro quello che luccica.
46
Kala Baybayan, una giovane donna hawaiana, racconta cosa l’ha spinta a raccogliere l’eredità del padre e a decidere di navigare per il Pacifico con una canoa tradizionale, senza bussola, sfruttando solo le conoscenze dei suoi antenati.
68 Le gru coronate grigie
In Ruanda sono considerate un portafortuna, ma rischiano di estinguersi. Riuscirà un giovane veterinario a salvarle?
82 Cina: eco-disastro
Un giornalista di GEO si è addentrato in un’area ad alta concentrazione produttiva, dove miniere e industria pesante stanno devastando il Paese dal punto di vista ambientale. Particolarmente colpito è il nord della Cina, dove la vita media degli abitanti è diminuita di cinque anni e mezzo.
4 GEO 04/2015
Geovision. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 6 Notizie dalla scienza e dalla ricerca. Agenda . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 23 Mostre, festival e appuntamenti.
102
In copertina PAESI Le isole della felicità. . . . . . . . . . . . . . 26 Sei mesi a Maui. Le 6 sorelle . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 43 Un arcipelago ai confini del mondo. Il viaggio di Kala verso le stelle . . . . 46 Racconto di un’ esperienza “salvifica”. Reportage IN UN’IMMAGINE Infografica. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 54 Commercio senza frontiere. SCIENZA La forza del pensiero. . . . . . . . . . . . . 58 Neuroscienze e disabili.
L’incredibile vita degli orsi sulle coste dell’Alaska
Il fotografo di GEO Ingo Arndt ha osservato per anni una popolazione molto particolare di grizzly che vive lungo le rive del Lake Clark National Park mangiando i cannolicchi nascosti nella sabbia e pascolando placidamente sui prati salmastri.
ANIMALI Chi salverà le gru? . . . . . . . . . . . . . . . . 68 Forse un giovane veterinario del Ruanda... AMBIENTE La zona grigia. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 82 Miniere e industria pesante erodono la Cina.
La potenza della mente
È possibile giocare a flipper senza muovere le mani? O comandare una sedia a rotelle col pensiero? Ora sì, grazie a una tecnologia che trasforma gli impulsi elettrici del cervello in segnali leggibili da un computer. Ma quali sono i limiti che non si devono superare?
IL RACCONTO Alla ricerca della leggenda . . . . . . 94 La Ciudad Blanca in Honduras, mito o realtà? NATURA Orsi di mare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 102 Le strane abitudini degli orsi bruni in Alaska.
58
STORIA L’eruzione che cambiò il mondo. . 122 La rivoluzione del vulcano Tambora.
122 Tambora
Nel 1815 avviene la più grande eruzione vulcanica della storia moderna, quella del Tambora. E persino l’arte si trasforma, sotto le nuvole di cenere di quella catastrofe ambientale.
VOLETE METTERVI IN CONTATTO CON NOI? ECCO COME FARE. Posta: GEO, via Battistotti Sassi 11/A, 20133 Milano E-mail: redazione@geo-italia.it Facebook: cercate la pagina Geomagazine In copertina: Makena, Maui, Hawaii, Usa/Corbis
5 GEO 04/2015
GEOvision
Antonio Bartuccio/Bildagentur Huber
IMMAGINI, STORIE E NOTIZIE DAL MONDO
Prospettiva su un dramma
Il Liberty State Park, a Jersey City, ha sempre regalato magnifici scorci. Infatti proprio di fronte alla città, nello Stato del New Jersey, si scorge l’estremità meridionale di Manhattan. Nel parco, il monumento Empty Sky (cielo vuoto) ricorda gli attacchi dell’11 settembre, e da più di tre anni mostra una prospettiva del tutto particolare sullo skyline newyorkese: due pareti parallele recano incisi i nomi delle 749 vittime residenti nel New Jersey, e al tempo stesso il monumento induce a dirigere lo sguardo verso il sito in cui sorgevano le Torri Gemelle e il nuovo One World Trade Center.
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Non solo rosso, sulla Piazza Rossa Colorate come caramelle, le cupole della Cattedrale di San Basilio si ergono verso il cielo di Mosca, all’estremità sud della Piazza Rossa. In origine la cattedrale, fatta costruire dallo zar Ivan IV, “il Terribile”, tra il 1555 e il 1561, era bianca con le cupole dorate; la sgargiante policromia è un’aggiunta fatta dalle generazioni successive. Oggi l’edificio funge da museo e solo occasionalmente vi si tengono ancora funzioni religiose. L’immagine è stata scattata da un drone del fotografo Sergej Semënov, specializzato in panorami aerei.
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Sergej Semënov/AirPano.com
Peter Stewart
GEOvision
Una magia di luci Un blocco di appartamenti che pare un caleidoscopio: la calda luce delle lampadine dietro alle tende colorate, o la luminescenza dei televisori e dei tubi al neon rischiarano i minuscoli spazi interni di un complesso abitativo popolare di Hong Kong. Per la sua serie Stacked (Accatastati) il fotografo Peter Stewart ha ripreso dal basso torri di appartamenti di questa metropoli da 7 milioni di abitanti: ripide pareti che convergono in prospettiva intorno a piccoli rettangoli di cielo notturno.
10 GEO 04/2015
GEOvision GEO ILLUSTRATION CHALLENGE 2015
Superare i confini. E trasformare l’immagine della Terra Con questo motto GEO, in collaborazione con l’Esa, Agenzia Spaziale Europea, ha indetto un concorso internazionale di grafica. Illustratori, designer o appassionati di Photoshop potranno divertirsi a dare alla Terra un altro volto. Il primo premio consisterà in una visita al centro spaziale di Kourou, in Guyana francese, per assistere al lancio di un satellite dell’Esa.
KARI/ESA
D
ATG madialab/ESA
allo Spazio si riconoscono nitidamente: ecco i confini tra deserto e terra fertile, tra regioni abitate e disabitate, tra fitta foresta pluviale e superfici deforestate. Questo è il volto della Terra. Meno facile, se non impossibile, è scorgere i confini tracciati dall’uomo: tra gli Stati, le etnie, le religioni, e tra i poveri e i ricchi. Le loro conseguenze, però, sono varie: a volte positive, altre meno, come mostrano le immagini dei campi profughi, dei barconi di immigrati o delle bidonville. E poi c’è anche un confine tra Terra e Spazio, marcato da una sottile striscia azzurrina: l’atmosfera. Gli oltre 30 satelliti che alimentano il Programma Copernicus di osservazione della Terra con immagini e dati di misurazione tengono tutti questi confini costantemente sott’occhio. I principali compiti del Programma Copernicus sono relativi al supporto e alla protezione dell’ambiente, del clima e degli oceani, nonché alla gestione delle catastrofi umanitarie, come stabilito dai suoi sponsor: l’Agenzia Spaziale Europea Esa, la Commissione Ue e l’Agenzia Europea dell’Ambiente Eea. Copernicus è il più grande programma
IL CONCORSO Il concorso di grafica “Transcending Borders-Superare i confini” indetto da GEO si colloca nel contesto del Copernicus Master di quest’anno, con il patrocinio dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa). Possono partecipare artisti, illustratori, grafici, designer, studenti e chiunque altro sia interessato. Il compito assegnato consiste nell’elaborare artisticamente, in base al tema proposto, immagini satellitari rese disponibili in una banca dati a partire dal 2 febbraio 2015.
LA PARTECIPAZIONE È possibile accedere a tutte le immagini satellitari dal sito internet geo.copernicus-masters.com. Dal 15 aprile 2015, gli interessati potranno iscriversi al concorso attraverso questo sito e inoltrare il loro contributo. La GEO Illustration Challenge termina il 13 luglio 2015, e i lavori inviati dopo questa data non verranno presi in considerazione. Per eventuali chiarimenti si prega di contattare per iscritto (in tedesco o in inglese) Lena Klemm, all’indirizzo e-mail klemm@anwendungszentrum.de
I PREMI Giorno e notte il satellite del programma Copernicus, Sentinel-1A, fornisce immagini radar della superficie terrestre.
Come denti aguzzi, le dune del deserto si protendono verso la fertile valle del fiume Tsauchab, in Namibia. La fotografia è stata ripresa dal satellite Kompsat-2, da una quota di 685 chilometri.
esistente di osservazione della Terra, e ogni anno il Copernicus Master premia le nuove idee per l’utilizzo dei dati forniti dai satelliti, per fare in modo che gli strumenti di osservazione che scrutano la Terra dallo Spazio possano svolgere nel migliore dei modi il loro compito ufficiale, ovvero: “contribuire a plasmare il futuro del pianeta a vantaggio di tutti”.
Una giuria valuterà gli elaborati. I 20 lavori ritenuti migliori saranno pubblicati online a partire dal 10 agosto, e tra di essi saranno selezionati i tre destinati a essere pubblicati su GEO e premiati. Il primo classificato riceverà un invito da GEO ed Esa a un viaggio in Guyana francese, dove in qualità di ospite potrà assistere nel 2016 al lancio di un satellite dal centro spaziale di Kourou, appartenente all’Agenzia Spaziale Europea.
13 GEO 04/2015
UN VIAGGIO NEL CUORE DELL’ASIA. TORNANO IN EDICOLA A GRANDE RICHIESTA
GEO. OGNI MESE UNA NUOVA IMMAGINE DEL MONDO
GEOvision Dimagrire con il freddo Le basse temperature aiutano a combattere il sovrappeso.
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Kentucky. Soprattutto in inverno il grasso corporeo diventa nettamente “più bruno”; queste cellule di colore beige generano calore corporeo e in tal modo bruciano energia. Lo stesso effetto è stato riprodotto artificialmente in un gruppo di soggetti di studio. Si può dire, insomma, che abbassare un po’ il riscaldamento nelle giornate fredde non sia una cattiva idea per buttar giù un po’ di peso. Purtroppo questo metodo per il dimagrimento soffre di un grave inconveniente: proprio nelle persone più sovrappeso (con indice di massa corporea superiore a 30) la trasformazione del grasso sembra funzionare in modo più inefficiente.
Col freddo si dimagrisce più facilmente.
imagebroker/ alamy
Il freddo rende grassi? Al contrario! Basta mettersi una borsa di ghiaccio per 30 minuti sulla pancia o sulle cosce, per perdere un po’ di calorie. Il freddo, infatti, trasforma le cellule adipose bianche, cioè quelle che immagazzinano energia, in grasso bruno (che ha funzioni termiche). Il grasso bruno si trova principalmente nei neonati, e serve a evitare che il loro corpo disperda calore troppo rapidamente. Negli adulti, invece, il corpo immagazzina quasi esclusivamente grasso bianco, ma a basse temperature questo cambia in parte colore, come ha scoperto recentemente un gruppo di ricercatori diretto da Philip Kern, dell’Università del
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OGNI MESE "PET CLUB" LE PAGINE DEDICATE AGLI ANIMALI DOMESTICI
Cetacei col talento per le lingue Getty Images
Le orche sono in grado di imparare il linguaggio dei delfini, lo hanno scoperto alcuni ricercatori a San Diego, California.
Brevi verdi
GAS DAI POZZI ABBANDONATI Che l’estrazione di petrolio sia dannosa per l’ambiente è cosa nota. Finora, però, non si era tenuto conto del danno che i pozzi petroliferi abbandonati possono arrecare alla natura. Alcuni studi della Princeton University hanno riscontrato che i vecchi fori di trivellazione sono responsabili delle emissioni di metano nell’ambiente circostante fino al 7 per cento. Le emissioni di questo gas, che inquina l’acqua e danneggia il clima, potrebbero essere impedite se i fori venissero chiusi. Solo negli Stati Uniti ci sono tre milioni di fori abbandonati.
MOSCHE IN VIA DI ESTINZIONE
Qui si parla la stessa lingua: le orche marine comunicano con i cugini delfini.
Il gruppo diretto da Ann Bowles, dell’Hubbs-Sea World Research Institut, ha registrato i segnali acustici emessi da 10 orche marine in cattività. Tre di loro vivevano da anni, in parchi divertimento acquatici, insieme a delfini tursiopi (Tursiops truncatus). Le altre sette avevano avuto contatti solo con esemplari della propria specie. Alla fine gli scienziati hanno confrontato i suoni emessi dalle orche con quelli dei delfini. Il risultato è sorprendente: le orche che erano rimaste esclusivamente con altre orche emettevano solo i richiami profondi e intermittenti che sono tipici della comunicazione sociale della loro specie. Le altre tre, invece, emettevano normalmente anche fischi e ticchettii: suoni che fanno comunque parte del repertorio delle orche, ma molto più comuni tra i delfini tursiopi. Una delle orche aveva perfino imparato a riprodurre una sorta di richiamo cinguettante che un addestratore
aveva insegnato ai delfini prima che questi fossero messi in comunicazione con le orche. La capacità di generare suoni che non sono catalogati nel repertorio genetico della propria specie è rara. Nel mondo animale ci sono solo tre gruppi di mammiferi e tre di uccelli ad avere questa capacità di apprendimento vocale: tra i mammiferi, oltre all’uomo, ci sono balene e pipistrelli, mentre tra gli uccelli, pappagalli, colibrì e alcuni uccelli canori. Era noto che le orche fossero in grado di imitare i richiami emessi dai leoni marini in modo da attirarli come prede. Con il “delfinese” dimostrano, però, di sapersi appropriare di una variante linguistica senza che sia legata a un’utilità dal punto di vista predatorio. Forse alle orche riesce facile l’apprendimento di “lingue straniere” perché sono abituate a cimentarsi con i “dialetti” della propria specie: ogni gruppo di orche, infatti, ha un modo proprio di comunicare.
Quando orsi polari o farfalle rischiano di estinguersi, l’opinione pubblica è molto sensibile alla questione; la scomparsa di parassiti, al contrario, lascia tutti indifferenti. Non è giusto, dicono gli zoologi ungheresi Lajos Rósza e Zoltán Vas, chiedendo che nella “lista rossa” vengano inseriti anche i parassiti che si estingueranno con gli animali che li ospitano: come la Gyrostigma rhinocerontis, una mosca le cui larve si sviluppano nello stomaco dei rinoceronti. Con questi animali, infatti, andranno perse anche preziose conoscenze.
La buona notizia! |
118
milioni di euro
verranno destinati alla Liberia, se da qui al 2020 metterà fine all’abbattimento delle foreste vergini e riserverà almeno un terzo della loro estensione ad aree protette. Per il momento, ancora metà della superficie di questo Paese dell’Africa Occidentale è coperta da foresta, ma nell’ultimo decennio il governo ha venduto, in parte illegalmente, concessioni di taglio per il 58 per cento delle aree forestali. Per salvare questa riserva naturale unica, la Norvegia ha stanziato questa cifra che rappresenta comunque una benedizione per un Paese dilaniato dalla guerra civile.
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Natural History Museum, London/alamy
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Juniors Bildarchiv GmbH/alamy
GEOvision
PERCHÉ... I POLLI MUOVONO LA TESTA A SCATTI? Un pollo costretto a muovere continuamente la testa per poter vedere.
P
roviamo a immaginare come si comporterebbero le persone se facessero come i polli: a ogni passo dovrebbero far scattare la testa in avanti, per poi ruotarla subito all’indietro. Da impazzire. Ma allora, perché la natura ha messo i polli in condizione di dover muovere incessantemente la testa a scatti? Questo comportamento consente al volatile di avere una visione più accurata di ciò che lo circonda. Le sue pupille, infatti, hanno una scarsa mobilità, quindi durante la corsa gli si offuscherebbe la visuale. Compensa questa mancanza facendo in modo, durante il movimento, che la testa venga mantenuta ferma relativamente all’oggetto per un tempo sufficiente a fissare un’immagine che possa essere elaborata dal cervello. Dopodiché, la testa scatta di colpo in avanti per ripetere l’operazione. Con questa tattica di ritardo gli uccelli simulano la visione tridimensionale, che a causa della posizione laterale degli occhi non sarebbe loro possibile. Per determinare la posizione di un verme, lo fissano prima con un occhio, poi lo riprendono da un altro angolo visuale e infine elaborano il tutto in una sola immagine in tre dimensioni.
bientali, sia dal punto di vista delle emissioni di metano, sia da quello della perdita di specie selvatiche. Quanto sia cruciale un’elevata biodiversità per la stabilità degli ecosistemi è stato dimostrato da David Tilman in una dozzina di esperimenti sul campo portati avanti per decenni presso il Cedar Creek Ecosystem Science Reserve nel Minnesota. Con grande pazienza, e indagini approfondite, Tilman ha dimostrato che le comunità vegetali caratterizzate da maggiore biodiversità sono più produttive e, grazie alla cosiddetta complementarietà di nicchia, sono anche molto più resilienti. Allo stesso tempo, ha sviluppato una teoria sulla competizione nelle comunità vegetali che permette di prevedere in che modo le varie specie di piante coesistono una a fianco dell’altra quando devono competere per una quantità limitata di risorse vitali. Per i suoi fondamentali contributi all’ecologia delle piante, e per le sue valutazioni su questioni applicative come la sicurezza globale dell’alimentazione o i biocombustibili, David Tilman è stato insignito a Roma del Premio Balzan 2014. Questo premio, considerato il Nobel del sud, viene assegnato dalla Fondazione Balzan, italosvizzera, in quattro categorie scientifiche, e ha un valore di un milione di franchi svizzeri. Gli altri vincitori del premio 2014 sono Ian Hacking (teoria della conoscenza), Dennis Sullivan (matematica) e Mario Torelli (archeologia). Il premio speciale “Per l’umanità, la pace e la fratellanza tra i popoli” è stato assegnato all’associazione Vivre en Famille.
Più allevamenti, più effetto serra Da qui al 2050, le emissioni di gas serra dovute all’attività agricola e alla produzione alimentare sono destinate ad aumentare dell’80 per cento. È l’allarme lanciato dai ricercatori statunitensi David Tilman e Michael Clarke, dell’Università del Minnesota. Attualmente il settore alimentare è responsabile di circa un quarto delle emissioni
mondiali di gas serra. In questo ha un peso preponderante l’allevamento di bestiame. L’aumento dei redditi e la crescente urbanizzazione fanno sì che i menu tradizionali, basati su vegetali, siano sempre più spesso arricchiti da pietanze a base di carne, il che induce a un’incessante crescita degli allevamenti con pesanti conseguenze am-
David Tilman (a sinistra) con l’ex presidente Giorgio Napolitano alla consegna del Premio Balzan.
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Premio Balzan
Aumenta la produzione di carne, olio e zucchero, con prevedibili conseguenze per l’ambiente.
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GEOvision Immagini della morte Getty Images
Ecco cosa riferiscono le persone che hanno subito una rianimazione cardiaca.
Sarà così la strada verso l’aldilà?
Sono sempre di più le persone che sopravvivono a un arresto cardiaco grazie alla rianimazione. E sono sempre di più quelle in grado di raccontare quello che è successo durante questo breve viaggio nella morte. Queste percezioni descritte, in realtà, sarebbero impensabili visto che dopo 20-30 secondi di mancato apporto sanguigno tutte le funzioni cerebrali vengono completamente meno. Recentemente, però, un gruppo di ricerca ha catalogato alcune caratteri-
stiche delle “esperienze di pre-morte” nell’ambito di quello che finora si può considerare lo studio più esaustivo sull’argomento. Il gruppo ha seguito 2.060 pazienti cardiaci dal 2008. Di essi, 330 sono sopravvissuti a un arresto cardiaco, e quasi la metà ha riferito sensazioni su quanto sperimentato. Il 39 per cento degli intervistati ha detto di avere provato, in concomitanza con l’arresto cardiaco, una “percezione di consapevolezza”; 27 pazienti hanno
dichiarato di avere avuto una cognizione del tempo fortemente rallentata, o al contrario accelerata; 22 persone hanno descritto una sensazione di pace. Solo 13 i sopravvissuti che si sono sentiti “separati” dal proprio corpo: un uomo è stato perfino in grado di riferire impressioni concrete sul trattamento ricevuto e sui medici coinvolti. Altri hanno descritto esperienze di pre-morte “classiche”, come luci abbaglianti, immagini di animali, paura o la sensazione di annegare.
SENTIERO MATILDE Segui i passi della Grancontessa di Canossa Parti alla scoperta del cuore matildico dell’Appennino Reggiano e Modenese. Scopri di più su: www.sentieromatilde.it Itinerari GPX, punti di interesse e strutture ricettive su: www.camministorici.it
Una terra dove la storia si intreccia con paesaggi di incanto e con una tradizione culinaria unica al mondo.
GEOvision I canguri dai piedi di piombo
Brian Regal
I simpatici marsupiali dall’andatura a balzi non sono sempre stati così agili nel corso della loro storia evolutiva.
Lo schizzo di un canguro dalla faccia corta in marcia.
Gruner+Jahr/Mondadori SpA Via Battistotti Sassi, 11/a - 20133 Milano
Direttore responsabile Vittorio Emanuele Orlando Ufficio grafico Francesca Abbate Redazione Paola Panigas Segreteria Daniela Pompili Hanno collaborato a questo numero Lars Abromeit, Ralf Berhorst, Jessica Grose, Sebastian Kretz, Ofelia de Pablo, Fernando Mazzoldi, Uwe Schmitt, Michael Stührenberg, Kim Tingley, Andreas Weber Traduttori Costantino Andruzzi, Riccardo Cravero, Fiammetta di Pierro, Elisabetta Lampe, Alberto Orlando, Maria Emanuela Pozzi, Massimo Scaglione Business Manager Barbara Ferro Subscription Manager Alessandro Scampini Coordinamento tecnico Valter Martin
Amministratore delegato e Chief Operating Officer Roberto De Melgazzi Direttore del personale e Affari Legali Lucio Ricci Direttore controllo di gestione Paolo Cescatti Publisher Magazine Elena Bottaro
GEO: Pubblicazione mensile registrata presso il Tribunale di Milano, n.
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Quando un canguro attraversa saltando la prateria australiana, ai nostri occhi appare come una creatura leggera. Tutt’altra impressione dovevano dare i suoi predecessori 100 mila anni fa: dovevano sembrare creature dal passo lento e pesante. Lo sostiene la biologa dell’evoluzione Christine Janis, della Brown University nel Rhode Island. La ricercatrice ha analizzato dal punto di vista biomeccanico fossili di canguro dalla faccia corta (Sthenurinae), una specie estinta, mettendoli a confronto con specie attuali. Ne è risultato che rispetto alle forme moderne, i canguri dalla faccia corta avevano una colonna vertebrale molto più rigida. In questi animali, l’andatura a balzi avrebbe comportato probabilmente feroci dolori alla schiena, soprattutto perché questi marsupiali pleistocenici erano molto grossi e pesanti. Gli esemplari più imponenti dovevano raggiungere un’altezza intorno ai due metri, e un peso di 240 chilogrammi. Anche la conformazione dei loro piedi, più adatta per camminare, depone a favore della teoria della Janis. È molto raro, invece, che un canguro, oggi, si metta a camminare per passettini. Questo comportamento si può osservare sporadicamente soltanto nel canguro arboricolo (Dendrolagus).
Stampa: Nuovo Istituto Italiano Arti Grafiche Arvato, Via Zanica 92 - 24100 Bergamo. Pubblicità: Mediamond S.p.A. - Sede centrale: Palazzo Cellini Milano Due 20090 Segrate (MI). Telefono 02/21025917 Mail info. adv@mediamond.it
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Julia Jäkel (chair) Oliver Radtke, Stephan Schäfer
Periodico associato alla FIEG (Federazione Italiana Editori Giornali) - Codice ISSN: 1826-8307 Accertamento Diffusione Stampa Certificato n° 7017 del 21/12/2010
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Cultura fuori dagli schemi Ai Frigoriferi Milanesi sbarca BookPride: l’orgoglio del libro non omologato. La prima edizione della fiera nazionale dell’editoria indipendente, che si propone di salvaguardare la “bibliodiversità”, si terrà a Milano dal 27 al 29 marzo. www.bookpride.it
Caccia green Dal Giardino Botanico Heller a Gardone Riviera, vicino a Brescia, fino all’Orto Botanico di Catania, Grandi Giardini Italiani propone per Pasquetta una caccia al tesoro negli spazi verdi più belli sparsi in giro per tutta Italia. www.grandigiardini.it
Rousseau a Venezia Fino al 5 luglio, l’Appartamento del Doge di Palazzo Ducale a Venezia ospita Il candore arcaico di Henri Rousseau. Una mostra dedicata al pittore francese che amava dipingere sia la “natura selvaggia” con le sue famose giungle, sia ritrarre la piccola borghesia francese con uno sguardo un po’ inquietante (nell’immagine, L’Enfant à la poupée, 1904-1905). www.mostrarousseau.it
Alveari urbani Le api, fondamentali per il ciclo vitale della natura, stanno scomparendo. Green Island inaugura il 14 aprile alla Stazione Garibaldi di Milano un’installazione con i migliori progetti di “alveari creativi” per la città. www.amaze.it
Streeat Food Truck Festival Dal 27 marzo le prelibatezze italiane (e non solo) del festival dedicato al cibo da strada di qualità su ruote fanno il giro del Paese. Prossime tappe: Firenze, Roma, Bologna... www.streeatfoodtruckfestival.com
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kolvenbach/alamy
Ricostruzione di come poteva apparire il volto di un Homo neanderthalensis, in mostra al Museo dell’Uomo di Neanderthal, vicino a Dũsseldorf.
VERIFICATE LE VOSTRE CONOSCENZE SU... L’UOMO DI NEANDERTHAL Nella realizzazione di questa pagina di quesiti abbiamo cercato alcune domande interessanti che toccano i più disparati campi della cultura avvalendoci della collaborazione di esperti del settore. Questa volta domande e risposte sono state preparate da Gerd-Christian Weniger, direttore del Museo dell’Uomo di Neanderthal di Mettmann in Germania. l’uomo di Neanderthal 1 Perché porta questo nome?
cosa cacciavano le prede gli uomini 2 Con neanderthaliani?
A | È stato ritrovato da Joachim Neanderthal B | Il nome scientifico delle sue arcate sopracciliari prominenti è neandertalos (dal greco “fronte sporgente”) C | I primi ritrovamenti noti di questo ominide sono stati fatti nella valle di Neander vicino a Düsseldorf
A | Con la clava B | Con arco e frecce C | Con le lance
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25 GEO 04/2015 Per le risposte girare la rivista
SOLUZIONI 1 C | La valle di Neander prende il nome dall’organista locale Joachim Neander, ed era una romantica stretta gola (thal) del fiume Düssel alle porte dell’attuale Düsseldorf. Qui nel 1856 alcuni operai in procinto di minare delle rocce rinvennero 16 frammenti d’ossa umane che consegnarono a Johann Carl Fuhlrotts, un professore della scuola media. Questi arrivò alla convinzione che si trattasse di resti fossili di una specie umana. Così iniziò la storia delle ricerche scientifiche sull’uomo di Neanderthal (nome scientifico Homo neanderthalensis). 2 C | Il fatto che i neanderthaliani vengano comunemente associati alla clava è dovuto alla leggenda dell’“uomo selvatico”, che è più antica della ricerca paleoantropologica. L’uomo selvatico nell’immaginario collettivo girava nudo, era irsuto, non sapeva parlare e portava con sé una clava. A queste credenze non sfuggirono nemmeno i primi paleoantropologi, e i neanderthaliani furono considerati in un primo momento uomini selvatici. Oggi si è scoperto che utilizzavano anche lance di legno e punte di selce lavorate con cura e usate come proiettili. L’uso di arco e frecce, invece, è documentato solo sul finire dell’era glaciale. 3 B | Le scanalature per la pulizia degli interstizi dentali ormai sono state riscontrate tra i neanderthaliani di tutta Europa. Sono dovute all’uso regolare di piccoli bastoncini o fili d’erba ricchi di silicato usati per la pulizia dei denti. 4 B | Già il primo ritrovamento nella valle di Neander mostra una frattura guarita male dell’avambraccio sinistro con grave limitazione dei movimenti. Il braccio sinistro era deformato. Tuttavia, l’uomo è invecchiato. Altri ritrovamenti a Krapina (Croazia) o Shanidar (Iraq) presentano ferite ancor più gravi, e addirittura amputazioni. Per sopravvivere questi individui dipendevano dall’aiuto del gruppo nel quale vivevano. 5 C | Tra i neanderthaliani e gli antenati dell’uomo moderno l’aspettativa di vita era uguale: arrivavano raramente oltre i 40 anni. Questo accadeva ancora fino al Medio Evo. Solo i più recenti progressi nella medicina hanno allungato sensibilmente l’aspettativa di vita, soprattutto grazie alla forte riduzione della mortalità infantile. 6 B | Questa tecnica di lavorazione della pietra fa la sua prima comparsa 200 mila anni fa, ed è stata usata dai neanderthaliani fino a 40 mila anni fa. Questo procedimento deriva il suo nome dal sito di ritrovamento Levallois-Perret, vicino a Parigi. 7 C | I neanderthaliani avevano il cervello più grande – con una media di 1.500 centimetri cubi. I sostenitori di un’immagine arcaica del neanderthaliano preferivano tacere questo fatto. Tuttavia le dimensioni del cervello da sole non sono un indicatore di intelligenza. Nell’uomo moderno, il cervello delle donne misura mediamente 1.245 centimetri cubi, e quello degli uomini 1.375 centimetri cubi. Il premio Nobel francese Anatole France con i suoi 998 centimetri cubi aveva un cervello di dimensioni inferiori alla media. 8 A | Nel 2010 alcuni studiosi di paleogenetica guidati da Svante Pääbo riuscirono a provare per la prima volta che dal punto di vista genetico il neanderthaliano e l’uomo moderno sono imparentati. La dispendiosa ricostruzione del patrimonio genetico dell’uomo di Neanderthal risultante dall’analisi del Dna ricavato da un frammento d’osso dimostra che ancora oggi fino al 4% dei geni di ogni europeo derivano dall’uomo di Neanderthal. In questo modo è stato possibile confutare la diversa interpretazione basata sull’analisi, meno determinante, del Dna mitocondriale.
A | Sì, il confronto con la ricostruzione del loro Dna dimostra che nell’uomo moderno europeo è presente circa il quattro per cento di geni del neanderthaliano B | Sì, infatti ancora oggi esistono molte persone con arcate sopracciliari molto pronunciate C | Sì, il neanderthaliano è l’antenato di tutti gli uomini sono imparentati 8 Iconneanderthaliani l’uomo moderno? A | Certamente, perché siamo sopravvissuti grazie alla nostra intelligenza superiore B | No, il volume del cervello dei due tipi di esseri umani è più o meno uguale C | No, il cervello dei neanderthaliani era di dimensioni più grandi cervello è molto più grande di quello 7 Ildinostro un neanderthaliano? A | Si tratta di un’analisi chimica speciale per provare la presenza di isotopi radioattivi in ossa fossili B | È un metodo per produrre utensili di pietra C | Il sistema utilizzato dai neanderthaliani per accendere il fuoco
6 Cosa si intende con tecnica Levallois? A | Solo 25 anni B | Quasi come quella nostra odierna C | L’aspettativa media di vita era tra i 30 e i 40 anni era l’aspettativa media di vita di un 5 Qual neanderthaliano? A | Alcune pitture rupestri raffigurano sciamani che curano uomini di Neanderthal feriti B | Alcuni scheletri presentano gravi ferite, che sono guarite, ma che devono aver provocato seri problemi all’uomo primitivo C | Nell’Europa Orientale sono state rinvenute lastre d’avorio incise, utilizzate per steccare le fratture possibile documentare che i neandertha4 Com’è liani si prendevano cura di malati e feriti? A | Sono stati rinvenuti spazzolini da denti in osso B | Gli interstizi tra i denti di numerosi neanderthaliani presentano scanalature dovute alla pulizia C | All’esame con il microscopio elettronico i denti presentano residui di una pasta organica usata per la pulizia cosa possiamo capire che i neanderthaliani 3 Da avevano cura dei loro denti?
LE ISOLE DELLA FELICITÀ PAESI
Esistono sei buoni motivi per andare nell’arcipelago delle Hawaii: Maui, Kauai, Oahu, Molokai, Big Island e Lanai. Sei isole ai confini del mondo che nell’immaginario collettivo rappresentano il paradiso sulla Terra. Un redattore di GEO e la sua famiglia si sono trasferiti da quelle parti per sperimentare se i sogni possono trasformarsi in realtà.
Testo Florian Hanig
VIVERE ALMENO UNA VOLTA in uno scenario da cartolina: sulla spiaggia di Chang, nella parte meridionale di Maui, ci si sente come Robinson Crusoe.
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Ron Dahlquist/Corbis
Fautre/Le Figaro Magazine/laif
LO SPETTACOLO DELLE CASCATE DI ONOMEA, nell’Orto botanico di Big Island, rapisce e contemporaneamente placa i sensi.
Brian Lowry/lavapix.com
IL KILAUEA continua a eruttare: al momento emette fino a mezzo milione di metri cubi di lava al giorno. Il vulcano è una delle principali mete turistiche di Big Island.
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GARA DI SURF sulla spiaggia di Waimea a Oahu. Su quest’isola, cavalcare le onde non è solo uno stile di vita, ma anche una materia scolastica.
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Intersection Photos
Anuradha Seth
INIZIA LA GRANDE AVVENTURA: Naveen, Anuradha e Nikhil con i loro bagagli, che devono bastare per sei mesi.
L’AEREO romba su di noi, inclinandosi per il volo di
IL SURF diventa presto una routine quotidiana per Nikhil e Naveen, subito dopo la scuola e prima di andare a casa a fare i compiti.
ritorno a San Francisco. Le palme ondeggianti sopra le nostre teste sembrano ballare la hula; così alte e slanciate, non hanno l’aspetto di alberi, ma di fiori giganteschi. Ci troviamo nel parcheggio davanti alla nostra auto presa a noleggio: abbiamo due valigie, una borsa da viaggio, una chitarra e poco altro. Un bagaglio di gran lunga più contenuto di quello che la maggior parte dei nostri compagni di viaggio si è portata dietro per una settimana di vacanza da sogno alle Hawaii. Noi invece vogliamo restare per sei mesi. Sei mesi a Maui. Ripensandoci, non abbiamo ancora capito come una pazza idea che ci è balenata in testa abbia potuto trasformarsi in un progetto concreto. Tutto risale a quando nostro figlio Naveen, che aveva appena terminato un corso di windsurf per principianti, ci disse che avrebbe voluto fare una vacanza sul Baltico, poi però cambiò idea e propose le Hawaii, tenendo in
mano una rivista che mostrava un gruppo di surfisti fare evoluzioni a cavallo delle onde. A un certo punto nella stanza dei ragazzi fece la sua comparsa una “cassa per le Hawaii”, ossia una scatola su cui mia moglie aveva dipinto fiori, palme e surfisti. Naveen e Nikhil, il fratello maggiore, la riempivano con i soldi (un bel po’ di monete!) guadagnati suonando il violino e il violoncello ai mercatini di Natale. Dopo una serata al liceo, durante la quale un gruppo di studenti aveva raccontato la loro esperienza di un anno scolastico trascorso all’estero, mio figlio mi chiese se potevo scrivere il mio prossimo articolo da qualche altra parte nel mondo. Ed eccoci qua in questo parcheggio, davanti a un furgone scassato prenotato via e-mail. Ci avviamo verso un bungalow nel verde, di cui abbiamo visto solo sei foto su un sito internet di alloggi per le vacanze. Dall’aeroporto prendiamo prima la strada in direzione di un vulcano spento, quindi ci dirigiamo a est dove attraversiamo campi di canna da zucchero e Paia, una cittadina dove sembrano esserci solamente negozi di surf e bikini. Infine a destra appare il cartello Hookipa Beach Park. I ragazzi, 13 e 15 anni, non stanno nella pelle; parcheggiamo sulla scogliera che domina uno dei punti per fare windsurf più famosi al mondo, quello della rivista che Naveen stava sfogliando quattro anni prima. Il sole sta già tramontando, al largo si vede solo una vela. Ci sediamo sugli scogli e ci prendiamo per mano in silenzio: davanti a noi rimbombano le onde della baia, in una luce dorata a intervalli di sei o sette secondi. È come se stessimo osservando il respiro della natura. Mezz’ora dopo raggiungiamo un piccolo bungalow immerso nella vegetazione tropicale, che sarà la nostra casa nei prossimi mesi. Provo a spegnere il navigatore satellitare e, per sbaglio, premo il pulsante di riduzione dello zoom. L’isola si rimpicciolisce in un attimo, finché non resta che il simbolo di un’auto che galleggia in mezzo al Pacifico, a circa 3.700 chilometri di distanza dalla terraferma, con la scritta “Siete giunti a destinazione”.
Anuradha Seth
PRIMO GIORNO DI SCUOLA. I 20 allievi dell’Hale-
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akala Waldorf High School stanno seduti sotto due enormi “alberi della pioggia” (Samanea saman) che lasciano penzolare le loro radici aeree sul prato verde. Una ragazza hawaiana canta una benedizione con voce profonda, mentre due danzatrici in vesti di lino bianche ondeggiano seguendo il ritmo, poi gli insegnanti mettono un lei, una ghirlanda, intorno al collo
Jen Judge
A PAIA, nell’isola di Maui, le case vengono recintate con vecchie tavole da surf. Nel paesino sembrano esserci praticamente solo negozi che vendono surf e bikini.
Jen Judge
IL CHIOSCO VARIOPINTO di Julia, che si trova a Maui sulla strada per Honolua Bay, mette chiunque di buonumore.
VIVERE IL SOGNO. Una frase che, nelle prime setti-
mane, sentiamo quasi tutti i giorni. È il mantra di tutti quelli che sono arrivati qui, per esempio un neurochirurgo di Pittsburgh, negli Stati Uniti, che è andato in pensione a 50 anni e si è trasferito a Maui con i suoi sei figli. Durante la festa in piscina, alla quale ci invita, siamo gli unici a non indossare bermuda e bikini. La madre di un compagno di scuola dei miei figli, ex olimpionica di pallavolo statunitense, ci spiega che nel bagagliaio della macchina ha sempre maglietta e due pezzi da mettere in caso di qualche party improvvisato. Poi posa il suo bicchiere di chardonnay e si tuffa a testa in giù nella piccola cascata in fondo alla piscina. In seguito uno dei figli ci indica il doppio garage, pieno zeppo di tavole da surf e windsurf, vele, biciclette da corsa e moto: un paradiso agli occhi di un adolescente. Vivere un sogno! È il desiderio anche di una giovane francese, che insegna yoga in un gazebo di bambù
Jen Judge
di ogni studente. Le due aule si trovano in un’ex residenza all’interno di una piantagione dell’Ottocento; anche lo scheletro per le lezioni di biologia è ornato con una corona di fiori. Il complesso scolastico sorge su un’area grande come un parco, dove scorrazzano uccelli mai visti prima. Mia moglie mi sussurra nell’orecchio che il posto è quasi commovente da quanto è bello. Il nostro bungalow dista solo 200 metri da un vecchio stabilimento di ananas, ora sede di varie aziende di surf e windsurf. Già alla prima visita facciamo conoscenza con cinque dei dieci surfisti professionisti i cui poster campeggiano nelle stanze dei miei figli. Francisco Goya, protagonista di un film sul windsurf visto più volte nelle lunghe serate invernali nella nostra casa di Amburgo, ci scrive il codice numerico per aprire la sbarra davanti al suo residence, invitandoci ad andarlo a trovare quando abbiamo tempo. Qualche giorno dopo salva Naveen prima che venga sbattuto sugli scogli di Hookipa con tavola e vela. Goya assicura a nostro figlio che una cosa del genere è capitata anche a un campione del mondo come lui. «Benvenuto nel club!». Gente cortese e aperta, giardini con alberi di papaya e avocado, tre o quattro arcobaleni al giorno, la vista panoramica delle gole del monte Puu Kukui avvolte nella nebbia e l’oceano. È tutto vero? Non vediamo quasi l’ora di passare per il porto fatiscente di Kahului sulla strada per Kanaha Beach Park, dove a volte andiamo a fare windsurf. Una piccola dose di “bruttezza terapeutica”, per così dire.
FRUTTA IN ABBONDANZA: gli ananas che avanzano vengono venduti nel giardino di casa.
circondato dalla giungla sulle colline di Haiku e ci fa mettere in posizioni nelle quali le nostre schiene scricchiolano pericolosamente. Ed è quello che si è riproposta la famiglia italo-americana che ha venduto il proprio ristorante a Los Angeles, dove il figlio obeso veniva preso costantemente in giro. E noi, non stiamo forse vivendo il sogno dei nostri figli? E anche il nostro sogno, che ha preso corpo nelle interminabili e grigie giornate d’inverno? MAUI È UN’ISOLA DI SOGNATORI. All’interno di
Mana Foods, il negozio di prodotti biologici di Paia, ci sono decine di manifesti che pubblicizzano cerimonie di purificazione buddiste, sedute psicoterapeutiche, meditazioni con campane tibetane, massaggi tantrici del corpo astrale. Su quasi tutti compare la tipica formula di saluto hawaiana aloha, che, come ci spiega un cameriere del Colorado, significa «Vedo in te la presenza di Dio». Un termine che indica il concetto di amore incondizionato. Anche noi impariamo presto a rispondere al telefono dicendo «Aloha!» oppure a fare il segno dello shaka (il saluto dei surfisti, che significa “Va tutto bene”) con disinvoltura dal finestrino se vediamo un guidatore imbranato che parcheggia la sua macchina davanti alla nostra. Il proposito, quasi ossessivo, di vivere i propri sogni carica l’isola di un ottimismo inebriante e ci tiene uniti in modo indissolubile. Il giardiniere del nostro
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Anuradha Seth
PORTE E FINESTRE SEMPRE APERTE in un’atmosfera meravigliosamente tranquilla, che invoglia a fare yoga o a rilassarsi.
vicino ci mette delle banane sulla veranda e noi ci “vendichiamo” con il pane appena sfornato. Eppure a volte nella nostra mente si insinua anche una strana sensazione, perché tutti i sogni restano sospesi uno accanto all’altro come cangianti bolle di sapone, senza mai legarsi a questa nuova cultura. E qui l’importazione di tradizioni straniere assume forme singolari: quando gli studenti di seconda superiore della nostra scuola mettono in scena il Ramayana, il grande poema epico indiano, i genitori fanno addirittura arrivare musicisti dalla California, ma la spiegazione dell’opera nel volantino è così riduttiva e inesatta che mia moglie, nata in India, quasi inorridisce. Durante la prima settimana tutti ci salutano con il classico «Aloha». Sono per lo più forestieri come noi o discendenti dei lavoratori stranieri giunti nell’arcipelago a partire dal 19° secolo e provenienti dalla Cina, dalle Filippine, ma anche dal Portogallo. Quando incontro il primo hawaiano “autentico”, mi urla contro. È in acqua e sta pescando, e io mi sono impigliato nella sua lenza con il windsurf. L’uomo, che ha occhi piccoli e arrossati, tipici di chi fuma erba, inizia a colpirmi, gridando che era lì prima di noi e che dobbiamo andarcene. Tornato a riva, penso se chiamare la polizia o no, ma gli altri surfisti, tutti bianchi americani, mi dissuadono, perché i poliziotti sono hawaiani come il mio aggressore e non gli farebbero niente.
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Allora torno vicino al pescatore, che mi guarda con un ghigno provocatorio, e gli mormoro sottovoce: «Aloha!». Da dove scaturisce questa rabbia? Una settimana dopo, sul nostro divano è seduto un uomo, membro del “Regno indipendente delle Hawaii”. Un sacerdote guerriero, dalla cui fronte parte una linea di triangoli neri che passa sopra la palpebra e la guancia e arriva fino al collo. Anche il resto del corpo è coperto di tatuaggi che incutono timore, in forte contrasto con il suo sorriso amichevole. Ci spiega che le Hawaii hanno un’economia basata sullo sfruttamento coloniale. I missionari cristiani e i primi commercianti hanno sottratto la terra e l’acqua, beni che in passato erano proprietà comune, agli abitanti locali e hanno creato grandi piantagioni, i cui prodotti, all’inizio l’ananas e da 20 anni soprattutto la canna da zucchero, vengono esportati negli Stati Uniti via mare. Il consumo idrico delle piantagioni e dei campi da golf nel sud di Maui, per esempio, lascia poco o niente per le coltivazioni di colocasie o banane. Gli hawaiani non sono più autosufficienti e sono costretti a importare merci dall’estero; in questo modo gli americani guadagnano due volte, grazie alle esportazioni e alle importazioni, e i mercantili non devono viaggiare vuoti. In effetti, quando facciamo la spesa ci accorgiamo che quasi niente di ciò che mangiamo è di provenien-
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FORESTE DI BAMBÙ sulla strada verso Hana, lungo la costa settentrionale. Con il vento forte se ne sente sempre il fruscio.
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Jen Judge
LE SPADE D’ARGENTO (Argyroxiphium sandwicense) possono raggiungere i 50 anni di età, ma fioriscono solo una volta. Si tratta di una specie endemica di Maui: nella foto si vedono numerosi esemplari di queste piante sul cratere dell’Haleakala.
za locale: l’acqua di cocco viene dalla Thailandia, il succo d’arancia dalla Florida, le patate dalla California. Esiste ovviamente anche un altro punto di vista: sull’aereo una giovane statunitense, direttrice di una catena di grandi magazzini, ci ha detto che gli hawaiani non hanno alcuna voglia di darsi da fare. Sam, l’elettricista che deve sostituire i nostri ventilatori da soffitto con altri più potenti, ha con sé il suo cane, ma non le pinze. Fissa il cavo con del nastro adesivo, chiacchierando con mia moglie sull’India, sull’induismo e su Nelson Mandela. Poi ci racconta che la sua famiglia acquisita lo ha cacciato di casa. Nel frattempo va a fare un po’ di surf, infine mi chiede di dargli una mano a spostare il letto. Gli faccio notare che è avvitato alla testata, al che lui si gratta la testa. A fine giornata i ventilatori sono finalmente in funzione, peccato solo che girino più lentamente di quelli vecchi... In qualche modo possiamo anche capire che gli hawaiani non credano al sogno americano di arricchirsi lavorando duramente, perché in questa parte del mondo il benessere non dipende certo dal lavoro. La ricchezza del nostro locatore si fonda su un sito internet di medicina omeopatica per cani. Uno dei padri degli studenti della scuola ha venduto – pare per diversi milioni di dollari – una casa discografica specializzata in canti delle balene e suoni della natura. Una coppia australiana racconta che, durante il boom economico cinese, ha centuplicato i propri investimenti alla Borsa di Hong Kong nel giro di pochi anni e che è venuta a investire qui per mettere al sicuro tutto il denaro. Quella in cui spesso ci si imbatte a Maui è una sorta di ricchezza irreale, come irreali sono i tramonti di colore arancio, rosa e porpora, con le nuvole infuocate, spettacolari come in nessun’altra parte del mondo perché tra gli ultimi raggi del sole e il Pacifico non ci sono montagne o case. Vivere un sogno senza soldi in tasca però è molto più faticoso. Veniamo a sapere che l’insegnante di nostro figlio arrotonda lo stipendio durante i fine settimana lavorando come parcheggiatore in un albergo a cinque stelle; tra i clienti ci sono anche i genitori dei suoi studenti, che gli danno la mancia. Altri cercano di rivendere il “paradiso promesso” che li ha spinti a venire quaggiù. Infatti dopo ogni festa abbiamo le tasche piene di biglietti da visita di nuovi amici, agenti immobiliari di professione o come secondo impiego. Alle Hawaii i nuovi venuti servono per finanziare chi è arrivato prima di loro. Ma per fortuna non tutti so-
no così scorretti come il nostro vicino Steve, un colosso con la barba bionda che guida una Land Rover molto rovinata, sulla quale è attaccato un adesivo del Fronte di liberazione dei delfini. Tempo fa Steve si è introdotto di nascosto in un centro oceanografico come guardiano, per poi liberare i delfini che vi erano ospitati. Un giorno entra in casa nostra senza bussare e ci accusa di essere andati a sbattere contro la sua macchina. L’ammaccatura non presenta segni di vernice e Steve non intende chiamare la polizia, ma pretende 2 mila dollari di danni dal nostro padrone di casa. Nella nostra strada non si possono affittare alloggi turistici per brevi periodi, quindi Steve ci ricatta: non dirà niente, ma vuole una parte della quota di affitto. Dopo che gli abbiamo dimostrato di avere un regolare contratto di locazione, ci fa solo qualche cenno con il capo brontolando. VIVIAMO IL NOSTRO SOGNO E, DOPO QUATTRO MESI A MAUI, SIAMO DAVVERO ESAUSTI delle
dieci ore di sole al giorno, che abbiamo rimpianto una volta tornati ad Amburgo, ma che adesso ci sentiamo sulla pelle malgrado la crema solare con fattore di protezione 50. Siamo stanchi dei 25 gradi di notte che ci tolgono il sonno, stanchi di viaggiare, perché Maui sarà anche una piccola isola, ma le distanze sono notevoli. A volte torniamo a casa la sera e ci accorgiamo di aver fatto 100 chilometri solo per accompagnare i figli a scuola, per essere andati a fare acquisti e un po’ di surf. Ma i nostri ragazzi sono come rinati e non sembrano diversi dai giovani di Maui: hanno i capelli schiariti, la carnagione abbronzata e la pelle sempre salata. Dopo la scuola li portiamo in spiaggia, dove si mettono a cavalcare onde che a noi fanno venire il batticuore, mentre a loro fanno impazzire. Partecipano all’Aloha Classic, la mitica competizione internazionale di windsurf, e sognano di fondare una società come quella di David Ezzy, che prima disegnava vele per una grande azienda, ma non poteva più sopportare che gli operai dello Sri Lanka fossero esposti a gas tossici. Con loro ha quindi formato un collettivo per continuare a produrre secondo lo spirito di Maui, ossia nel rispetto dell’uomo e della natura. O magari i nostri ragazzi sognano di diventare come il loro idolo Francisco Goya, che fa sempre di corsa gli ultimi metri dal furgone all’acqua perché non vede l’ora di provare le sue nuove tavole. In alternativa potrebbero immaginarsi una carriera di musicisti reggae come il nostro amico Mishka, nel cui appartamento prendiamo parte a una rilassata e
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Michael S. Nolan/alamy
UNA MEGATTERA salta fuori dalle acque del canale di Auau, al largo di Maui. Uno spettacolo unico per chi ha la fortuna di assistervi.
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NATALE A MAUI. Davanti alla caserma dei vigili del
fuoco di Paia è stata collocata una gigantesca palla in plastica trasparente, nella quale una slitta è avvolta da fiocchi di neve; a Hookipa alcuni surfisti indossano cappucci di Babbo Natale in neoprene e nei giardini si vede la neve artificiale, così abbagliante sotto il sole dei Tropici da costringere i guidatori che passano di lì a indossare gli occhiali scuri. Sarà forse per via del Natale che ci sentiamo improvvisamente così stranieri qui? Siamo colpiti dal culto del corpo sulla spiaggia, dalle ragazze, tutte uguali, che si tirano indietro i capelli biondi guardando i loro smartphone attraverso occhiali da sole quasi più grandi dei bikini che hanno addosso. Gli argomenti di conversazione sono sempre gli stessi: l’altezza delle onde, il moto ondoso e così via. La televisione trasmette notizie che parlano per mesi esclusivamente della riforma sanitaria di Obama. Qui c’è anche il mito degli autoveicoli extralarge, incarnato in modo incredibilmente pacchiano dal celebre surfista Robby Naish, che ha un camion di cinque tonnellate, il cui motore aspira la benzina da un serbatoio della capacità di ben 590 litri. Non possiamo mandare i nostri figli nemmeno all’ex stabilimento di ananas, distante solo 200 metri, perché la strada tortuosa non ha un marciapiede e agli automobilisti locali piace tagliare le curve. Al termine del nostro soggiorno i ragazzi non vedono l’ora di tornare a prendere la bicicletta e la metropolitana ad Amburgo, liberi di andare a trovare gli amici senza dover essere sempre accompagnati in macchina dai genitori. Dopo cinque mesi l’ebbrezza liberatoria di essere lontani, dall’altra parte del pianeta, si trasforma nella sensazione di essere caduti nel vuoto, di restare tagliati fuori dal mondo, ma proprio nel momento in cui il nostro amore per Maui ha toccato il fondo, l’isola riesce a sorprenderci ancora una volta... Nel viaggio da Paia a Haiku mia moglie comincia improvvisamente a gridare. Fermo l’auto sbandando, poi seguo la sua mano protesa dal finestrino e vedo una femmina di megattera e i suoi due piccoli. A neanche 100 metri dalla battigia saltano in alto e ricado-
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no all’indietro, sollevando in aria enormi fontane d’acqua. Tutti i surfisti hanno rivoltato le tavole e lasciano passare le onde migliori: sono troppo presi dalla leggiadria del “balletto” di questi cetacei. Tre giorni dopo è Capodanno. Qui a Maui sono vietati fuochi d’artificio e razzi, e si respira una strana atmosfera. Molti dei nostri nuovi amici sono andati a trovare le famiglie sulla terraferma. Ci sentiamo un po’ soli e, poco prima di mezzanotte, scendiamo in strada portando solo qualche bicchiere e una bottiglia di spumante. Notiamo che, sopra di noi, c’è un meraviglioso cielo pieno di milioni di stelle così lucenti, così lontane e allo stesso tempo così vicine che quasi ci fanno girare la testa. Si vedono la Via Lattea e Andromeda in tutta la loro eterna e immobile magnificenza, al cospetto della quale la nostra vita appare misteriosa e piccola come un granello di polvere. Poi arrivano alcuni vicini di casa mai visti prima. Da una borsa estraggono delle lanterne cinesi, che i nostri figli guardano con gli occhi sgranati. Gli sconosciuti ce ne regalano un paio e mostrano ai ragazzi sempre più eccitati come accendere lo stoppino imbevuto di petrolio per riscaldare l’aria contenuta nell’involucro fatto di carta di riso. Con cautela, i ragazzi rilasciano le lanterne volanti, che salgono in cielo insieme ai loro desideri per il nuovo anno, diventando due punti che brillano di una luce gialla e rossa. Le lanterne oltrepassano di poco la linea elettrica, arrivano a 30-40 metri di altezza, quindi vengono spinte in direzione del mare. «Aloha», dicono i nostri vicini. «Aloha», rispondiamo noi, mentre guardiamo le due “lucciole del cielo” che vagano nella notte. I ragazzi non ci svelano i loro desideri, ma noi sappiamo che un giorno vorrebbero ritornare alle Hawaii.
Anuradha Seth
piacevolissima festa del Ringraziamento, con tacchino di tofu per i vegetariani, tacchino tradizionale per gli altri e torta di zucca per tutti, mentre di sera i bambini giocano a nascondino tra gli alberi di banane e papaya e si inviano messaggi segreti in codice Morse con le torce elettriche.
Il redattore di GEO Florian Hanig, 46 anni, oltre a scrivere questo reportage su Maui, ha scoperto una nuova vocazione: quella di “portatavole” dei figli, grandi appassionati di surf.
LE 6 SORELLE
L’arcipelago hawaiano conta 137 isole, di cui solo sette sono abitate e la più piccola, Niihau, è proprietà privata. Le sei più grandi offrono un “menu” quanto mai assortito: spiagge, vulcani, foreste pluviali e una metropoli con grattacieli. Kauai
L’ I S O L A G I A R D I N O
Kauai Oahu
Molokai Lanai
Maui
Big Island
1.431 km² P O P O L A Z I O N E : 66.900 abitanti Nel 2007, quando fu annunciata l’inaugurazione di un servizio di traghetti per Honolulu, gli abitanti bloccarono il porto con le tavole da surf. Volevano preservare le caratteristiche dell’isola: fuori dal tempo, rurale, tranquilla e in armonia con una natura rigogliosa e selvaggia. SUPERFICIE:
Oahu
G R AT TAC I E L I S U L L A S P I AG G I A
S U P E R F I C I E : 1.548 km² P O P O L A Z I O N E : 953 mila abitanti Honolulu è la moderna capitale delle Hawaii, qui vive oltre la metà della popolazione dell’intero arcipelago. E qui arriva la maggior parte dei turisti, che prediligono la spiaggia artificiale di Waikiki, anche se sulla costa settentrionale si trovano lidi molto più belli e i migliori punti per praticare surf.
Molokai
A P I C C O S U L L’ O C E A N O
S U P E R F I C I E : 675 km² P O P O L A Z I O N E : 7.300 abitanti L’isola con le scogliere più alte del mondo era in passato una colonia per lebbrosi. Molti turisti visitano l’ospedale dove prestò servizio padre Damiano de Veuster, il missionario fiammingo proclamato santo da papa Benedetto XVI nel 2009.
Lanai
IL VILLAGGIO ESCLUSIVO
S U P E R F I C I E : 365 km² P O P O L A Z I O N E : 3.100 abitanti A chi vuole sottrarsi ai paparazzi, quest’isola, un tempo ricca di piantagioni di ananas, offre due hotel di lusso, vari campi da golf e tanta tranquillità. A Lanai non ci sono semafori.
Maui
I L PAR ADISO DE I SUR FISTI
S U P E R F I C I E : 1.999 km² P O P O L A Z I O N E : 144 mila abitanti Più di 80 spiagge di sabbia, venti costanti e onde uniformi fanno di Maui la meta più agognata dagli appassionati di wind/kitesurf di ogni parte del mondo. Anche le cascate, le balene e il vulcano Haleakala sono imperdibili attrazioni turistiche.
Grande isola di Hawaii (Big Island)
L’ I S O L A D I F U O C O
S U P E R F I C I E : 10.433 km² P O P O L A Z I O N E : 185 mila abitanti Un’energia del tutto particolare pulsa in questo pezzo di terra giovanissima, che attira sia gli americani in cerca di una natura incontaminata sia i tradizionalisti hawaiani. Al posto delle spiagge ci sono colate di lava, un ribollente paesaggio vulcanico, ma anche foreste.
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NIIHAU
KAUAI
OAHU
MOLOKAI LANAI
Honolulu
KAHOOLAWE (isola disabitata)
ABISSI E ALTURE Al largo di Big Island l’oceano raggiunge una profondità di oltre 6 chilometri: la fossa tra Oahu e Kauai è, da sola, profonda circa 3 mila metri. Sulla base di dati satellitari, GEO ha realizzato un modello tridimensionale in cui si vedono anche gli abissi dove nessuno si era ancora spinto. Il punto più alto è il Mauna Kea, con oltre 4 mila metri. Nel modello le isole sono state leggermente rialzate.
BIG ISLAND
MAUI
(Hawaii)
Haleakala
Mauna Loa Mauna Kea
Kilauea
Loihi
(vulcano sottomarino)
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SIMBOLO DI UNA NUOVA AUTOSTIMA: da quando il padre di Kala e i suoi amici hanno solcato il Pacifico con l’Hokule’a, molti hawaiani sono tornati a essere orgogliosi delle proprie origini polinesiane.
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IL VIAGGIO DI KALA VERSO LE STELLE Kala Baybayan non trova più stimoli nella vita di tutti i giorni, troppo influenzata dallo stile di vita americano, e allora inizia a navigare per il Pacifico con la sua canoa. Senza bussola, sfruttando solo le conoscenze degli antenati. Il racconto di un viaggio “salvifico” in mare aperto. Testo Florian Hanig / Foto Brian Bielman
A
NCORA POCHE SETTIMANE, poi si
separerà da suo figlio per due mesi, forse più. Il bimbo, che ha solo due anni, non capirà il perché, allo stesso modo in cui lei, da bambina, non ha mai capito perché suo padre se ne andasse sempre. Fino a quando, una notte, non ha sentito i delfini. È una calda giornata di ottobre a Lahaina, cittadina portuale sulla costa occidentale di Maui. Kala Baybayan, in pantaloncini e maglietta, siede sullo scafo rosso opaco di una canoa a chiglia doppia. È una giovane donna dai capelli neri raccolti a treccia, un bel sorriso e denti bianchissimi. Il suo nome significa “Sole” in lingua hawaiana. Sta fissando le traversine sul ponte di coperta con una fune bianca, che lega con gesti rapidi. Dalla spiaggia soffia una leggera brezza sotto l’enorme tenda parasole che protegge l’imbarcazione, lunga 19 metri, facendo dondolare le palme lungo la litoranea. Kala racconta che suo padre è un tipo forte e tranquillo, che non dice niente se non c’è niente da dire. «Io e i
IL MAESTRO E L’EREDE: Kala con papà Chad.
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UNIRE LA TERRA CON LA TERRA: come facevano i loro antenati, gli hawaiani portano a bordo una pietra benedetta da un sacerdote e la trasportano fino a Tahiti. Anche le imbarcazioni sono costruite secondo la tradizione locale.
miei cugini avevamo tutti paura di lui». Aveva un aspetto selvaggio quando tornò a casa, per esempio nel 1980, dopo il suo primo viaggio a Tahiti a bordo della sua Hokule’a. Era emaciato, bruciato dal sole e con una lunga barba incolta. Chad Baybayan rappresenta la prima generazione di marinai hawaiani dell’era moderna, che hanno mostrato al mondo che è possibile solcare il Pacifico senza bussola e carte nautiche, ma solo orientandosi con le stelle. Nel frattempo è diventato uno dei primi cinque hawaiani insigniti del titolo di campioni di navigazione. Quando Kala, dopo i vent’anni e con un infruttuoso semestre universitario alla spalle, voleva accompagnarlo in canoa e capire cosa spingeva il papà a essere sempre sul piede di partenza, non ebbe il coraggio di chiederglielo. Si rivolse allora a sua nonna che ci mise una buona parola e, poche settimane più tardi, iniziò a pensare solamente che sarebbe stata l’unica donna a bordo di un’imbarcazione senza gabinetto. E poi cosa sarebbe successo se si fosse ammalata? Poi però erano i marinai più giovani a vomitare i pasti in mare. Kala si sentiva al sicuro con suo padre vicino e si arrabbiava solo perché le aveva assegnato proprio il turno di notte dalle due alle sei, quando tutti gli altri
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dormivano. Ma, nel mettersi al timone nell’oscurità, Kala comprendeva il senso di quello che stava facendo: «Quando si sta a casa o si va in macchina è tutto diverso, perché qui mancano improvvisamente le mura e il tetto. Sotto questo oceano di stelle ci sono solo io, non più imprigionata in una scatola, ma finalmente libera». Quando nel corso della notte arrivò suo padre e le chiese se avesse sentito uno strano suono, Kala non capiva di cosa stesse parlando. Allora papà Chad la portò a prua, dove entrambi riuscirono a percepire chiaramente i versi dei delfini che saltavano tra le onde. Ecco, proprio quella sera Kala decise di diventare una navigatrice, seguendo le orme del padre. NEGLI ANNI A VENIRE impara a memoria le orbite di 220 astri, che le indicano la via di casa nelle varie stagioni, scopre che un giorno non dura 24 ore, ma 23 ore e 56 minuti, impara a misurare, con il braccio disteso e due o tre dita, se i due assi della Croce del Sud hanno la stessa lunghezza, nel qual caso significa che ha raggiunto la latitudine delle Hawaii. Infine apprende che uno stormo di sterne stolide brune (Anous stolidus) annuncia la vicinanza alla terraferma, perché questi volatili pescano vicino alla costa.
Si unisce a un gruppo di viaggiatori a Lahaina che sta costruendo una canoa d’alto mare, la Mo’okiha o Pi’ilani, con i proventi di donazioni. I giovani canoisti fanno realizzare gli scafi con lo stesso materiale delle tavole da surf, il poliestere, perché sulle isole hawaiane non si trovano più grossi alberi di koa da cui poter ricavare il legno necessario per le costruzioni navali. Però Kala e i suoi compagni seguono la tradizione polinesiana, che non prevede l’impiego di chiodi e viti. Il ferro fu portato nell’arcipelago da James Cook solo nel 1778 e ora gli abitanti locali stanno piantando un bosco di koa su Big Island, in modo che tra più di un secolo i loro pronipoti possano tornare a costruire canoe tradizionali. Nel settembre del 2013, Kala sostiene l’esame per il patentino di esploratrice marittima polinesiana. Insieme ad altri sei giovani navigatori dovrà viaggiare da Kauai a Nihoa, 150 miglia nautiche a nord-ovest. È un’isola minuscola e disabitata. Partono alle nove del mattino, si orientano con il Sole, calcolano l’intensità del vento e correggono la rotta secondo la corrente, seguendo con la doppia prua della canoa le stelle più lucenti nei quattro diversi quadranti dopo il tramonto. I novizi al timone formano due squadre e si danno il cambio ogni tre ore, un intervallo calcolato anch’esso in base agli astri, con un margine di errore di non più di un minuto. Alle sei e mezza del mattino seguente
l’isola appare nella visuale tra le due prore della canoa. «Ero felicissima: avevamo trovato un’isola piccolissima in mezzo a questo oceano così vasto», racconta Kala. Qualche giorno dopo, la Mo’okiha, canoa di Lahaina, riceve la visita di una scolaresca. Kala racconta agli allievi, intenti a giocare con i cellulari, com’è esaltante riuscire a determinare la propria posizione sul Pianeta servendosi solo del corpo e dei sensi, senza internet né smartphone. La donna parla di empowerment (la crescita dell’individuo attraverso l’incremento dell’autostima), di una cultura che sarebbe quasi scomparsa se nel 1973 non avessero trovato un ultimo navigatore su un remoto atollo corallino del Pacifico, Satawal. Kala si dice infine orgogliosa di come i polinesiani abbiano esplorato il Pacifico molto prima dell’arrivo degli europei. Parla in inglese. Il suo bisnonno materno è stato l’ultimo della famiglia a esprimersi in lingua hawaiana. All’inizio di dicembre è programmato il varo della canoa, in una giornata particolarmente propizia dal punto di vista della posizione degli astri, ma molti volontari che avrebbero dovuto occuparsi delle operazioni non si presentano. Il mese successivo si viene a sapere che per il rimorchio che deve trasportare la canoa fino al porto è necessaria un’autorizzazione, per la qua-
Il grande viaggio delle canoe Partite nel 2014, nei prossimi tre anni l’Hokule’a e l’Hikianalia faranno il giro del mondo.
Baia di Chesapeake Miami
Hawaii
St. John Isola del Cocco
Kiribati Denpasar Isola di Natale
Isola di Thursday
Darwin Townsville
Figi Nuova Caledonia Nuova Zelanda
Galápagos
Samoa
New York
Isole Marchesi
Panama Isola Chagos
Belém Isola di Ascensione
Tahiti Tonga Isole Cook
Walvis Bay Isola di Pasqua
Tolagnaro Durban
Città del Capo 2014 Porti selezionati
2015 2016 2017 Fonti: napali.org/pvs_wwv/, hokulea.com
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FINALMENTE SI PARTE! Alcune canoe più piccole accompagnano l’Hokule’a all’uscita dal porto.
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le va prima inoltrata richiesta alle autorità locali. Kala non potrà quindi ricevere il battesimo del mare come giovane navigatrice sulla Mo’okiha, la “sua” canoa di Maui, ma sulla Hikianalia, la canoa “sorella” della Hokule’a di Oahu. La chiamata arriva a fine gennaio. Kala, che è tra le riserve, viene promossa a membro dell’equipaggio che dovrà compiere la prima tratta di un viaggio intorno al mondo al quale prenderanno parte la Hokule’a di Oahu e la Hikianalia insieme. In quattro anni le due canoe percorreranno oltre 47 mila miglia marine, toccando i porti di 26 Paesi, tra cui Nuova Zelanda, Australia, Sudafrica e Stati Uniti. La prima tappa, già percorsa dal padre 35 anni fa, va da Big Island a Tahiti. Chad Baybayan sarà al timone della sua Hokule’a, Kala lo seguirà a bordo della Hikianalia. QUALCHE SETTIMANA PRIMA della partenza pre-
vista, Kala è sdraiata accanto a suo padre in una tenda nel campus universitario di Hilo, sotto un magnifico cielo stellato. Chad Baybayan e alcuni scienziati hanno creato un planetario mobile, un tendone sulla cui volta viene proiettato il cielo della notte. Durante l’anno lo usa per tenere lezioni agli studenti di astronomia presso l’ateneo hawaiano, ma ora gli serve per studiare con Kala la traversata fino a Tahiti in base alle costellazioni che vedranno. Una sorta di esercitazione prati-
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ca ma anche un’esperienza spirituale, come rivelerà Kala in seguito, che osserva anche come la cultura nelle Hawaii stia cambiando. L’influenza americana è sempre più forte, alle grandi famiglie si sostituiscono i piccoli nuclei, alcuni hawaiani mettono addirittura i genitori in ospizio perché non hanno più tempo per occuparsi di loro. Kala disapprova: «Tutto quello che so lo devo a mio padre e ai miei antenati». Quando di notte è in barca e osserva le stelle, dice di sentirsi unita ai suoi avi, poi a volte teme che queste sue conoscenze possano perdersi già nella prossima generazione, con bambini che preferiscono guardare il cellulare piuttosto che il cielo. DURANTE IL PRIMO VIAGGIO con l’Hokule’a, nel
1976, a bordo scoppiò un duro litigio tra i marinai hawaiani e gli antropologi americani, incaricati di documentare la traversata e che avevano portato a bordo, di nascosto, moderni strumenti di navigazione come “assicurazione sulla vita” qualora la canoa avesse perso la rotta. Per l’equipaggio si trattava di un tradimento tale da mettere in dubbio l’intero progetto, con il quale i navigatori intendevano dimostrare come i polinesiani avessero conquistato il Pacifico senza l’ausilio della tecnologia; pertanto non volevano certo farsi accusare di usare dei trucchi fraudolenti. Anche per le provviste, i primi canoisti si limitarono a
NÉ VITI NÉ CHIODI: la canoa è tenuta insieme solo da funi (più a sinistra). Kala saluta il padre, che viaggerà sulla canoa “sorella”, e il figlioletto, che non vedrà per due mesi (foto qui accanto).
cibi tipicamente hawaiani, soprattutto taro (un tubero simile alla patata) e pesce. Per il giro del mondo di 39 anni dopo, tutto ciò non è più necessario. Davanti alla darsena di Sands Island, Kala e i suoi compagni ammucchiano contenitori in plastica trasparente con tutto l’assortimento medio di un supermercato americano: carne bovina in scatola, sugo, spaghetti, caffè. Sono i viveri per il viaggio, che stanno scaricando perché a bordo si sono annidate le formiche fuliginose, una specie molto invasiva che i navigatori hawaiani non vogliono introdurre a Tahiti. La canoa va quindi disinfestata mediante fumigazione per due giorni in una tenda prima di poter essere nuovamente caricata. Stavolta non verrà portata nessuna bussola, ma una grande quantità di dispositivi elettronici – notebook, fotocamere, telefoni – perché questo viaggio avrà due ambientazioni, una sull’oceano e una su internet. Ogni due giorni i 15 membri dell’equipaggio aggiorneranno il blog che documenta le loro esperienze sulla terraferma e sull’acqua, mentre il sito hokulea.com permetterà di seguire la posizione della canoa via satellite. Il 24 maggio, giorno della cerimonia di partenza, Kala porta a bordo il figlio. Si è alzata alle tre di notte, ha festeggiato l’alba con un sacerdote, poi gli amici l’hanno ricoperta di ghirlande e lei ha ascoltato canti folkloristici hawaiani, il tutto con il sorriso sul volto e gli
occhi stanchi. Ora deve sforzarsi di giocare a nascondino sotto il sole cocente con il suo bimbo di due anni, che apre tutte le casse e i boccaporti, e si mette a correre sul ponte. Sarà un commiato “a rate”, perché gli alisei che soffiano d’estate sulle Hawaii sono ancora assenti. Ogni mattina i marinai si incontrano al porto sotto una grande tenda da sole bianca e osservano le palme con le foglie immobili. Solo il 1° giugno, una lunga settimana dopo, il vento fresco finalmente si alza, toccando i 20-25 nodi e scuotendo le vele rosse delle canoe, che si gonfiano in alto per poter prendere il vento sulla cresta dell’onda. Il padre saluta Kala con un gesto tradizionale che simboleggia la condivisione della vita: i due si sfregano il naso a vicenda, inspirando ed espirando in contemporanea. Poi Kala solleva il figlioletto e lo stringe forte a sé, dopodiché sale sul gommone che la accompagnerà alla canoa. Brian Bielman lavora come fotografo ritrattista a Honolulu, ma è specializzato anche in surf: con il mare grosso non perde mai l’equilibrio e il buonumore. Il redattore di GEO Florian Hanig ha trascorso molte ore con Kala sul ponte della sua canoa a Maui, purtroppo senza mai riuscire a uscire in mare con lei.
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IN UN’IMMAGINE
COMMERCIO SENZA FRONTIERE
Entro la fine del 2015 l’Ue intende accordarsi con gli Usa per un ampio trattato di libero scambio. Gli avversari del Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (Ttip) trovano sempre più simpatizzanti. Però, già da qualche anno l’Europa intreccia una fitta rete di accordi spesso sfavorevoli per gli Stati più poveri.
D
NUMERO DEGLI ACCORDI DI LIBERO SCAMBIO PER NAZIONE O PER COMUNITÀ DI STATI
0
1-10
11-20
21-30
> 30
USA 1
4 CANADA 9
GUATEMALA 9
P E RÙ
16
EL SALVADOR 10
CILE 2
5
HONDURAS 9 NICARAGUA 9 COSTA RICA 11 PANAMA 12 Fonte: OMC
a anni l’Organizzazione Mondiale per il Commercio (Omc) si adopera invano per regole globali ed eque all’interno del cosiddetto Doha Round (negoziati commerciali multilaterali), al margine del quale, però, le nazioni leader nel commercio si muovono in proprio per aggiudicarsi nuovi mercati e concludere trattati di libero scambio. Tanto più sono aperte le frontiere e bassi i dazi, quanto più conviene esportare nei Paesi partner. Anche il riconoscimento reciproco di standard di tutela ambientale e del consumatore facilita il commercio. In tutto il mondo esistono oltre 300 accordi di libero scambio stretti tra Stati o gruppi di nazioni; una spina nel fianco per l’Omc, dato che così si allarga a macchia d’olio una fitta rete di dazi favorevoli e di altri accordi, detta anche spaghetti bowl. Il primato di trattati di libero scambio spetta all’Ue: sono già 38, e un’altra dozzina è in definizione. Proprio sul finire del 2014 ha annunciato un nuovo accordo con il Canada. Prima che l’accordo entri in vigore possono comunque trascorrere due anni. Ci sono comunità di Stati, però, che non stringono così tanti accordi, per esempio l’America del Sud che ha un suo mercato interno detto Mercosur, nel quale sono riuniti Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay e Venezuela. Il Mercosur ha siglato soltanto due accordi di libero scambio: con la Comunità Andina e con l’India. L’Ue mira in breve tempo ad accordi con i membri del Mercosur. Paesi ricchi di materie prime, come il Perù e il Cile, invece, non fanno parte del Mercosur e puntano su singoli accordi di ampio respiro in modo da integrarsi il più possibile nell’economia mondiale. Il Cile ha concluso, tra gli altri, trattati con l’Australia, la Cina, l’Ue e gli Usa. Anche se la comunità di Stati asiatici, Asean (dieci membri tra cui Thailandia, Vietnam e Singapore), è restia a concederli, sia l’Unione Europea sia gli Usa hanno grande interesse a stringere accordi con questi Stati. Finora, l’Asean ha firmato solo cinque accordi di libero scambio: con Cina, Giappone, Corea del Sud, India, Australia e Nuova Zelanda.
COLOMBIA 10
MERCOSUR 2
UNIO
N O RV NE EU
EGIA
28
ER A 2 9 LIECH TENS TEIN
27
RO P E
A 38
SVIZZ ISL AN
DA 29
RU S S
IA 17
T U RC
UCR A
HIA 2 0 INA 1 7
CINA INDIA
13 SING
16
APOR
E 21
GIAPPONE 13 THAILANDIA 11 COREA DEL SUD 12 LAOS 8 VIETNAM 8 BRUNEI 8 MALESIA 13 FILIPPINE 9
PAKISTAN 8
INDONESIA 8
KIRGHIZISTAN 8 KAZAKISTAN 9 GEORGIA 8 ASEAN 5 NUOVA ZELANDA 10 AUSTRALIA 9
TRATTATI DI LIBERO SCAMBIO CON L’UNIONE EUROPEA I 38 trattati commerciali dell’Ue abbracciano l’intero globo. Si estendono dall’Islanda alle Isole Figi, dal Camerun alla Corea del Sud. Molti vengono stretti con singole nazioni, ma alcuni anche con comunità di Stati, come il Cariforum in cui sono organizzati gli Stati-isola dei Caraibi. Sulla mappa sono segnati con un punto rosso tutti gli Stati che, direttamente o
indirettamente, hanno sottoscritto un patto con l’Ue. Allo stesso modo sono indicati i territori d’oltremare degli Stati europei come la Polinesia Francese. Gli accordi teoricamente si basano sul principio di reciprocità, ma spesso sono redatti a vantaggio dell’Ue. In questo modo l’Europa spesso punta a difendere la propria agricoltura, ma pretende
dai partner un ampio accesso alle loro industrie e al terziario. Nei negoziati l’Europa ha quasi sempre il coltello dalla parte del manico e presto dovrebbero aggiungersi nuovi trattati a quelli già in vigore, infatti, per esempio, con l’entrata in vigore del patto con il Canada, decadono il 94 per cento dei dazi agrari e il 100 per cento di quelli industriali.
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ALTO ADIGE GRIMALDI LINES LIGURIA CROAZIA
VIAGGIARE NEL MONDO
ALTO ADIGE
VALLE ISARCO: IL BENESSERE DI MILLE PERCORSI Un solo passo è sufficiente per abbandonarsi alla natura e dimenticare la monotonia di tutti i giorni. Camminare in montagna rafforza il corpo e alleggerisce la mente, tanto da sentirsi rigenerati dall’acqua gelida che avvolge i piedi nudi durante un bagno Kneipp. Se siete romantici, l’atmosfera suggestiva di un’escursione notturna al chiaro di luna, lontani dal frastuono quotidiano, è quello che fa per voi. Distesi e rilassati andrete incontro al sorgere del sole. Se invece cercate qualcosa di più impegnativo, iscrivervi al corso d’arrampicata per principianti sulla Val di Funes. E per ritrovare voi stessi vi suggeriamo l’Abbazia di Novacella, un posto magico dove il cammino diventa meditazione. www.suedtirol.info
GRIMALDI LINES
UNA NAVE DI LIBRI PER BARCELLONA “Una Nave di Libri per Barcellona” è l’evento culturale in programma dal 21 al 25 aprile a bordo della nave Cruise Roma, ammiraglia di Grimaldi Lines. L’iniziativa celebrerà la Giornata Mondiale del Libro e la ricorrenza di San Giorgio, festeggiata a Barcellona con centinaia di bancarelle piene di libri e rose rosse. Durante il viaggio a bordo da Civitavecchia a Barcellona sono in programma reading, dibattiti e spettacoli con la partecipazione straordinaria di scrittori, giornalisti e registi di fama. A terra ci sarà tempo per scoprire la città più vivace d’Europa e fotografarne ogni angolo. Quote di partecipazione a partire da 355 euro a persona con la formula nave+hotel. Per ulteriori informazioni: www.leggeretutti.it e www.grimaldi-lines.com
I LUOGHI PIÙ BELLI, I PAESAGGI PIÙ SORPRENDENTI, LE METE DA SOGNO
VIAGGIARE NEL MONDO
LIGURIA
FINALE LIGURE: MECCA INDISCUSSA PER GLI ARRAMPICATORI DI TUTTA EUROPA Le prime vie di roccia sono state salite con gli scarponi rigidi e i pantaloni in velluto alla zuava. Poi sono arrivate le scarpette d’arrampicata e le calzamaglie variopinte, erano gli anni 80: nasceva l’arrampicata libera. Adesso il comprensorio è frequentato da migliaia di freeclimber provenienti da tutta Europa 12 mesi all’anno grazie al clima mite. Finalborgo è il loro luogo d’incontro: molti negozi di attrezzatura sportiva, bar e locali da aperitivo. La giornata comincia sempre con un rito: un cappuccino, un pezzo di focaccia e un attento sguardo alla guida, per scegliere la falesia migliore su una roccia che è un sogno! www.turismoinliguria.it
CROAZIA
VUGLEC BREG: LE PECORE COME RIMEDIO ANTISTRESS Vuglec breg è situata a una quarantina di chilometri da Zagreb (Zagabria), nel cuore dello Zagorje croato, tra bellissime colline verdi. Qui l’azienda turistica Vuglec breg ha ideato un singolare programma: la possibilità di custodire e far pascolare le pecore. Destinato a manager e a tutti coloro che per qualche giorno desiderano sfuggire allo stress della quotidianità, il programma di tre giorni comprende due pernottamenti con pensione completa e sistemazione in una delle “hiže” (tipica casa dello Zagorje). Oltre a custodire e far pascolare le pecore, si strigliano e nutrono i pony, i proprietari della tenuta danno inoltre la possibilità di assistere nei lavori agricoli stagionali nel vigneto, di spaccare la legna e d occuparsi di altre faccende di campagna. Il programma anti stress è disponibile tutto l’anno. www.vuglec-breg.hr www.tzkzz.hr
SCIENZA
LA FORZA DEL PENSIERO Ci sono ricercatori che giocano a flipper senza muovere le mani. O comandano una sedia a rotelle con la sola forza del pensiero. Tutto ciò è possibile grazie a una tecnologia che trasforma gli impulsi elettrici del cervello in segni leggibili. La vita delle persone portatrici di handicap potrebbe trarne grandi vantaggi, ma quali sono i confini che non si possono superare? Testo Jürgen Bischoff Foto Marcus Höhn e Peter Rigaud
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Preparazione per il test presso il Politecnico di Graz. Gli elettrodi devono stimolare i muscoli delle braccia del paraplegico Tom Schweiger. Il software riesce a leggere i segnali direttamente dal suo cervello. Un incidente di nuoto è stato la condanna di Schweiger. Oggi è la prima persona che, in laboratorio, riesce a sollevare una bottiglia, con il braccio paralizzato, usando la sola forza del pensiero.
A
ccadde a Malta, facendo il bagno in mare, nell’estate 1998. Tom Schweiger e un paio di amici si tuffarono tra le onde. Un momento di distrazione durante il tuffo e Tom rotolò su se stesso, racconta, facendo praticamente perno sul proprio collo. E sentì un “crac”: quella fu la fine. Il rumore proveniva dalla sua spina dorsale nel momento in cui si ruppe tra la quarta e la quinta vertebra cervicale. Gli amici lo trascinarono a riva. Tom Schweiger, un giovane di 23 anni slanciato e orgoglioso, proveniente dalla Stiria (Austria), e in quell’estate studente presso la Höhere Technische Lehranstalt, il politecnico di Weiz, era diventato un disabile. Da allora riesce solo a sollevare un po’ il braccio sinistro e a muovere la spalla destra. Tutti gli altri arti – mani, dita di mani e piedi, gambe e piedi – non obbediscono più alla sua volontà. Gli impulsi nervosi emessi dal suo cervello per indurre il suo corpo ad afferrare un libro o a fare un passo, terminano nel midollo spinale poco sotto il cervelletto. Questa condizione, che comporta la quasi totale paralisi dei quattro arti, si chiama tetraplegia.
15 ANNI DOPO TOM SCHWEIGER, ora trentanovenne, siede in un laboratorio dell’Università Tecnica di Graz, presso l’Istituto di Analisi semantica dei dati. È già da quasi un quarto di secolo che qui i ricercatori cercano un modo per restituire un po’ di autonomia alle persone affette da una limitazione totale o parziale dei movi-
menti, per questo hanno costituito le Brain Computer Interfaces (Bci), interfacce tra cervello e computer. Le Bci registrano i segnali del cervello di un paziente, li identificano e li traducono in comandi per gli apparecchi tecnici, come software di scrittura o sedie a rotelle. Oppure direttamente per il movimento elettro-comandato di arti paralizzati. La particolarità sta nel fatto che i ricercatori di Graz non impiantano elettrodi nel cervello: per registrare gli impulsi provenienti dal cervello usano l’elettroencefalografia (in breve Eeg), che misura l’attività elettrica del cervello sulla cute del cuoio capelluto. Tom Schweiger è uno dei primi ad aver sperimentato questa tecnica. «Mi hanno chiesto di partecipare nel 1999, quando ero ancora in riabilitazione», racconta Tom, che ha subito dato il suo consenso. Visto che la sua prima vita era stata distrutta, ha iniziato subito con la seconda. Nel frattempo ha concluso i suoi studi di geografia, si è sposato, ha due figli maschi, Tommy e Julian, il più grande dei quali ora ha quattro anni e mezzo. Tom Schweiger non si lamenta della propria sorte, perlomeno non apertamente. Talvolta, però, va in collera quando si scontra con l’ignoranza. Più volte, racconta, ha incontrato medici che non volevano credere che un paraplegico possa generare un figlio. Silvia, sua moglie, quel giorno l’ha accompagnato al laboratorio Bci di Graz; da solo, infatti, non sarebbe stato in grado di manovrare la sua sedia a rotelle. Gernot Müller-Putz, direttore dell’Istituto, li saluta: Tom Schweiger lo conosce da 15 anni. Due altri ricercatori, Alex Kreilinger e la psicologa Hannah Hiebel, lo preparano per la seduta. L’atmosfera è distesa. Kreilinger applica al tetraplegico il casco per l’Eeg. Alcuni cavi lo collegano con il computer. Poi applica gli elettrodi per stimolare i muscoli sul braccio di Tom Schweiger: un paio per chiudere la mano, uno per aprirla, uno per la “sintonia fine” del pollice. Tom Schweiger si è fatto tatuare sulla pelle il punto esatto in cui devono essere applicati gli elettrodi. Per risparmiare tempo, spiega. Poi Kreilinger ac-
cende lo stimolatore per iniziare il test. Le dita paralizzate di Schweiger si muovono. Le guarda e sorride. «Bene», dice, «ora prova tu». Kreilinger appoggia sul tavolo una bottiglia verde piena d’acqua. Schweiger si concentra, immagina di sollevare i piedi. Fa agire su di sé la sensazione di questo movimento per lui impossibile. Una barra verde sul monitor indica la forza misurata dal segnale emesso dal suo pensiero. Questo segnale viene identificato e trasformato in una debole corrente, che comanda la presa di Schweiger. Il computer ha imparato a leggere i pensieri di Schweiger. Perlomeno alcuni, ben precisi. E Schweiger ha imparato a pensare in modo che il computer riesca a leggerli senza faticare troppo. Lentamente ora allunga il braccio, poi appoggia la mano paralizzata sulla bottiglia di plastica. Immagina di sollevare i piedi e di riabbassarli – il software invia il suo comando che fa aprire la mano. Da ogni altro movimento immaginario dei piedi scaturisce un nuovo ordine in una sequenza prestabilita: solleva i piedi, quattro dita si piegano attorno alla bottiglia; solleva i piedi, il pollice si chiude. Schweiger solleva la bottiglia. Da solo. È il primo uomo che riesce a sollevare una bottiglia con la sola forza del pensiero. Ride. «È difficile immaginare il movimento di un piede dopo anni di assoluta immobilità?». «No», risponde Schweiger, «quando dormo sogno di andare a spasso. Ma sicuramente è strano: pensi ai tuoi piedi e si muovono le dita della tua mano!».
«PIUTTOSTO STRANO: COL PENSIERO SOLLEVI I PIEDI – E SI MUOVONO LE DITA DELLA TUA MANO» Questo esercizio paradossale ha uno scopo ben preciso. «Le aree del cervello che rappresentano i movimenti reali o pensati dei piedi sono molto più circoscritte di quelle di braccia e mani», spiega MüllerPutz. «Nel caso di Tom il casco da Eeg riesce a riconoscere più facilmente questi se-
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ESPLODERE COME NEURONI
PENSARE AUMENTA LA TENSIONE OGNI PENSIERO nel cervello produce un minimo incremento della tensione; i ricercatori che studiano il cervello parlano di “potenziale elettrico”. Con un’intensità da 10 a 15 milionesimi di Volt, è 100 mila volte più debole della batteria di una lampadina tascabile. Le tensioni possono essere misurate sul cuoio capelluto tramite elettroencefalografia (Eeg) e utilizzate per controllare software di scrittura o protesi. La ricerca sulle interfacce cervello-computer si concentra soprattutto su tre tipi di segnali cerebrali. 1. SEGNALI DALLA CORTECCIA MOTORIA Questa zona della corteccia cerebrale controlla i movimenti volontari del corpo, anche se solo immaginati. Già un secondo prima di un’azione si genera un potenziale elettrico, che aumenta lentamente, diventa misurabile circa mezzo secondo prima dell’esecuzione e un quinto di secondo (200 millisecondi) prima è abbastanza forte da poter essere letto con l’Eeg. LE ONDE P300 Queste si manifestano dopo un evento significativo, esattamente 300 millisecondi dopo. Nell’Eeg la curva presenta dei picchi (peak). Le onde P300 sono molto indicate per il controllo di software di scrittura, perché è sempre possibile misurarle quando a video viene visualizzato il carattere richiesto. 3. SEGNALI DAL CENTRO VISIVO Se vediamo una luce a intermittenza regolare, il nostro cervello dopo poco tempo genera sequenze di tensione della stessa frequenza. Quindi, nel caso di più luci aventi frequenze diverse, dalle correnti cerebrali è possibile capire su quale luce ci stiamo concentrando in quel momento. Le frequenze possono essere abbinate a comandi software. Questo metodo può essere indicato per persone con paralisi della muscolatura oculare.
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gnali. È più comodo e meno dispendioso dal punto di vista tecnico». LA FORZA DEL PENSIERO per coman-
dare apparecchiature, fino a poco tempo fa, era roba da fantascienza: l’essere ibrido di RoboCop, la fusione di software e cervello in Matrix, tutto ancora molto lontano da ciò che si ritiene possibile al giorno d’oggi. Ma la realtà si avvicina alla fiction. Da tempo nei laboratori di ricerca in Europa e Cina, in Giappone e negli Usa si studiano protesi, braccia artificiali o esoscheletri controllati dal cervello. Alcune aziende sviluppano sistemi Bci per giochi al computer, un gruppo di ricercatori a Berlino è riuscito a comandare un’automobile usando solo segnali del cervello, e vari istituti di ricerca sono stati incaricati dalle forze armate statunitensi di studiare la “telepatia sintetica”, con la quale i pensieri non vengono più espressi in parole, ma captati da uno scanner Eeg e trasmessi a un ricevitore. La medicina ha bisogno di questa tecnologia. Ogni anno nel mondo sono 130 mila le persone che subiscono lesioni del midollo spinale. A queste si aggiungono 350 mila persone al mondo, che, come l’astrofisico britannico Stephen Hawking, sono affette da sclerosi laterale amiotrofica (Sla), quella grave malattia neurologica che inizialmente colpisce la muscolatura e successivamente la parola. Inoltre non di rado si manifesta una sorta di sindrome locked-in (Lis), nella quale il paziente è perfettamente cosciente, ma non può muoversi perché il suo corpo è paralizzato. Spesso anche un ictus cerebrale può avere come conseguenza una condizione locked-in. Non esistono statistiche al riguardo, ma l’onlus Lisa (Lockedin syndrome italian association), stima che solo in Italia vi siano circa 600 casi di questo tipo. Secondo le stime di ricercatori belgi oltre il 40% dei pazienti che in base alle diagnosi mediche sono in coma vigile, in realtà potrebbero essere in una condizione locked-in e quindi coscienti. GLI STUDIOSI DI BCI imparano a sfrut-
tare sempre meglio il meccanismo neuro-
nale che controlla la percezione e le capacità motorie dell’uomo. Già, perché ogni azione, ogni movimento consapevole del corpo è preceduto nella mente da un’intensa attività cerebrale, che può essere misurata come una serie di impulsi elettrici. E le stesse cellule nervose si attivano anche quando il soggetto pensa a un movimento, ma gli arti stimolati non sono disponibili. Un chiaro esempio di un effetto analogo è dato dai dolori dell’arto fantasma, anche se amputato da molto tempo.
UN FLUSSO DI STIMOLI: OGNI NEURONE NELLA CORTECCIA CEREBRALE RICEVE I SEGNALI DA ALTRI 30 MILA NEURONI E, così come esistono i dolori dell’arto fantasma, esistono anche i movimenti dell’arto fantasma. Proprio come quelli che i ricercatori di Graz registrano in Tom Schweiger quando pensa ai suoi piedi. La sfida più grande in questo caso consiste nel riuscire a estrarre dall’esplosione neurale proprio quell’impulso che serve per attivare la serie di comandi digitali. Per lo scambio di segnali il nostro cervello dispone di circa 100 miliardi di cellule cerebrali e fino a 100 bilioni di terminazioni sinaptiche. Nella sola corteccia cerebrale ogni singola cellula nervosa riceve le informazioni di circa 30 mila altre cellule, un’attività neurale continua, che non si interrompe nemmeno durante il sonno. COCKTAIL PARTY PROBLEM: così viene definita questa tempesta di segnali da alcuni ricercatori. Gli impulsi elettrici del cervello assomigliano al brusio confuso di voci percepito dalle case vicine durante un ricevimento. Solo avvicinandosi è possibile cogliere alcuni frammenti di discorso, e solo ascoltando con attenzione è possibile distinguere le voci. Per questo motivo all’inizio molti credevano che fosse necessario andare molto vicino all’origine di un se-
Deboli correnti di uno stimolatore inducono delle contrazioni dei muscoli. Le dita si chiudono e la mano è in grado di afferrare.
Meeting di famiglia in laboratorio. Quattro anni e mezzo fa nacque Tommy, il figlio maggiore di Schweiger. Mamma Silvia (a sinistra) deve frenare il suo interesse per questa tecnica.
mano sinistra paralizzata di Schweiger alterna la presa di un blocco di legno con tutta la mano alla presa su una bacchetta tra pollice e medio. Con un sensore, che reagisce a movimenti reali della sua spalla destra, contraendo la spalla riesce ad aprire e chiudere le dita; attraverso il Bci, pensando al movimento dei piedi, passa dalla presa con l’intera mano alla presa con due dita. Col passare del tempo, però, questa operazione gli riesce sempre più difficile. «Sono troppo stanco», afferma. «Allora meglio smettere», risponde Kreilinger. NELL’APPLICAZIONE PRATICA, i me-
gnale cerebrale per poterlo captare chiaramente. Negli anni Novanta, quando negli Stati Uniti la ricerca si focalizzò sui progetti Bci – spesso finanziati dal Pentagono – i neuro-scienziati impiantarono dei micro-elettrodi nel cervello delle loro “cavie”. All’inizio solo negli animali, ma presto anche in alcuni volontari. Grazie a questi impianti neurali i pazienti paralizzati sono stati in grado di muovere braccia robotiche e spostare il cursore sullo schermo di un computer. Il neurologo John Donoghue ha insegnato a un paziente paralizzato dal collo in giù a controllare i movimenti di una sedia a rotelle con gli impulsi prodotti dal cervello e trasmessi da un micro-chip a un computer. Philip Kennedy di Atlanta ha intenzione di restituire la parola a una persona completamente immobilizzata in seguito a un incidente d’auto: questo grazie a un sintetizzatore che trasforma i pensieri del paziente in suoni. E con l’aiuto degli impianti, di recente, un gruppo di studiosi nel North Carolina è riuscito a far muovere a una scimmia due braccia virtuali solo con la forza del pensiero. È già da tempo che gli scienziati in Europa e Asia conducono esperimenti con elet-
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trodi esterni applicati sul cranio del paziente. Il vantaggio di questo metodo, il cosiddetto Bci non invasivo, è che non richiede interventi chirurgici. Lo svantaggio è che la misurazione è relativamente imprecisa se si devono ricercare i segnali nelle regioni cerebrali più profonde. Per questa tecnologia, quindi, sono necessari impulsi che il computer riesca a ricollegare a un pensiero ben preciso. Il paziente, quindi, deve istruire il computer con ore di duro lavoro, oppure i segnali devono essere generati in zone precise della corteccia cerebrale. Come quelle dei movimenti immaginari dei piedi con cui Tom Schweiger controlla lo stimolatore collegato alla sua mano.
PAZIENTI PARALIZZATI CONTROLLANO LA SEDIA A ROTELLE CON GLI IMPULSI PRODOTTI DAL CERVELLO SONO TRASCORSE DUE ORE nel labo-
ratorio Bci del Politecnico di Graz. Schweiger è chiaramente affaticato. Ora la sequenza dell’esperimento è cambiata: la
todi non invasivi di interazione tra cervello e computer nel frattempo si sono dimostrati altrettanto efficaci di quelli invasivi con impianti cerebrali. Così, un gruppo di ricerca Bci presso il Politecnico di Losanna, diretto da José del R. Millán, ha sviluppato una sedia a rotelle che viene controllata immaginando il movimento delle mani: la sedia impara a interpretare sempre meglio gli ordini mentali impartiti dall’utilizzatore ed è in grado di sollevarlo da una parte dell’attività necessaria alla guida. Un gruppo di ricercatori dell’Università di Brema ha costruito una sedia a rotelle controllata addirittura via Eeg, dotata di un braccio robotico che consente agli utilizzatori persino l’uso di un forno a microonde. E gli scienziati dell’Università di Tsinghua a Pechino e della Clinica universitaria di Amburgo hanno testato un sistema Bci per pazienti paralizzati che, attraverso i segnali generati nel centro visivo del cervello, è in grado di controllare, per esempio, la tastiera di un telefono portatile o i telecomandi di apri-porta, televisore e impianto di condizionamento. In questo caso si lavora con luci colorate, che lampeggiano a frequenze diverse, ma appena percettibili. La frequenza della luce sulla quale si concentra l’utilizzatore
genera particolari segnali neurologici nel centro visivo. Questi vengono letti in tempo reale dal computer e trasformati in ordini prestabiliti, come spegnere la televisione, accendere la luce, aprire la porta... Al centro del laboratorio dell’Istituto per l’Apprendimento automatico del Politecnico di Berlino è installato un flipper. Nel resto della stanza ci sono tavoli da lavoro sui quali sono collocati fasci di cavi, computer portatili e schermi. Michael Tangermann, informatico, si concentra sullo schermo davanti a lui. In testa Tangermann indossa una cuffia di plastica dotata di 128 elettrodi collegati via cavo a un computer. Le mani del ricercatore riposano sulle sue ginocchia. A video compaiono sei campi, disposti in cerchio e contrassegnati da lettere. Poi, dal centro del cerchio parte una freccia verde che attraversa lo schermo come una saetta, fino a raggiungere una D. La lettera si illumina e compare in un campo di testo sul bordo superiore dello schermo. «Ho immaginato di muovere le dita della mano sinistra e poi quelle della destra», spiega il ricercatore Bci, «come un pianista che, mentre sta viaggiando in metropolitana, ripensa a un pezzo per un concerto». Ogni movimento immaginato corrisponde a un impulso che viene registrato dagli elettrodi. Il software abbina un comando a ogni impulso: piega dito a destra – cursore a destra; piega dito a sini-
stra – cursore a sinistra. Fino a raggiungere la lettera desiderata. La lettera successiva è una I, poi una E seguita da uno spazio. Michael Tangermann scrive, lettera dopo lettera, con il suo pensiero. Dopo cinque minuti sullo schermo compare la frase: Die Gedanken sind frei (Il pensiero è libero). Tangermann scrive senza alcuna esitazione. A un certo punto il cursore sullo schermo diventa «un po’ come una parte del proprio corpo», spiega il fisico Klaus-Robert Müller, che dirige il gruppo di ricerca del politecnico. «Con il nostro metodo il periodo di ad-
CON I SISTEMI BCI I MILITARI NON VOGLIONO MUOVERE SOLO PROTESI MA ANCHE CACCIA DA COMBATTIMENTO destramento è ridotto», afferma. «Durante una prova con soggetti sani, due terzi sono riusciti a dominare la tecnica in un’ora al massimo, riuscendo a scrivere fino a otto caratteri al minuto. «Dopo una sola seduta anche i pazienti affetti da paralisi agli arti inferiori possono già comunicare grazie al Bci berlinese, anche se un po’ più lentamente». Tangermann controlla persino il flipper del laboratorio tramite il sistema Bci. E, dopo un po’ di Schweiger controlla anche il cambio di presa, due dita o la mano intera, immaginando un movimento dei suoi piedi. Una grafica a video indica la forza dei segnali cerebrali.
esercizio, non è molto più lento di altri che usano le mani. LA RICERCA con le interfacce uomo-
macchina ha raggiunto un livello che poco tempo fa aveva ancora dell’incredibile. Di recente alcuni neurologi statunitensi sono addirittura riusciti a ricostruire delle immagini dal cervello dell’uomo. Hanno mostrato ai soggetti dell’esperimento alcune sequenze di film e hanno raccolto l’attività del centro visivo tramite tomografia a risonanza magnetica. I dati sono stati usati per ricostruire la scena con un software; le immagini risultanti erano poco nitide, ma comunque spettacolari. Alcuni ricercatori chiedono già di fermarsi, di avviare un confronto pubblico per stabilire cosa sia o meno consentito fare con questa tecnologia. Soprattutto perché, oltre alla medicina, questa tecnologia interessa molto anche alle forze armate. Infatti, la Darpa, l’agenzia per i progetti di ricerca avanzata del dipartimento di Difesa degli Usa, investe molti milioni di dollari nella ricerca Bci. Non solo per migliorare la qualità della vita degli invalidi di guerra, ma anche per migliorare l’efficienza dei soldati sul campo di battaglia. In teoria, infatti, il sistema Bci non consente di muovere solo protesi, ma anche caccia da combattimento. Alcuni scienziati, tra cui il biologo americano Pete Estep, stanno già progettando la prossima fase nella liaison tra cervello e computer: non si tratta più di leggere i pensieri umani con una macchina, ma del loro potenziamento. Di espandere in modo artificiale la biblioteca di conoscenze, apprendimenti e ricordi memorizzata nei neuroni con conoscenze provenienti dal computer. Ciò che non si è appreso nel corso di molti anni, entro breve potrà essere caricato nella rete di cellule neurologiche. Così anche la demenza potrebbe diventare un disturbo del passato. Questo tipo di potenziamento della memoria è definito da Estep come “Bci cognitivo”: fantascienza per ora, proprio come le sedie a rotelle controllate dal pensiero fino ad alcuni anni fa. «Ma», spiega Estep, «ci sono validi motivi di pensare che gli ostacoli per raggiungere questo obiettivo non siano insormontabili».
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foto di Paola Caroppi
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ANIMALI
CHI SALVERÀ LE GRU?
Sono considerate un portafortuna, per questo motivo in Africa Orientale è sempre più diffusa l'usanza di tenerle come animale domestico nei giardini degli alberghi, nei parchi e persino nei cortili delle case. Così, la gru coronata grigia sta rischiando di estinguersi. La sua ultima chance, forse, è l'impegno di un giovane veterinario.
Testo Tilman Botzenhardt / Foto Thierry Grobet
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Olivier Nsengimana scopre la sua passione per la difesa della natura mentre lavora con i gorilla nel nord del Ruanda. Ora il trentenne veterinario combatte per la sopravvivenza delle gru coronate grigie (Balearica regulorum gibbericeps).
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Sulle catene collinari del Ruanda, i campi si susseguono: questo Paese densamente popolato, da anni sta vivendo un boom economico, ma gli habitat naturali della gru coronata grigia stanno scomparendo.
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Nsengimana e il suo team esaminano e inanellano una delle centinaia di gru tenute in cattività.
Nel tentativo di riportare le gru nei parchi nazionali a nord e nord-est del Paese, quando la salute degli uccelli consente la loro reintroduzione in natura, gli animali vengono prelevati e trasportati in un centro di quarantena con delle cassette di legno.
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Tenuti come animali ornamentali: alberghi, ambasciate, parchi e persino scuole di Kigali, la capitale del Ruanda, tengono le gru coronate grigie come animali domestici (destra). Ma dato che questi animali in cattività non si riproducono, la forte domanda alimenta la caccia illegale di uccelli.
La maggior parte delle gru coronate grigie rimangono vive nelle paludi di Rugezi nel nord del Ruanda. Quest’area è protetta, ma mancano ranger che facciano osservare le regole. Con la vendita di una gru i bracconieri guadagnano quanto una famiglia in un mese.
D
Da bambino, ricorda Olivier Nsengimana, della loro tutela la sua missione. Tra i Paesi tieri più benestanti, fanno da elemento la vista delle gru coronate grigie era all’or- che occupano un’area geografica estesa, il decorativo di aree verdi attorno ad alberdine del giorno. A quei tempi viveva a Ka- Ruanda è uno di quelli con la maggiore ghi e ambasciate, in parchi pubblici e monyi, una regione rurale a ovest della densità di popolazione del mondo; l’eco- scuole. capitale: «Vivevamo su una collina, e nella nomia del Paese è in forte crescita, sempre «La gente taglia loro le penne, affinché valle sottostante giravano indisturbate le più zone umide vengono drenate per crea- non possano volare via», racconta Nsengigru», racconta. «Animali meravigliosi, re campi da coltivare o da edificare. Così mana, «talvolta arrivano addirittura a con lunghe gambe e una corona di piume facendo scompare anche l’habitat naturale rompere loro le ali». Prigioniere, spesso in dorate, che quando camminano sembrano delle gru. Ma questa è solo una delle cause città, le gru conducono un’esistenza triste. danzare. Erano parte della nostra vita; e della tragedia che stanno vivendo questi Molte non sopravvivono a lungo: vittime ogni volta che andavo a prendere l’acqua animali. L’altra, almeno altrettanto impor- di malattie, ferite e alimentazione scorretsentivo le loro grida». tante, è il bracconaggio. Gli uccelli vengo- ta. Questi uccelli tenuti in cattività non La gru coronata grigia (Balearica regulo- no catturati e venduti: la loro bellezza e la covano e non si riproducono. Per questo rum gibbericeps) è tra gli uccelli più sugge- loro fama li hanno trasformati nell’anima- motivo nel 2012 l’Uicn, l’Unione internastivi dell’Africa Orientale: alta più o meno le domestico preferito dalla classe più ab- zionale per la conservazione della natura, ha classificato la gru coronata grigia come un metro, un corpo snello dalle piume biente del Ruanda. grigie, nere e bianche, un sottogola rosso Per questo motivo, oltre alla palude di Ru- “specie in pericolo di estinzione”. lucente e sulla testa una cresta di piume, gezi, un parco nazionale nel nord del Pae- A quei tempi Olivier Nsengimana lavorada cui deriva il suo nome. «Le gru corona- se, in Ruanda esiste anche un altro luogo va come veterinario per gli animali più a te grigie», continua Nsengimana, «sono dove sicuramente è possibile vedere le gru rischio del Ruanda: i gorilla di montagna parte della storia di questo popolo. Consi- coronate grigie: la capitale Kigali. Qui nel Parco Nazionale dei Vulcani nel Ruanderate un portafortuna per chi le vede, e questi eleganti uccelli sono presenti a doz- da Nord-occidentale. Il suo primo inconaddirittura si dice che chi ne possiede una zine nei parchi, servono come animali or- tro con questi primati risale al periodo in sia destinato a grandi ricchezze e una lun- namentali nei giardini delle ville dei quar- cui era studente, durante il suo apprendistato presso i Gorilla Doctors, un’asga vita». Lo stemma e la bandiera sociazione di veterinari che si prennazionale dell’Uganda, Paese confide cura di queste grandi scimmie. nante con il Ruanda, recano l’imma«Quando mi trovai per la prima volgine di una gru coronata grigia. ta là fuori, nella natura selvaggia», Nel frattempo, purtroppo, dalla paricorda, «mi fu subito chiara una tria di Nsengimana le gru coronate cosa: era questo che volevo veragrigie sono quasi scomparse. Oggi, mente. Capii che avrei dedicato la per poter osservare gli uccelli della mia vita alla difesa degli animali». sua infanzia allo stato brado, questo Con questo obiettivo ben chiaro in veterinario trentenne ha bisogno di testa, Nsengimana concluse gli studi tanta fortuna e tanta pazienza. universitari come migliore del suo Nel suo Paese il numero delle gru corso; da allora lavora per l’associaviventi negli ultimi 45 anni è dimizione Gorilla Doctors e collabora nuito di oltre l’80 per cento, spiega anche a un programma di ricerca Nsengimana, e ora si aggira tra 300 e Olivier Nsengimana con studenti del college sulle nuove malattie infettive. «Tra i 500 esemplari. nella riserva naturale. Spiegare la situazione delle gorilla di montagna mi sono reso Questo giovane ecologista ha fatto gru è una parte importante della campagna.
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Lo sfruttamento agricolo del territorio è in aumento: anche attorno alle paludi di Rugezi, le aree umide vengono trasformate in campi coltivati. Purtroppo le gru alla ricerca di nutrimento in queste zone rischiano di avvelenarsi con i pesticidi.
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Una vita dedicata alla difesa della natura: Nsengimana non si prende cura solo delle gru, ma come veterinario si occupa anche della specie più importante della fauna del Ruanda: i gorilla del Parco Nazionale dei Vulcani.
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Aka
conto che la difesa della natura è giardini al nostro centro di quaranUGANDA l’unica carta che ci resta da giocaTANREP. DEM. tena di Kigali», racconta alla fine di CONGO re», afferma, «infatti grazie alle e rZANIA dicembre. Gli uccelli restano qui a Ruhengeri molte persone che lottano per la quattro settimane con lo scopo di Paludi di Rugezi loro salvezza, il numero di esemParco evitare di propagare eventuali maParco Gisenyi Nazionale Nazionale plari inizia finalmente a crescere. lattie tra gli animali liberi. Se gli ucdei Vulcani dell'Akagera Allora, ho pensato, perché non docelli sono sani, vengono trasferiti in Kigali Gitarama vrei riuscire a fare lo stesso anche un centro di reintroduzione presso per le gru?». È così che NsengimaRUANDA Kibungo il parco nazionale di Akagera. Qui na ha concepito il suo programma: gli animali si abituano progressivaCyangugu ridare la libertà alle gru in cattività Butare mente alla vita libera; a medio terdel Ruanda. La reintroduzione avmine Nsengimana ha in programviene in tre fasi: innanzitutto le gru ma anche un piano di riproduzione BURUNDI tenute nelle città devono essere reper questi uccelli. 50 km gistrate. Sapendo dove vivono gli Infatti, per aiutare veramente le gru animali è possibile stabilire se sono in modo sostenibile, il veterinario Il Ruanda si trova nell’Africa Orientale, è grande la abbastanza sane per provvedere a metà della Slovacchia e ha il doppio dei suoi abitanti. non si limiterà a liberare gli uccelli loro stesse una volta rimesse in liin cattività: «Dobbiamo fermare bertà. Infine gli esemplari idonei vengono in cattività a registrare i loro animali. Co- anche il bracconaggio nell’habitat delle consegnati a un centro di reintroduzione me contropartita inizialmente le autorità gru». In passato nei villaggi attorno alle garantivano l’impunità ai proprietari; chi paludi di Rugezi era possibile acquistare in natura presso il parco nazionale. Fin dall’inizio gli fu chiaro che senza aiuti invece al termine di questa campagna d’in- una gru per una somma pari a circa cinnon sarebbe mai riuscito a realizzare la sua formazione possedeva ancora una gru non que dollari americani. In città, invece, i missione. Nella ricerca di fondi e sosteni- registrata sarebbe stato perseguibile dalla commercianti ricavavano fino a 200 dollatori, a questo ingegnoso medico dei gorilla legge. ri per un esemplare: un bel margine di sono tornati utili i suoi contatti nell’ambito La campagna si è dimostrata subito un guadagno! della difesa della natura, ma soprattutto il successo: «Dopo poche settimane aveva- Per questo motivo Nsengimana vuole insuo ottimismo e il suo spirito imprendito- mo oltre 130 gru nella nostra banca dati», formare anche gli abitanti delle zone viciriale. Nell’estate del 2014 Nsengimana riu- spiega Nsengimana, secondo il quale il ne ai parchi nazionali sul destino che tocca scì a conquistare per il suo progetto uno numero di gru in cattività si aggira attorno in sorte alle gru che vengono catturate e dei più ambiti Rolex Awards, oltre 50 mila a 300 esemplari. «Molti proprietari non promuovere la loro protezione, magari franchi svizzeri, con il quale vengono pre- erano nemmeno consapevoli della grave parlando direttamente con i capi locali miati i giovani più intraprendenti di tutto il situazione delle gru nel nostro Paese. Ora nella regione attorno alle paludi, formanmondo. Il giovane veterinario ha cercato desiderano aiutare e collaborano volentie- do guardie e istruendo i bambini nelle sostenitori anche attraverso i social net- ri». Come per esempio i proprietari di uno scuole. work: così grazie a un’iniziativa di dei migliori alberghi della città, che hanno A lungo termine, spera Nsengimana, il crowdfunding ha finanziato la realizzazio- registrato ben otto gru. Nsengimana e i suo progetto potrebbe diventare l’esempio ne di un fumetto divulgativo sulle gru ri- suoi aiutanti – studenti impegnati e veteri- per la prossima generazione di ecologisti nari – visitano questi animali, li inanellano in Ruanda e l’impegno verso le gru povolto ai bambini. Questo suo spirito intraprendente è stato e raccolgono i dati Gps della loro posizio- trebbe servire per motivare i suoi aiutanti convincente anche per le autorità del ne. Poi verificano se gli uccelli sono idonei proprio come l’opera dei Gorilla Doctors Ruanda che si occupano della difesa della per il programma di reinserimento in na- fece per lui quando era uno studente: «Denatura nel Paese, che tra le altre cose hanno tura: quattro uccelli dell’albergo erano sidero trasmettere ai giovani veterinari finanziato una campagna sulla sopravvi- idonei. qualcosa di più di come curare gli animavenza della gru coronata grigia: attraverso Così la missione di Nsengimana inizia a li», spiega. «L’ideale per me sarebbe riusciarticoli su giornali, spot televisivi e radio, si diventare realtà: «Siamo appena riusciti a re a ispirarli affinché creino dei loro proinvitavano i proprietari degli uccelli tenuti trasferire 42 gru in cattività in parchi e getti per la difesa della natura». g
u o Kiv Lag
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AMBIENTE
LA ZONA GRIGIA Miniere e industria pesante erodono la Cina. Particolarmente colpito è il nord del Paese, dove la vita media degli abitanti è diminuita di cinque anni e mezzo. A quando un cambiamento? Testo Florian Hanig / Foto Lu Guang
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Nella steppa di Hulun Buir il terreno è dissestato e pericoloso. Le gallerie delle miniere di carbone spesso crollano, inghiottendo la terra. Ed è anche successo che si trascinassero dietro un’intera famiglia a bordo di un trattore.
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Quando i camion carichi di carbone passano per le strade dei villaggi, gli abitanti vengono inghiottiti da una nuvola di polvere. A Pechino le polveri sottili nell’aria sono arrivate persino a livelli 50 volte superiori a quelli ammessi dall’Organizzazione mondiale della sanità.
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Un’industria chimica ha riversato i propri rifiuti in un avvallamento del terreno. Una volta evaporata l’umidità, al suolo restano zolle cristalline e una superficie luccicante. Gran parte dell’acqua freatica cinese non è potabile.
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Gli operai cercano di proteggersi con delle maschere dai gas di scarico di una fornace di calce. L’industria cinese si sviluppa come quella europea si è sviluppata 150 anni fa. Ma in modo molto più rapido e molto più inquinante.
Il mais e i cereali coltivati nella Mongolia Interna sono contaminati con metalli pesanti. Il governo è costretto ad acquistare terreni agricoli all’estero per sfamare la popolazione.
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Corea del Nord
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Oceano Pacifico Grafica-GEO
ieca ironia o cieca obbedienza? Quando Pechino, a fine febbraio 2014, è scomparsa sotto una nuvola di smog, il contrammiraglio Zhang Zhaozhong è apparso sugli schermi della televisione statale per dichiarare che la coltre nera e soffocante che avvolgeva le strade aveva i suoi lati positivi: l’aria era così satura di metalli pesanti da formare uno scudo contro i raggi laser nemici. La capitale era quindi protetta da eventuali attacchi aerei. Il contrammiraglio ne ha anche approfittato per ricordare che la cintura
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carbonifera che si estende a nord della capitale attraverso le province di Mongolia Interna, Shaanxi, Shanxi e Hebei protegge Pechino anche da eventuali invasioni via terra, in modo ancora più efficace di quanto abbia mai fatto la Grande Muraglia che attraversa la regione. Infatti, chiunque attraversi il confine cinese dalla Mongolia o dalla Russia incontra, in queste quattro province, un paesaggio infernale. Dove prima c’erano praterie attraversate da gruppi nomadi con i loro greggi di pecore, oggi ci sono crateri enormi, profondi oltre 100 metri e con un diametro che può arrivare fino a qualche chilometro. Colonne di mezzi pesanti serpeggiano sui fianchi di queste voragini per caricare carbone da portare alle cokerie circostanti. Le aree disseminate di crateri sono vaste. Qualche tempo fa alcune gallerie sono crollate: ormai è come se il suolo fosse disseminato di trappole. È STATO MAO ZEDONG a decidere, negli anni Cinquanta del secolo scorso, di insediare gran parte dell’industria pesante nel nord della Cina. Da un lato perché la costruzione di cokerie, altoforni e fabbriche chimiche vicino ai giacimenti carboniferi avrebbe permesso di limitare i trasporti. Dall’altro lato perché Mao
voleva assicurarsi l’approvvigionamento industriale in caso di guerra nell’eventualità in cui la costa fosse stata attaccata da Stati Uniti e Taiwan. Dopo la liberalizzazione dell’economia negli anni Novanta il numero di fabbriche nella regione si è moltiplicato. Se nel 1990 la Cina produceva solo 66 milioni di tonnellate di acciaio, nel 2013 ne produceva 779 milioni, quasi la metà della produzione mondiale. E il settore è in continua espansione, con una crescita fino al 10 per cento annuo. La Cina consuma anche circa la metà del carbone estratto a livello mondiale: nel 2012 ne ha consumate complessivamente 3,8 miliardi di tonnellate. Il Paese non dispone infatti di giacimenti petroliferi e di gas sufficienti ai propri bisogni, mentre abbonda di enormi filoni di carbone, concentrati nelle pianure della Mongolia Interna e nelle province limitrofe. Il 70 per cento dell’energia cinese viene ottenuta dalla combustione del carbone. Nel 2015 verranno costruite altre 16 enormi centrali, la maggior parte delle quali nella zona carbonifera settentrionale. A pagarne il prezzo sono gli uomini e la natura: i giacimenti di carbone inghiottono enormi quantità d’acqua. Solo le 16 nuove centrali avranno bisogno, secondo una stima effettuata da Greenpeace, di dieci miliardi di metri cubi d’acqua all’anno, in una regione che già oggi soffre una grave siccità e diventa sempre più arida e stepposa. A ciò si aggiunge il fatto che le fabbriche scaricano le loro acque reflue non depurate nei fiumi oppure nei deserti. Infatti oggi oltre il 50 per cento delle acque freatiche cinesi è inquinato. E i laghi prosciugati sono spesso ricoperti di uno strato di residui chimici che scintillano nei colori dell’arcobaleno. La polvere turbinante del deserto del Gobi si mescola alla fuliggine delle
fabbriche, ai vapori sulfurei delle cokerie e ai gas di scarico velenosi delle fabbriche chimiche, generando una miscela tossica che durante l’inverno e la primavera copre ampie zone della Cina. IL GIORNO IN CUI il contrammiraglio
Zhang è comparso sugli schermi televisivi, la concentrazione di polveri sottili a Pechino superava i 500 microgrammi al metro cubo: un livello 50 volte superiore al valore massimo stabilito dall’Organizzazione mondiale della sanità. I pechinesi che volevano attraversare una strada a quattro corsie non riuscivano più a vedere da un lato all’altro dell’arteria. Secondo gli studi pubblicati sulla rivista medica inglese The Lancet, questo smog costa ogni anno la vita a mezzo milione di cinesi. Nelle regioni nord-orientali della Repubblica popolare la speranza di vita si è ridotta in media di cinque anni e mezzo.
Il ministero dell’Agricoltura cinese stima che l’inquinamento dell’aria con metalli pesanti renda ogni anno non commestibili dieci milioni di tonnellate di cereali e ne contamini altri 12 milioni di tonnellate. Una ragione in più per cui le aziende statali acquistano o affittano terreni agricoli in tutto il mondo. Solo in questo modo è infatti possibile nutrire la popolazione cinese. Il governo è consapevole della crisi: il Capo del governo Xi Jinping ha dichiarato, nel luglio 2013, che i suoi ministeri nei prossimi cinque anni spenderanno l’equivalente di 200 miliardi di euro in misure volte a migliorare la qualità dell’aria. Inoltre l’impegno per l’ambiente sarà uno dei fattori da considerare nella promozione dei funzionari pubblici. È infatti in questo settore che sono falliti finora i progetti di riforma dei decenni passati. I funzionari con ruoli direttivi, molti di cui membri del partito, finora
venivano valutati in base a due criteri: la capacità di mantenere la pace politica nel loro distretto e la quantità di denaro iniettata nelle casse dello Stato. Chi voleva fare carriera doveva favorire l’insediamento di industrie. I requisiti ecologici, controproducenti in termini di profitto, venivano trascurati. Un compito piuttosto semplice, dato che la maggior parte dei danni ambientali sono di natura cumulativa e che i loro effetti diventano visibili solo in un secondo tempo, come è avvenuto nei “villaggi del cancro” della Cina Centrale, situati a valle di alcuni stabilimenti chimici. Quando si verificano i primi casi di tumore, nella maggior parte dei casi, i funzionari responsabili dello scarico illegale dei veleni tossici hanno già ottenuto un posto migliore altrove. Con una automobile di servizio più grande, una casa più lussuosa, una nota spese ancora più generosa. LA DESERTIFICAZIONE del paesaggio
nel nord della Cina ha nel frattempo assunto dimensioni talmente apocalittiche e gli effetti sull’intero Paese sono così devastanti che il partito deve agire. Gli esperti sinologi amano scrivere che esiste una specie di accordo tra il Partito comunista e il popolo cinese: se l’economia è florida e il popolo sta sempre meglio, si può anche rinunciare alla propria libertà. Pur di aumentare il proprio livello di benessere i cinesi hanno per così dire rinunciato al diritto di votare liberamente, di riunirsi liberamente e di esprimersi liberamente. E ben presto dovranno rinunciare anche a quello di respirare liberamente.
A Xilin Gol le scorie dei giacimenti carboniferi seppelliscono la steppa. Sono ormai pochi i pastori rimasti con i loro animali tra i cumuli di detriti.
Lu Guang, ex operaio di fabbrica nato nel 1961, documenta da anni le devastazioni ambientali in Cina. Grazie al suo lavoro ha ottenuto il premio Henri Nannen e altri riconoscimenti, ma anche tante minacce da parte degli industriali.
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Alla ricerca
IL RACCONTO
della
leggenda
Da generazioni in Honduras circolano voci su una leggendaria Ciudad Blanca (città bianca), appartenuta a una civiltà scomparsa. I tentativi compiuti finora di scovarla nella foresta sono falliti. Oggi una nuova tecnica porta alla luce tracce di insediamenti di un sontuoso passato. Testo Douglas Preston
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A FORESTA PLUVIALE della Mosquitia, este-
sa su una superficie di oltre 82 mila chilometri quadrati, è tra le più fitte del mondo. «È un’area montuosa e inospitale», mi spiega brevemente Christopher Begley, archeologo ed esperto dell’Honduras. «Piena di torrenti, è l’habitat delle vipere saltatrici, dei serpenti corallo, di piante spinose e di insetti succhia-sangue. E poi qui circolano un sacco di brutte malattie: malaria, dengue, leishmaniosi e malattia di Chagas». Nonostante tutto ciò, da quasi un secolo avventurieri e archeologi si spingono in questa regione alla ricerca delle rovine di un’antichissima città costruita in pietra bianca: la Ciudad Blanca.
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Le voci sulla sua esistenza risalgono al 1526. Al tempo il conquistatore Hernán Cortés scrisse al re di Spagna Carlo I dicendo di avere informazioni affidabili dell’esistenza, nell’entroterra dell’Honduras, di una provincia più ricca del Messico che comprendeva grandi città. Tre secoli dopo, nel 1839, il diplomatico e archeologo dilettante statunitense John Lloyd Stephens si avventura nella foresta vergine, alla ricerca di rovine nell’Honduras Occidentale, si imbatte negli incredibili resti della città maya di Copán, che compra al proprietario terriero locale per 50 dollari. Stephens esplora numerose rovine di città di culto dell’America Centrale, descrivendole in un libro. Presto sul posto giungono anche altri archeologi, e poco alla
volta scoprono che, a partire dal 250 a.C., i Maya hanno dominato l’area della Mesoamerica, a sud del Messico, fino al loro misterioso declino nel decimo secolo. Le culture mesoamericane che si estendevano a partire dal Messico in direzione sud sembravano finire in Honduras. La regione a sud e a est di Copán era stata colonizzata da uomini che gli esperti classificano come “primitivi”. Le foreste pluviali, però, erano talmente fitte e la regione così pericolosa che qui sono state effettuate solo ricerche molto limitate. Le voci che parlano di città misteriose nell’inaccessibile foresta della Mosquitia, però, continuano a circolare. Dando vita, nel XX secolo, alla leggenda della Ciudad Blanca, chiamata anche la “città perduta del dio delle scimmie”.
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Per i locali non è solo una città perduta. È il simbolo dell’età dell’oro
luto tornare nella foresta vergine per iniziare gli scavi, ma nel 1954 si uccide senza rivelare dove si trovi esattamente la città, e se davvero l’abbia trovata.
EGLI ANNI TRENTA del 900 molte spedizioni si
avventurano nuovamente nell’entroterra dell’Honduras alla ricerca della Ciudad Blanca. George Heye, figlio di un magnate del petrolio e fondatore del museo degli indiani d’America di New York, finanzia da solo tre gruppi di ricerca. I primi due falliscono. Per il terzo Heye ingaggia Theodore Morde, un audace avventuriero americano. A soli 29 anni Morde ha già fatto cinque volte il giro del mondo e ha raccontato la Guerra civile spagnola come giornalista. Nel marzo 1940 lascia New York per recarsi in Honduras. Dopo quattro mesi senza dare notizie rispunta dalla foresta pluviale della Mosquitia per scrivere al New York Times un articolo dal titolo: “Rinvenuta probabilmente la città del re delle scimmie. La spedizione in Honduras si annuncia un successo”. Morde ha risalito un fiume per chilometri e chilometri, attraversando montagne e paludi e aprendosi un cammino nella foresta fino a scoprire le rovine. Nei suoi racconti “La città del dio delle scimmie era circondata da mura, (...)che avevano resistito all’assalto della vegetazione. Abbiamo costeggiato un muro fino a quando questo spariva in tumuli che anticamente dovevano essere dei grandi edifici”. La foresta vergine è troppo fitta, impossibile penetrarla, ma la guida indigena racconta a Morde che sotto al tumulo dovrebbe nascondersi, secondo la leggenda, un tempio con una scalinata immensa che conduce direttamente “a un podio sul quale è collocata la statua del dio delle scimmie, dove un tempo venivano sacrificate le vittime”. Morde scrive: “Il sito è circondato da montagne. Lì vicino c’è anche una cascata che, bella come un vestito di gioielli luccicanti, si getta nella valle verde delle rovine”. Come racconta il New York Times, Morde ha riportato dall’esplorazione qualche migliaio di manufatti: utensili in pietra, sculture religiose, un flauto. Avrebbe vo-
DA ALLORA, L’IDEA DELLA CITTÀ BIANCA si è radicata profondamente tra gli honduregni. Nel 1960 il governo istituisce a Mosquitia, su una zona di circa 5.000 chilometri quadrati, l’area archeologica protetta di Ciudad Blanca. Nel 1980 l’Unesco dichiara la zona Riserva della biosfera del Río Plátano; due anni dopo diventa Patrimonio dell’umanità. Secondo le ultime stime a Mosquitia ci sono circa 200 siti archeologici. Alcuni sono abbastanza grandi da poter essere chiamati città, altri sono composti da qualche piccolo tumulo disposto in modo tale da indicare la presenza di un insediamento. Continuano, però, a circolare voci incontrollate sulla vera Ciudad Blanca che svetterebbe dalla foresta vergine al punto da essere riconoscibile da lontano. L’archeologo dell’università di Harvard Gordon Willey racconta di aver sentito da sempre queste storie da millantatori nei bar honduregni dove lui e i suoi colleghi cercano di ottenere informazioni sulle rovine archeologiche interessanti. «Credo che ciò che hanno visto siano solo rocce calcaree», dice. Anche a George Hasemann, studioso dell’Honduras, morto nel 1998, gli informatori indiani hanno sempre rifilato voci poco attendibili. In un’intervista del 1994 Hasemann ipotizza che le città che ha visto a Mosquitia avrebbero un tempo ubbidito a un sistema politico centrale che non è mai stato trovato. E che potrebbe essere appunto la Ciudad Blanca. «Ogni dieci anni c’è qualcuno che la trova», dice Christopher Begley scuotendo la testa. Insegna alla Transylvania University a Lexington, nel Kentucky. «Ci sono almeno cinque grandi siti archeologici di cui si dice che siano la famosa Ciudad Blanca». Begley è uno dei pochi archeologi a essere stato in tutti questi siti. Ritiene che il mito risalga agli indiani Pech e Tawahka e che
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I racconti indiani e spagnoli si sono fusi dando vita a nuove leggende: avranno un fondamento di verità comune? si sarebbe in seguito fuso alle leggende spagnole. Le fonti indigene di Begley gli hanno raccontato di un luogo appartenuto agli avi, chiamato anche la Casa Bianca, nel quale sarebbero fuggiti gli dèi all’avanzare degli spagnoli. «Ciò che per gli indigeni è andato perduto con la “città perduta” non è la città in sé», prosegue Begley. «Essa simboleggia una sorta di età dell’oro, quella della loro indipendenza, della speranza e delle opportunità». Non molto tempo fa Begley ha capeggiato una spedizione in cui il giornalista Christopher Stewart seguiva le orme di Theodore Morde. Stewart ha descritto la spedizione in un libro che si conclude in modo vago: dopo una settimana di marcia il gruppo avrebbe raggiunto una rovina che forse è la città del dio delle scimmie scoperta da Morde. O forse no.
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EGLI ULTIMI ANNI l’Honduras è stato colpito da
un’ondata di criminalità, corruzione, delitti e traffico di droga. È il Paese con il più alto numero di omicidi al mondo e nel 2012 San Pedro Sula, la seconda città più grande del Paese, era in testa alla classifica delle città più violente al mondo. Un rifugio pacifico è invece rappresentato dall’isola Roatán nel Golfo dell’Honduras, 160 chilometri a nord ovest delle montagne di Mosquitia. Larga 5 chilometri e lunga 50, l’isola è circondata da un mare turchese e vaste barriere coralline. Una mattina di maggio del 2012 attraverso la pista dell’aeroporto di Roatán per salire a bordo di un minuscolo velivolo a due motori: sto per partecipare a una spedizione alla ricerca della Ciudad Blanca. L’IMPRESA PRESENTA poche prospettive di successo. È orga-
nizzata da Steve Elkins, un regista di documentari che già negli anni Novanta ha intrapreso un tentativo, fallito, di individuare l’antica città. L’aereo, un vecchio Cessna 337 Skymaster, nel corso degli anni ha perso circa un terzo del suo colore, e una sottile striscia d’olio cola dal motore sulla fusoliera. Le finiture interne, un tempo di velluto rosso, sono sporche, sbiadite e aggiustate con del nastro adesivo. Gli altri componenti dell’apparecchio sembrano tenuti assieme solo da una massa di giun-
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ture di acrilico sfaldate, ma Chuck Gross, il pilota, mi assicura che lo Skymaster è un «aeroplanino eccellente, assolutamente affidabile». Gross è seduto sull’unico sedile dell’aereo, per il resto interamente svuotato. Una grande cassa metallica riempie quasi tutto l’abitacolo; l’aereo è stato modificato apposta per poterla trasportare. Contiene un apparecchio chiamato lidar (light detection and ranging, telerilevamento a raggi laser): un attrezzo del valore di un milione di dollari in grado di vedere attraverso il fitto tetto di chiome della foresta pluviale di Mosquitia e di redigere una mappa del terreno ad alta risoluzione. Il nostro obiettivo è una valle remota, un settore di 60 chilometri quadrati abbondanti. Nel 1997 gli scienziati della Nasa, durante l’esame di alcune immagini satellitari di questa regione, individuano forme di linea retta e incurvate, definite innaturali. Le immagini, tuttavia, non sono nitide e nessuna spedizione terrestre è in grado di raggiungere la valle. Il piano di Elkins consiste nel perlustrare la regione con il lidar: il modo più comodo di condurre ricerche archeologiche nella foresta pluviale, dopo un secolo di estenuante lavoro degli studiosi. Un tempo gli archeologi dovevano creare delle radure per liberare, su un sito, ogni dettaglio potenzialmente realizzato dall’uomo e poterlo così misurare e cartografare mentre venivano torturati da mosche e zanzare, dal calore e dalla paura dei serpenti velenosi. La ricerca poteva durare per decenni e costare centinaia di migliaia di dollari. Numerosi siti archeologici di piccole dimensioni non sono stati neanche individuati e, sorprendentemente, anche quelli più grandi erano difficili da identificare.
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A TECNICA LIDAR VIENE utilizzata sin dagli anni
Ottanta da geologi, urbanisti e ingegneri edili. Ma solo oggi è diventata sufficientemente precisa da essere impiegata anche nella mappatura di siti archeologici nelle foreste vergini. Questo apparecchio è in grado di mappare in pochi secondi migliaia di ettari di foresta, anche fittissima. «Quando compariamo i dati forniti dal lidar con ciò che già sappiamo, riusciamo a far rivivere le antiche civiltà americane»,
La tecnologia lidar rivoluziona l’archeologia: ciò che veniva rinvenuto, dopo anni di lavoro sul campo, può essere mappato da un aereo nel giro di pochi giorni
Sulle mappe l’area del nostro obiettivo è una macchia bianca: sono forse secoli che gli uomini non penetrano queste zone mi dice uno studioso della Mesoamerica. La tecnologia arriva in un momento favorevole. Oggi i ricercatori sanno che le foreste pluviali del Nuovo Mondo erano molto più densamente popolate di quanto ritenuto in passato, anche dagli stessi abitanti di Mosquitia. Gli indigeni hanno costruito templi, piramidi e aree in cui svolgere i balli rituali, simili a quelle dei Maya ma costruite in modo diverso. Le fondamenta di Mosquitia non sono infatti costruite con pietre, ma con argilla e calcinacci su cui sono stati disposti i ciottoli di fiume. Su questa base venivano erette costruzioni in legno e argilla. Questa civiltà non ha un nome. Begley dice di averci riflettuto, concludendo: «Ma chi sono io in fondo per dargliene uno?». Quindi la chiama semplicemente “antica cultura di Mosquitia”. ELKINS AVVIA LE RICERCHE DELLA CIUDAD BLANCA NEL 2010. Ha letto in una rivista di archeologia in che modo gli
scienziati, con l’aiuto della Nasa, hanno esaminato la città maya di Caracol, in Belize, con l’aiuto del lidar. Il risultato era sorprendente. In soli cinque giorni il lidar aveva scoperto che nei 25 anni di lavoro archeologico sul campo era stato portato alla luce solo il 10 per cento della città. I disegni tracciati dal lidar mostravano forme di templi, case, strade, cisterne per l’acqua, terrazze, voragini, grotte nascoste e persino sepolcri profanati. Molte immagini erano identificabili direttamente, altre indicavano agli archeologi indizi da approfondire con la ricerca sul campo. La mappatura di Caracol è stata eseguita dal Centro Nazionale Airborne Laser per la Mappatura (Ncalm) di Houston. Elkins si reca a Houston per convincere gli esperti ad aiutarlo a cercare la Ciudad Blanca. Se dalle rilevazioni fosse emerso qualcosa d’interessante, gli archeologi di Elkins e i ricercatori avrebbero collaborato per valutare i dati ed effettuare una possibile spedizione. È una proposta fuori del comune, ma l’esperto di lidar William Carter è interessato. Anche il direttore dell’Ncalm Ramesh Shrestha trova allettante l’idea di esplorare una foresta
pluviale impenetrabile e remota. Altri nutrono dei dubbi. Michael Sartori, capo del dipartimento di cartografia, lamenta il mancato coinvolgimento degli scienziati: «Steve Elkins è un tipo da film. Ho messo in guardia i miei colleghi perché mi sembra una follia, un salto nel buio». Elkins vuole sorvolare con il lidar tutta la Mosquitia, ma quando gli viene detto che sarebbe costato milioni di euro riduce l’area di ricerca a 30 chilometri quadrati. Per poterlo fare gli mancano però ancora l’equivalente di 300 mila euro. Si procura quante più carte archeologiche possibile, ma l’obiettivo da monitorare è una macchia bianca. «Non ci sono indicazioni che qualcuno abbia mai raggiunto questa zona», mi dice. «Persino le spedizioni degli anni Trenta hanno aggirato l’area, essendo troppo difficile farsi strada fino a lì». Per sicurezza Elkins sceglie altre tre aree da esplorare. Un altro obiettivo è una valle che, secondo gli indizi, potrebbe essere la sede della Ciudad Blanca. Poi individua un terzo obiettivo che, proprio come il primo, è difficile da raggiungere e ancora inesplorato. Un quarto obiettivo, invece, era stato individuato negli anni Cinquanta da un geologo statunitense il quale sosteneva di aver trovato qui le mura di calce sbriciolate della Ciudad Blanca, ma viene scartato quando le immagini satellitari mostrano che l’area è stata devastata da taglialegna illegali. Elkins si mette alla ricerca di sponsor. Parla con il regista Bill Benenson, che sta terminando un documentario sull’etnia degli Hadza dell’Africa Orientale e che rimane talmente affascinato dall’idea che decide di finanziare la spedizione. Era una follia, ammetterà in seguito. «Ma anche se non dovessimo trovare niente», sostiene, «la sola ricerca con il lidar è sufficientemente interessante da trarne un buon film».
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UANDO CI INCONTRIAMO NEL 2012 A ROATÁN Elkins ha 62 anni. Porta un panama e un
paio di pantaloncini sformati e ha costantemente sottobraccio un computer portatile. È arrivato sull’isola a fine aprile e alloggia presso l’hotel Parrot Tree Plantation. Ci sono anche gli scienziati di Ncalm: Michael Sartori, esperto cartografo, e Juan Carlos Fernández Díaz, che si occupa di lidar. Il membro di gran lunga più degno di nota dell’équipe è tuttavia Bruce Heinicke, da lungo tempo partner di Elkins, ossessionato dall’idea di trovare la Ciudad Blanca. Incontro Heinicke per la prima volta al Parrot Tree Bar. Ha un robusto orologio da polso, un anello al mignolo e catene d’oro attorno al collo e, una birra in una mano e una sigaretta nell’altra, mi racconta una storia infarcita di maledizioni e parolacce che, mi avvisa subito, deve
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L’organizzatore della spedizione di ricerca è un temerario avventuriero che, se costretto, non esita a estrarre la pistola rimanere strettamente confidenziale. Heinicke ed Elkins si sono incontrati nel 1994 mentre Elkins girava, per contro di una televisione tedesca, un documentario sulla ricerca della Ciudad Blanca. Elkins aveva bisogno di qualcuno sul posto e decide di ingaggiare Heinicke. L’Honduras, infatti, a causa della violenza e della corruzione, è un luogo difficile in cui girare un film, ma Heinicke decide di provarci. Quando, durante le riprese, Elkins deve improvvisamente fare ritorno ad Amburgo, si reca con Heinicke all’aeroporto di Roatán ma il volo è già completo, e quello successivo sarebbe partito due giorni dopo. Poco prima che l’aereo decolli Heinicke sale a bordo ed estrae la sua colt 45 agitandola sotto il naso di un passeggero. «Mi serve il tuo cazzo di posto», grugnisce, «alza il culo». Una volta fatto sloggiare il passeggero, Heinicke mette via la pistola e come se niente fosse fa chiamare il produttore: «Prego, ecco il tuo posto». Heinicke spiega che «qui è l’unico modo per andare avanti». E aggiunge: «Con Steve Elkins il pericolo è sempre in agguato. Vede del buono in tutti. Io invece sono piuttosto diffidente. Forse è per questo che siamo una buona squadra». Elkins aggiunge solo: «Bruce è una di quelle persone che è meglio non avere come nemico». IL GOVERNO DELL’HONDURAS concede pochi permessi per
le ricerche a Mosquitia, ma Elkins è riuscito a ottenerlo con l’aiuto di Heinicke e della moglie honduregna Mabel. Alla fine del 2009 Mabel si reca a Tegucigalpa, la capitale, per il funerale del padre. In chiesa viene a sapere che l’allora neoeletto presidente Porfirio Lobo Sosa si sarebbe recato coi propri ministri in quella stessa chiesa il sabato seguente per far benedire il nuovo governo. Quando lo racconta al marito, Heinicke elabora un piano. Il sabato successivo, dopo la messa, Mabel si avvicina al presidente chiamandolo con il suo nomignolo, Pepe, poi gli afferra il braccio e comincia a raccontare. Mabel spiega al presidente che suo marito sa dove si trova la Ciudad Blanca e che ha solo biso-
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gno dell’accordo del governo per scoprirne i resti. Il presidente le dice di rivolgersi a un uomo del suo gabinetto che le avrebbe dato tutti i permessi necessari. Quest’uomo si chiama Áfrico Madrid. Poi il presidente chiama Heinicke. «Sa veramente dov’è la città?», gli chiede. «Sì, signore», risponde Heinicke. E il presidente: «Mi interessa. Sarebbe una buona cosa per il Paese». I permessi vengono concessi nell’ottobre 2010.
I
L MIO VOLO, NEL 2012, è il terzo che l’aereo con il lidar
effettua verso il primo obiettivo individuato. Sono stato avvertito che il volo sarà privo di comfort. Fernández, l’esperto di lidar, è seduto accanto alla cassa metallica con un portatile collegato all’apparecchio. Non resta praticamente più spazio libero. Voliamo bassi e lenti sopra gli alberi avvolti nell’umidità, schiacciati lateralmente a ogni curva mentre il pilota percorre il suo itinerario di ricerca per quattro lunghe ore. Senza sosta. L’aereo, sotto il sole, è come una lattina chiusa ermeticamente, la climatizzazione è guasta e siamo in balia delle correnti ascensionali. Non c’è bagno. Mi viene indicato un posto sul retro vicino a una finestra in plexiglas opaco. Il giorno prima Fernández ha scoperto, sul fondo della valle, qualcosa di simile a colonne. Mi dà una macchina fotografica con teleobiettivo chiedendomi di fotografare tutto quanto abbia un aspetto innaturale. Mi schiaccio nel posto indicato, le ginocchia all’altezza del mento, mentre sorvoliamo la baia luccicante. Dopo soli 15 minuti il Cessna raggiunge la terraferma honduregna. Sotto di noi appaiono villaggi, campi e fiumi dai meandri bruni, poi le montagne bluastre di Mosquitia. Le nuvole sono rade, la giornata ideale per fare della cartografia. La pianura lascia il posto alle colline ricoperte di boschi e si cominciano a vedere le prime cicatrici del disboscamento. Dalla foresta si innalzano nuvole di fumo. L’85 per cento del commercio di legname in Honduras è illegale, il Paese perde la sua foresta pluviale a una velocità impressionante. Poi le aree disboscate diminuiscono, adesso abbiamo sotto di noi montagne scoscese ricoperte di foresta vergine. Chuck Gross conduce il Cessna a 2.400 metri sopra al tetto verde fatto di alberi. Un’ora dopo la partenza ci annuncia che abbiamo rag-
Colto di sorpresa durante la messa, il nuovo presidente honduregno dà il permesso di cercare la Ciudad Blanca
giunto il limitare della valle del primo obiettivo stabilito. In teoria la valle può essere osservata su cartine che si trovano anche su internet, ma occorre sapere dove cercare. In Honduras, però, le indicazioni del luogo sono un segreto di Stato. Attraverso la mia finestrella opaca vedo una distesa di colline e terreni alluvionali protetti da una fortezza di alte montagne. Il Cessna plana nella valle a un’altitudine di 600 metri sopra gli alberi. Gross trova il punto in cui ha interrotto la mappatura il giorno prima e Fernández aziona il lidar. L’apparecchio è installato sopra un foro praticato sul fondo dell’aereo. Nella cassa ci sono un laser e un sistema di specchi rotanti che emettono 125 mila lampi infrarossi al secondo. Nell’arco di tre giorni il lidar emette 1,5 miliardi di impulsi laser. Una parte di questi raggi viene riflessa dal tetto di foglie, un’altra raggiunge il suolo. Per ogni raggio riflesso il lidar calcola il tempo impiegato per percorrere la distanza dall’aereo a terra e ritorno ed è così in grado di calcolare la distanza con una precisione di centimetri. Poi gli esperti di mappatura utilizzano un programma per eliminare i riflessi degli alberi. Ciò che rimane è la retrodiffusione del suolo, con la quale viene stilata una cartina topografica del terreno contenente eventuali indizi sulle rovine ricoperte dalla vegetazione. Mentre il lidar bombarda le chiome di raggi laser, Gross pilota il Cessna in modo da tracciare lunghe linee parallele sulla valle. Per poter ricostruire i dati rilevati Gross deve determinare costantemente la posizione dell’aereo nelle tre dimensioni con un’esattezza al centimetro, sebbene il velivolo avanzi a quasi 200 chilometri orari e, nell’aria turbolenta che sovrasta la foresta, sia esposto a rollii e oscillazioni. Il rilevamento è possibile grazie a un apparecchio della forma di una scatola da caffè situato nella cassa del lidar, uno strumento di misura dell’inerzia sviluppato dall’esercito statunitense per l’uso nei missili teleguidati. Questo strumento controlla la posizione dell’aereo e calcola le turbolenze. I dati elaborati dal sistema vengono poi combinati a coordinate Gps in modo da determinare in qualsiasi momento la posizione esatta dell’aereo. Questo strumento di misura dell’inerzia è segreto; per poterlo utilizzare in Honduras il Ncalm ha dovuto chiedere un permesso al ministero degli Esteri statunitense, garantendo che uomini armati a terra avrebbero tenuto costantemente l’aereo sotto controllo. La foresta pluviale sotto di noi è incredibilmente fitta. Le chiome degli alberi brillano in ogni sfumatura, gradazione e tono di verde: verde-giallo, verde smeraldo, verde lime, verde marino, verde acqua, verde bottiglia, verde oliva, giada. Qua e là spuntano alberi di kapok ricoperti di enormi fiori purpurei. Nel cuore della valle la foresta vergine si apre in una radura coperta di prati e ruscelli tortuosi. Sui pendii circostanti ci sono tracce di
L’apparecchio utilizzato per i
rilevamenti della posizione è talmente segreto che uomini armati sorvegliano l’aereo quando è a terra
frane, nei cui squarci appare una terra color arancio e tronchi d’albero. «Eccole!», grida Fernández indicando verso il basso. «Le due macchie bianche laggiù». Nella radura vedo due forme che Fernández ha fotografato il giorno prima. Disposte a circa nove metri di distanza l’una dall’altra, sono in parte ricoperte di arbusti e piante rampicanti e hanno effettivamente l’aspetto di colonne quadrate. Gross ci passa davanti un paio di volte volando a bassa quota, mentre io cerco di fotografarle attraverso il plexiglas provando a stabilizzare l’obiettivo contro le oscillazioni del velivolo.
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EL TARDO POMERIGGIO atterriamo a La Ceiba.
Fernández carica i dati del lidar su due cd e me li affida. Mentre con Gross cerca di procurarsi del carburante io prendo un volo per Roatán e do i cd a Sartori, che inizia immediatamente le analisi. Lavora tutta la sera mentre, da Houston, il direttore del Ncalm, Shrestha, lo tempesta di domande. È un lavoro faticoso. Sartori deve combinare i dati provenienti da varie fonti: il lidar, la stazione Gps di terra e quella Gps dell’aereo nonché i dati rilevati dal misuratore di inerzia, in modo da creare una nuvola di punti composta da miliardi di riflessi laser accuratamente calcolata nello spazio tridimensionale. A tarda notte riesce a elaborare una prima carta approssimativa. Tutti gli altri dormono e la connessione internet a Roatán è interrotta. Sartori, esausto, va a riposare. Il mattino seguente, di buon’ora, riversa le mappe sul server di Houston. Senza guardarle, Shrestha le inoltra al suo collaboratore William Carter, che si trova nella sua casa di villeggiatura nel West Virginia. Carter riceve le mappe alle 8:30 di mattina. Stava per andare a fare la spesa, ma dice a sua moglie di voler prima dare un’occhiata rapida ai dati. «Pensavo di metterci cinque minuti, ma poi ho scoperto qualcosa che sembrava una piramide», raccon-
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ta in seguito. «Sull’altra sponda del fiume c’era una sorta di piazza con delle strutture di edifici indubbiamente costruiti dall’uomo». E non è tutto: in tutta la valle del fiume Carter identifica delle costruzioni e dei paesaggi che indubbiamente derivano da mano umana. Invia le coordinate a Sartori e Shrestha affinché possano individuare gli oggetti sulle proprie mappe. Sartori esce correndo in ciabatte dalla sua stanza, agitando le braccia e chiamando Elkins, che ha appena finito di fare colazione: «C’è qualcosa nella valle!». Ci riuniamo in camera di Sartori per guardare le immagini sul computer. Le mappe sono grigio su grigio e compilate in modo rapido e grossolano, ma incredibilmente chiaro. A monte della confluenza di due ruscelli sono visibili alcune forme quadrate e, accanto a esse, colline piramidali disposte a rettangolo su una superficie di oltre 100 ettari. Si distinguono chiaramente anche le colonne quadrate che ho visto dall’aereo. La casella e-mail di Sartori viene sommersa di messaggi di Carter e Shrestha, che studiano contemporaneamente la stessa mappa. «Quando ho visto questi rettangoli e queste piazze ho pensato “eccola!”», racconta in seguito Elkins, «ora ne avevo la conferma». Anche Benenson, il regista incaricato di filmare la scoperta, è davvero sorpreso. Quella sera Heinicke chiama Áfrico Madrid, l’ex ministro degli Interni honduregno, per raccontargli della scoperta. Madrid dice di dover verificare i dati prima che la notizia venga comunicata alla stampa. Nei tre giorni successivi Chuck Gross effettua altre due missioni, volando questa volta sul secondo e sul terzo obiettivo individuati; nel complesso l’équipe cartografa 140 chilometri quadrati di foresta pluviale a Mosquitia. Ne emerge che il terzo obiettivo nasconde rovine ancora più spettacolari, e anche la seconda area mappata ospita un paio di siti interessanti. Invece di una singola città abbiamo evidentemente trovato i resti di un’antica cultura.
N
EGLI ULTIMI 20 ANNI gli archeologi hanno pian
piano capito che le idee sinora diffuse sulla vita dei popoli precolombiani nella foresta pluviale erano errate. Prima si pensava infatti che il suolo delle foreste pluviali dell’America Centrale e Meridionale fosse troppo
L’équipe di ricercatori cerca i resti di una città, ma trova
molto di più
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arido per nutrire grandi popolazioni. Si supponeva tuttavia che in molte regioni esistessero gruppi di cacciatori e raccoglitori. Ora emerge invece che la foresta amazzonica ha ospitato un tempo complesse civiltà agricole che coltivavano la terra e che costruivano città e villaggi collegati tra loro attraverso strade e canali. Anche se oggi Mosquitia sembra un luogo inospitale e inadatto alla vita umana, questa regione forse un tempo aveva l’aspetto di un immenso giardino ben curato. Questo è almeno quanto sostiene Christopher Fisher, studioso del Mesoamerica alla Colorado State University. Il ricercatore ritiene che cereali, fiori, alberi da frutto e piante di cacao venissero coltivati in coltura mista e non in monocolture come oggi. I villaggi erano circondati da boschi, sentieri, parchi ombreggiati. Secondo Fisher c’erano anche punti di osservazione. Le piramidi sarebbero servite anche a farsi vedere da lontano. Il 12 maggio 2012 Áfrico Madrid e altri funzionari statali honduregni si riuniscono nella camera di Sartori per osservare le immagini del lidar. Quella sera stessa Madrid chiama Lobo, il presidente dell’Honduras, per comunicare che la Ciudad Blanca è stata rinvenuta. «Quando ho sentito queste parole», mi racconta poi il presidente, «sono rimasto completamente senza parole». Lobo e Madrid considerano questa scoperta un segno divino: Mabel, la moglie di Heinicke, li aveva incontrati proprio mentre erano in chiesa per domandare la benedizione per il proprio governo. «Il caso non esiste», ritiene Madrid. «Sono sicuro che Dio ha grandi progetti per il nostro Paese, e la Ciudad Blanca ne fa parte». Il 15 maggio Elkins e Fernández vengono convocati al palazzo presidenziale per presentare la scoperta in una riunione di gabinetto che viene trasmessa anche in diretta televisiva. Poi, sui gradini del palazzo, ha luogo una conferenza stampa. Un comunicato stampa congiunto dell’équipe di Elkins e del governo divulga infine la scoperta: sarebbero state rinvenute «tracce di rovine in un’area in cui, secondo antiche voci, si potrebbe trovare Ciudad Blanca, la città perduta». La stampa non riporta però il cauto condizionale. E i giornali titolano immediatamente “Ritrovata la Ciudad Blanca”. Alcuni archeologi, però, sono tutt’altro che contenti della notizia. L’esperta di Honduras Rosemary Joyce, dell’Università californiana di Berkeley, definisce il progetto frutto di una “cattiva archeologia”. Critica il fatto che nell’équipe non ci fosse neanche un archeologo. «È almeno la quinta volta che qualcuno dice di aver trovato la Ciudad Blanca», si lamenta durante un’intervista alcuni giorni dopo la conferenza stampa. «Non esiste nessuna Ciudad Blanca: è solo un mito. Vogliono qualcosa di spettacolare, ma un’antica cultura non è qualcosa che si può vedere con un lidar. Le scoperte vanno fatte sul campo». Le chiedo se è disposta a vedere le immagini ottenute con il lidar. Inizialmente
Gli archeologi hanno per lungo tempo creduto che nella foresta vergine vivessero solo
cacciatori e raccoglitori.
Ora invece si delinea il profilo di una cultura altamente sviluppata dice di no, poi accetta esitante. «Magari li contatterò», aggiunge. Le invio l’estratto di una piccola area del primo obiettivo mappato; Joyce mi chiama qualche minuto più tardi. «Sì», ammette, «si tratta di siti archeologici». Ha individuato «tre gruppi importanti di grandi strutture», e «una piazza, una classica piazza pubblica e forse un’area di gioco e numerose collinette di case». Suppone che il sito appartenga al periodo tardo o post-classico, tra l’anno 500 e l’anno 1000.
A
GIUGNO ELKINS CHIEDE all’archeologo Christo-
pher Fisher se voglia partecipare al progetto. Sono anni che Fisher effettua delle ricerche ad Angamuco, un insediamento precolombiano a Michoacán, in Messico, risalente al periodo compreso tra l’XI e il XVI secolo. Nel 2010 Fisher ha impiegato un’apparecchiatura lidar ad Angamuco con cui ha raggiunto risultati spettacolari come quelli di Caracol. Le immagini, ottenute da un volo su Angamuco durato appena 45 minuti, hanno portato alla luce 20 mila oggetti archeologici sino ad allora ignoti, tra cui una piramide che dall’alto sembrava un buco della serratura. «Sono quasi scoppiato in lacrime quando ho visto le immagini del lidar», racconta Fisher. «O mio Dio», ho subito detto, « ho appena risparmiato dieci anni di vita». È il tempo che avrebbe impiegato per ispezionare i nove chilometri quadrati in cui sono avvenuti i ritrovamenti più importanti. Fisher prende sei mesi di tempo per esaminare accuratamente le mappe dell’Honduras. A dicembre presenta i risultati a Elkins e al suo team. Per prima cosa parla della terza area già mappata: «È una grande città. Dalle dimensioni si direbbe paragonabile a Copán», la città maya nell’Honduras Occidentale. Mostra una mappa di Copán e sovrapponendola a una mappa lidar della città sconosciuta scoperta in Honduras riscontra che entrambe hanno un’estensione di circa 5 chilometri quadrati. In seguito mi spiega di aver individuato, sulle mappe, almeno due grandi città, forse addirittura tre. Le prime due città venute
alla luce col lidar sembrano più grandi di qualsiasi altra cosa sia stata rinvenuta sinora a Mosquitia. Fisher ha inoltre identificato centinaia di siti più piccoli tra cui villaggi di contadini ma anche dell’architettura monumentale, migliaia di canali, strade e tracce di terreni terrazzati. «Queste zone un tempo erano completamente abitate dall’uomo che era riuscito a dominare la rigogliosa natura». Fisher ne è sicuro. Per gli archeologi, si può definire “città” solo un luogo che svolge più funzioni e con una chiara suddivisione dello spazio e degli strati sociali, e con collegamenti stradali ai villaggi dei quartieri periferici. Le città erano anche luoghi di culto e quindi dovevano essere alimentate da un’agricoltura intensiva. Fisher dice vi aver riconosciuto tutte queste peculiarità dalle immagini fornite dal lidar. Inoltre afferma che «diversamente da città come Copán e Caracol, le città di Mosquitia non sono costruite attorno a un nucleo, sono piuttosto estese, come Los Angeles». Fisher sorride e dice: «Mi ascolto mentre pronuncio queste frasi e già mi immagino la tempesta di critiche che scateneranno. Gli archeologi esperti di lidar non sono molti». Gli chiedo se ritenga che sia stata finalmente rinvenuta veramente la leggendaria Ciudad Blanca. Scoppia a ridere: «Non credo che esista solo una Ciudad Blanca. Credo che ce ne siano molte, moltissime». Elkins spera in un’ulteriore spedizione, organizzata in collaborazione con il governo honduregno. Nella speranza di poter vedere, grazie a questa tecnologia innovativa, tutto quello che è rimasto nascosto per secoli. Tuttavia il vero problema è che in Honduras vengono distrutti ogni anno circa 120 mila ettari di foresta pluviale. La prima zona perlustrata da Elkins qualche anno fa è già stata devastata e disboscata. Nonostante nel 2012 la zona intorno ai tre obiettivi di ricerca sia stata dichiarata area protetta all’interno della riserva della biosfera e patrimonio dell’umanità, i controlli sono scarsi. Il fatto che queste montagne siano isolate e apparentemente impenetrabili non basterà a tenere lontani i taglialegna ancora a lungo. Dal Cessna ho visto nuvole di fumo che si innalzavano dalla foresta pluviale fino all’orizzonte. Quando gli archeologi giungeranno un giorno sulle aree dei siti incantati in cui fiorirono un giorno antiche culture, forse troveranno solo terra bruciata. Oppure, come ha detto Christopher Fisher: «Forse le immagini lidar saranno tutto ciò che ci resterà». L’autore di gialli statunitense Douglas Preston, classe 1956, prima della sua carriera di scrittore ha lavorato per l’American Museum of Natural History di New York; si occupa di archeologia ormai da anni. Il suo contributo sulla Ciudad Blanca è stato pubblicato per la prima volta nella rivista The New Yorker (©2013, Splendide Mendax).
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NATURA
ORSI DI MARE rsi bruni hanno o i h sc te n a ig g , ska nal Park, in Ala no sui fondali o ra ti lt a o N in rk si la , a C e re k a am el La ando c ’è la bass Lungo le rive d ano a pascolare u rn Q i. to i in o d P u . it ia b b a b a sa olari hi nascosti nell sviluppato sing Arndt osserva cc o li g o n In n O ca E i G i re e d li og rafo scoperti per racc rati salmastri. Da anni il fotog go Arndt ip Te st o e Fo to In placidamente su i nel loro genere. unic questi animali
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Hanno passato l’inverno sulle montagne dell’entroterra. Ora questa orsa e i suoi due cuccioli sono tornati nell’area costiera del LAKE CLARK NATIONAL PARK. In questa remota riserva naturale di 16.300 chilometri quadrati sulla costa meridionale dell’Alaska questi grizzly (Ursus arctos horribilis) sono di casa. Dietro alle spiagge si stendono vaste praterie attraversate da corsi d’acqua, un habitat ideale per gli orsi che qui trovano cibo in abbondanza.
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In PRIMAVERA i piccoli orsi diventano ESPLORATORI; il posto migliore per guardarsi attorno è in groppa alla madre.
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I prati salmastri dietro alle spiagge sono la STANZA DEI GIOCHI degli orsetti. Mentre la madre si rimpinza di erba nutriente, i piccoli vivono le loro prime AVVENTURE. Per i più grandicelli, accapigliarsi significa affinare le proprie abilità. La madre si separa dalla PROLE solo quando i piccoli arrivano al terzo anno di vita. Tra non molto, i due giovani orsi dal pelo chiaro (a destra) diventeranno indipendenti.
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Durante i loro GIOCHI, i cuccioli devono sempre stare all’erta: se si avvicinano maschi adulti, la loro vita è in pericolo.
Quando c’è la bassa marea, enormi porzioni di FONDALI marini restano scoperte. Grazie al loro olfatto eccezionale, gli orsi qui vanno a caccia di prelibatezze. In particolare amano i CANNOLICCHI DEL PACIFICO, grandi e nutrienti molluschi che si nascondono in profondità nella sabbia. Già da piccoli, gli orsi si esercitano a DISSOTTERARLI e ad aprirli abilmente con le zampe e con i denti. Dopo il pasto c’è tempo per un RIPOSINO sulla spiaggia.
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PRELIBATEZZE dal fondo del mare. La madre riserva gran parte dei molluschi al suo cucciolo.
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Durante la caccia ai salmoni capita che vi siano LOTTE per accaparrarsi i posti migliori. Le maestose aquile di mare testabianca (Haliaeetus leucocephalus, in alto a destra) dovranno accontentarsi degli avanzi. Quando gli orsi avvistano un pesce, si avventano sulla preda con tutta la loro FORZA. Chi riesce ad afferrare un salmone si ritira subito in modo che nessuno glielo sottragga. Gli orsi sono ottimi NUOTATORI, capaci di compiere lunghi percorsi in acqua senza fatica.
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Predatori al CHIARO DI LUNA; presso la foce del Silver Salmon Creek, gli orsi sono in attesa dei SALMONI.
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A PASSEGGIO SUI FONDALI: il fotografo Ingo Arndt, in compagnia della sua guida, immortala due orsi.
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Lake Clark National Preserve
Anchorage
Mt. Lliamna
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Soldotna
Penisola di Kenai
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Mt. Redoubt
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Lake Clark National Park
Ba
G
li americani parlano di cowboy walk quando un vecchio orso entra nell’arena camminando a gambe larghe. È proprio ciò che sto osservando ora. Con passo sicuro e pieno di vigore, un gigante bruno avanza spavaldo sul prato e ostenta il suo corpo in modo da farlo sembrare ancora più possente. All’arrivo del patriarca, i maschi più giovani vanno subito a nascondersi nella vicina boscaglia. Solo un’orsa curiosa si ferma a guardare, ma tenendosi a debita distanza. Quando il colosso la scorge e si mette a marciare nella sua direzione, la femmina si spaventa e sparisce. Siamo a maggio, il periodo dell’accoppiamento. Gli orsi bruni del Lake Clark Na-
Silver Salmon Creek Homer
Golfo dell'Alaska
75 km
tional Park sono usciti dal letargo solo da pochi giorni; stanno lasciando le loro tane per scendere verso i prati salmastri della costa. Dopo il lungo digiuno invernale, la prima cosa che fanno è riempirsi la pancia di erba succosa. Mi meraviglio sempre quando vedo questi orsi che per giorni non sembrano fare altro che cibarsi continuamente di erba. Evidentemente i prati salmastri sui quali si spostano lentamente, come se fossero mucche o cavalli al pascolo, sono per loro un’importante fonte di nutrimento. La vita degli orsi sulle coste del Lake Clark National Park è molto diversa da quella dei loro simili in altri habitat. Da sette anni continuo a tornare qui per documentare la vita e le abitudini di questi straordinari animali: in primavera, nel
In questo mosaico di ACQUA, PRATI e BOSCHI non è sempre facile rintracciare gli orsi.
La spiaggia come PISTA D’ATTERRAGGIO: il mezzo migliore per raggiungere gli orsi costieri è l’aereo. Per motivi di SICUREZZA, Ingo Arndt deve sempre mantenere una distanza di almeno 50 metri dai giganteschi predatori. Le immagini da vicino vengono realizzate con un CARRELLO FOTOGRAFICO telecomandato dal quale gli orsi però spesso si tengono a distanza per diffidenza. Solo quando il veicolo è fermo, si avvicinano curiosi a osservarlo.
periodo dell’accoppiamento o poco dopo, quando le femmine escono allo scoperto con i loro cuccioli. Durante la bassa marea, seguo gli orsi mentre vanno a caccia di molluschi sui fondali. Altre volte li raggiungo in tarda estate, durante la migrazione dei salmoni, quando si appostano alla foce del fiume per catturarli. Quelli presenti sulle coste dell’Alaska sono grizzly (Ursus arctos horribilis), gli orsi più grandi del mondo. Il loro peso eccezionale è dovuto all’abbondanza di cibo nel loro habitat naturale; alcuni maschi adulti arrivano a superare i 700 chilogrammi. Lungo il Silver Salmon Creek, dove sono solito fotografarli, gli orsi trovano condizioni di vita ottimali. Così ho la possibilità di osservarne almeno una decina in un’area di pochi chilometri quadrati, mentre in genere sono sparpagliati su territori enormi. Durante una passeggiata serale, incrocio una femmina che sta uscendo dal bosco. L’orsa è seguita da due cuccioli che assomigliano a batuffoli di pelo scuro. Sono
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ancora malfermi sulle zampe, e anche troppo piccoli per riuscire a mangiare erba o altri cibi solidi. Restando sempre vicini alla madre, si divertono a ruzzolare sull’erba e a esplorare il mondo che li circonda. Più avanti mi imbatto in un cucciolo più grande che trotterella dietro alla madre. Evidentemente è figlio unico e sente la mancanza di un compagno di giochi, così l’orsa ogni tanto deve fermarsi e intrattenerlo. Al piccolo orso piace lottare, ma nella foga talvolta dimentica di ritirare gli artigli. Allora la madre, infastidita, lo sfiora con un leggero scappellotto sul naso per dargli una lezione. Per un giovane orso bruno, l’educazione è importantissima e gli garantisce la sopravvivenza. I cuccioli devono capire presto quando non è più tempo di giocare, perché i pericoli sono sempre in agguato e bisogna guardarsi anche dai propri simili. Ogni volta che se ne presenta l’occasione, gli orsi maschi cercano di uccidere i cuccioli di femmine scono-
sciute; perdendoli, infatti, queste diventano più propense ad accoppiarsi di nuovo, permettendo così ai maschi di tramandare il loro patrimonio genetico. Anche le orse rappresentano un pericolo per i cuccioli altrui, che considerano concorrenti nella ricerca del cibo. Così, quando un giovane orso si sente in pericolo, cerca rifugio sui rami più alti e sottili degli alberi, irraggiungibili per i pesanti orsi adulti. Dove finiscono i prati, inizia la spiaggia. Lungo le coste meridionali dell’Alaska, la differenza di livello tra alta e bassa marea è notevole e si aggira sui sette metri. Quando l’acqua del mare si ritira, restano scoperte vaste porzioni di fondale che offrono agli orsi un alimento prelibato: i cannolicchi del Pacifico (Siliqua patula), molluschi bivalve grandi quanto il palmo di una mano. Nei fondali se ne trovano in grandi quantità, nascosti in profondità sotto la sabbia bagnata. Di primo mattino mi metto a seguire tracce di orsi che conducono dalla spiag-
gia ai fondali. Poco dopo ne scorgo uno, arrivato probabilmente prima dell’alba. La sabbia è costellata di buche che l’animale ha scavato per estrarre le prede. Localizzarle non gli è difficile, perché l’olfatto degli orsi è migliaia di volte più fine di quello dell’uomo. L’orso continua a camminare sui fondali limacciosi con il naso a pochi centimetri dalla sabbia. Ogni due passi si ferma e inizia a scavare in profondità, talvolta ficcando tutta la testa nella buca. Deve lavorare velocemente, perché la sabbia bagnata scivola indietro e potrebbe vanificare la fatica. A colpo sicuro, l’orso estrae dalla sabbia un cannolicchio dopo l’altro. Ciò che sorprende ancora di più è l’abilità con cui apre i gusci piatti e lisci dei molluschi. Li tiene fermi con i lunghi artigli delle zampe anteriori e poi li schiude con i denti per succhiarne il contenuto con l’aiuto della lingua. Durante le tre ore in cui seguo il suo percorso, l’orso divora con evidente gusto almeno una sessantina di cannolicchi; gli altri suoi compagni, evidentemente dotati di meno talento, si devono accontentare della metà. A luglio la vita degli orsi che frequentano queste coste è molto rilassata. Il periodo degli amori è ormai passato, i cuccioli stanno crescendo e le madri possono ridurre le loro attenzioni. L’erba succosa e i tanti molluschi ingurgitati hanno rimpolpato i cuscinetti di grasso degli animali che ora, sazi e soddisfatti, hanno molto tempo per riposarsi in attesa della migrazione dei salmoni di fine agosto. Sulla spiaggia incontro un’orsa con due cuccioli ormai grandi, di circa due anni. La temperatura supera i 20 gradi e l’animale soffre il caldo. Per rinfrescarsi, scava una buca nella sabbia fredda e umida e ci si stende. I giovani orsi, intanto, entrano in mare e si azzuffano per gioco, per poi dedicarsi a un altro passatempo che consiste nel mordicchiare i rami. Sono capaci di farlo per ore e ore, provando a masticarli e a piegarli in tutti i modi. È un esercizio che fortifica le mascelle e le prepara ai futuri morsi. In piena estate i due orsetti avranno già
cambiato il pelo; quello nuovo sarà più corto e darà loro un aspetto diverso. Anche il muso sembrerà più affilato, non più rotondo da orsacchiotto, e si allungherà fino ad assomigliare a quello dei cani. A partire da metà agosto, osservo che gli orsi entrano in acqua sempre più spesso; non vedono l’ora che arrivino i salmoni. Ora riposano meno, pronti a raggiungere il fiume per accaparrarsi i posti migliori per la pesca. Ogni volta che si percepisce uno sciacquettio d’acqua, gli orsi scrutano attentamente il fiume. Poi, pochi giorni prima della fine di agosto, l’attesa finisce. Una mattina scopro quattro orsi in posizione presso la foce del Silver Salmon Creek, tutti concentrati sul corso d’acqua e già pronti a colpire. All’improvviso, un salmone schizza fuori dall’acqua bassa. Uno degli orsi lo vede e inizia a correre, lo raggiunge in pochi secondi e ci si butta sopra con tutto il suo peso. Circondato da schizzi d’acqua, l’orso riemerge con il grosso pesce infilato in bocca. I salmoni sono finalmente arrivati, e questi orsi mettono subito in pratica diverse tecniche di pesca. I più esperti fanno la posta, se ne stanno in piedi nel fiume e attendono che il salmone nuoti verso di loro. Poi spesso basta una zampata, e per il pesce non c’è scampo. Gli indecisi, solitamente orsi più giovani, fanno invece nervosamente avanti e indietro sulle sponde e riescono ad acchiappare le preda solo per caso, per esempio quando i salmoni sono tanti e alcuni pesci rimangano incagliati nell’acqua bassa in prossimità della riva. Una terza categoria di cacciatori è quella degli “sportivi”, gli orsi che vanno incontro ai salmoni o li rincorrono nell’acqua, a volte girando loro attorno. Neanche a farlo apposta, ogni tanto si mettono in posizione eretta per scrutare meglio il fiume, agevolando così il lavoro del fotografo che può immortalare pose di sicuro effetto. Ogni orso arriva a mangiare sui venti salmoni al giorno, l’equivalente di quasi 60 chilogrammi di carne. In poco tempo negli animali si forma un cuscinetto di
grasso supplementare che può arrivare fino a 100 chilogrammi di peso. Gli orsi che a inizio stagione apparivano gracili si irrobustiscono in un batter d’occhio, mentre quelli più giovani riescono addirittura a raddoppiare il loro peso in un solo anno, assicurandosi così una buona riserva di grasso per i mesi da trascorrere in letargo. Quando arriva l’inverno, gli orsi si ritirano dalla costa verso le alture dell’entroterra. La loro vita nel Lake Clark National Park è pressoché indisturbata, perché quest’area protetta in posizione isolata non conta più di 6 mila visitatori l’anno. Per l’ambiente naturale una cifra come questa non costituisce un grande problema, ma per il territorio di questi orsi, uno dei pochi ancora rimasti, rappresenta già un pericolo. Ovviamente anche io mi considero un visitatore. Quando nel 2007 visitai per la prima volta il Lake Clark National Park, avevo già sognato tante volte di fotografare questi giganteschi orsi che vivono in Alaska, ma l’incontro con questi animali è stato più impressionante di quanto potessi immaginare. Già alla seconda visita mi ritrovai rapito da questa passione per gli orsi che non mi ha mai più abbandonato. Ancora oggi considero un grande privilegio l’opportunità di accompagnare per giorni questi possenti animali e di poterli osservare da vicino.
Il fotografo di GEO Ingo Arndt ha ricevuto molti riconoscimenti per il suo lavoro, tra cui il World Press Award. Le immagini di questo servizio sono contenute insieme a molte altre nel volume fotografico Küstenbären, pubblicato in tedesco dalla casa editrice Knesebeck Verlag.
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Nubi grigie nella luce abbagliante del crepuscolo (come raffigurato nel dipinto Veduta di un porto di Caspar David Friedrich): le emissioni gassose del Tambora, oltre che sul clima, ebbero effetto anche sull’arte.
1815 STORIA
L’eruzione che cambiò il mondo
Nell’aprile del 1815 avviene la più grande eruzione vulcanica della storia moderna, quella del Tambora, alla quale si deve l’introduzione di importanti innovazioni come le fognature, la bicicletta e le leggi sociali. Persino l’arte si trasforma sotto le nuvole di cenere di quella catastrofe ambientale. Testo Fred Langer
N
ON CI SONO TESTIMONI OCULARI,
ma sono in tanti ad aver udito l’enorme boato che, la sera del 5 aprile 1815, fa tremare l’intero archipelago indonesiano e non solo. Comandanti e luogotenenti in località distanti centinaia di chilometri tra loro mobilitano le truppe e fanno preparare le navi da guerra per il combattimento. Tutti credono che si tratti di fuoco di artiglieria nelle immediate vicinanze. Thomas Stamford Raffles, vicegovernatore britannico nelle Indie Orientali, invia una nave ausiliaria da Batavia (l’odierna Giacarta, capitale dell’Indonesia) perché ritiene che le presunte salve di cannone siano segnalazioni di un veliero in difficoltà. Il vascello inglese non trova però niente. In effetti, per conoscere l’origine di quel frastuono avrebbe dovuto spingersi molto lontano: sull’isola di Sumbawa, 1.300 chilometri a est di Batavia, dove il vulcano Tambora è in eruzione.
Eppure, per quanto immane sia il fragore, questo è solo l’inizio dell’inferno che si scatenerà sei giorni più tardi. Dopo una breve e illusoria fase di calma, sotto la sommità del Tambora si è sviluppata una pressione tale da squarciare il vulcano, alto più di 4 mila metri, provocando un’esplosione che si sente fino a Sumatra, situata 2.500 chilometri più a ovest. A bordo del Benares, un veliero da battaglia della Compagnia britannica delle Indie Orientali che si trova al largo di Sulawesi, a 350 chilometri dal focolaio eruttivo, il boato è assordante, “come se facessero fuoco tre o quattro cannoni contemporaneamente”, scrive il capitano Eatwell. Poi si fa scuro, già verso mezzogiorno è “più buio che nella notte più nera”. Dal cielo cade abbondante cenere, tanto che l’equipaggio del Benares deve mettersi a spalare affinché la nave non si ribalti. Il 19 aprile, dopo che la nube di cenere si è diradata, il Benares raggiunge un’isola che può essere solo Sumbawa, ma non le somiglia più: lunga 280 chilometri, larga
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90, ma totalmente cambiata. Quello che un tempo era il cono uniforme del Tambora, punto di orientamento sempre visibile in lontananza per i naviganti, ora non esiste più, è letteralmente esploso, e il vulcano è passato dagli originari 4.300 metri a 2.850 metri di altezza. Degli abitanti dell’isola non c’è più alcuna traccia. Secondo i calcoli dei geologi contemporanei, l’esplosione del Tambora avrebbe liberato un’energia pari a quella di almeno 170 mila bombe atomiche, proiettando in aria 150 miliardi di metri cubi di rocce e cenere, e sollevando una colonna di fumo alta più di 40 chilometri. Colate piroclastiche e valanghe di gas di diverse centinaia di gradi centigradi precipitarono a valle, incenerendo qualsiasi forma di vita, e, nell’impatto con il mare, produssero violente esplosioni di vapore. Sui villaggi sottostanti si scatenò un micidiale bombardamento di frammenti di roccia e la lava ricoprì l’intera isola. Nel calore sempre più intenso si formarono uragani che spazzarono via alberi e case. Porti, spiagge, piantagioni furono flagellati dagli tsunami, con onde altissime che sommersero imbarcazioni, persone e animali. Solo pochi isolani riuscirono a sopravvivere al cataclisma. Due principati, Pekat e Tambora, scomparvero dalla superficie terrestre. Almeno 10 mila abitanti furono uccisi all’istante, tra 50 e 100 mila morirono di fame nelle settimane successive, perché a Sumbawa e nelle isole limitrofe, a Lombok e in alcune parti di Bali non cresceva più niente sotto la coltre di cenere vulcanica. Non sapendo più come sopravvivere, decine di migliaia di persone consegnarono le proprie vite nelle mani dei trafficanti di schiavi. L’eruzione del Tambora è la più violenta dall’ultima Era glaciale. Per trovarne una ancora più devastante, quella del Taupo in Nuova Zelanda, bisogna andare indietro fino a 26.500 anni fa. Il vulcano Krakatoa, molto più famoso del Tambora, eruttò quasi 70 anni dopo, nel 1883, sempre in Indonesia. L’energia sprigionata in quell’occasione fu tuttavia
Thailandia
Vietnam
Filippine
Oceano Pacifico
Malesia
Su
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Borneo
ra Indonesia
Oceano Indiano
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Sulawesi
Giacarta (Batavia) Giava
Tambora Sumbawa
1.000 km
di gran lunga inferiore rispetto a quella del Tambora, ma la notizia fece subito il giro del mondo grazie al telegrafo e alla macchina da stampa. Per questo, nell’epoca dei primi mass media, l’eruzione del Krakatoa divenne una storia sensazionale.
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A NOTIZIA DEL TAMBORA si diffonde invece alla velocità dei velieri, suscitando una blanda reazione perché non vi è ancora un’opinione pubblica internazionale che segua l’evento con partecipazione o sensazionalismo, e nessuno al mondo metterà in relazione la catastrofe dell’anno seguente con l’eruzione di un vulcano in Estremo Oriente. La cenere nell’atmosfera viene presto dispersa e spazzata via dalla pioggia e dal vento, ma la violenza dell’eruzione ha anche proiettato milioni e milioni di tonnellate di anidride solforosa in aria, dove, fra i 30 e i 50 chilometri di quota, il gas incolore si combina con il vapore acqueo, dando vita all’acido solforico, che avvolge il Pianeta in una cappa di aerosol, una cortina di goccioline finissime che fa da scudo al calore dei raggi solari. Il disastro di Sumbawa è quindi solo il primo atto di un dramma che segue inesorabilmente il proprio corso e cambierà il mondo per sempre.
1816: L’ANNO SENZA ESTATE Non si sa cosa stia succedendo, non si capisce perché il cielo sia così nero e cupo. A Parigi, sommersa sotto enormi masse d’acqua, le campane suonano per convocare i fedeli alla preghiera e i penitenti si muovono in tetre processioni sotto la pioggia battente. A Gand, in Belgio, la gente pensa che le trombe della cavalleria annuncino la fine del mondo come quelle di Gerico. A Bologna un predicatore sparge la voce che il Sole si spegnerà per sempre il 18 luglio 1816; le autorità, temendo un’isteria di massa, lo fanno arrestare. In effetti nell’eIn questa raffigurazione storica quello che appare come un fungo atomico potrebbe essere l’eruzione del Tambora sull’isola di Sumbawa, di potenza equivalente a quella di 170 mila bombe di Hiroshima.
Immagine simbolica (nel quadro Plus fidèle qu’heureux del pittore belga Joseph Stevens) che tuttavia era una triste realtà in molte zone europee, quando la nube di aerosol del Tambora schermò i raggi solari. Il 1816 fu un anno gelido in tutto il Nord America e in Europa.
state di quell’anno si mostrerà di rado. Il velo di aerosol del Tambora provoca un calo delle temperature compreso tra uno e due gradi in tutto il mondo, addirittura tra cinque e dieci gradi a livello locale. All’inizio di giugno nevica in Inghilterra e in Baviera, la Sassonia è colpita da alluvioni che fanno annegare le mandrie, mentre in Olanda i contadini macellano il bestiame, ormai alla fame perché le inondazioni hanno distrutto le riserve di fieno. Il Reno e il Neckar, la Senna e la Saona straripano e allagano città e villaggi. Il mese di agosto non è ancora finito, quando neve e ghiaccio ricoprono nuovamente i campi inglesi, distruggendo i raccolti.
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A SITUAZIONE DEGLI APPROVVIGIONAMENTI è talmente critica che le autorità bri-
tanniche secretano il rapporto sull’agricoltura, facendone circolare solo poche copie, nel timore che la disperazione dei contadini possa degenerare in rivolte popolari una volta appresa l’effettiva portata del disastro. In Irlanda si prega affinché il Signore risparmi alla gente la peggiore di tutte le calamità terrene, la fame. Invano, perché all’inizio del 1817 un’epide-
mia di tifo fa strage tra la già provata popolazione dell’isola, uccidendo decine di migliaia di persone. Nell’aprile dello stesso anno, in alcune parti della Svizzera il prezzo del frumento sale alle stelle. Anche i più abbienti chiedono ai propri invitati di portarsi dietro il pane per le cene di gala, mentre il popolo impara a cucinare cibi “alternativi” come lumache, rane e gatti. Nella regione del Baden si registrano i peggiori raccolti degli ultimi 400 anni, in Württemberg le patate marciscono nel terreno, lunghe carovane di affamati si trascinano nel fango delle strade provinciali. “Persone che sembrano cadaveri, tra cui molti bambini, mendicano il pane”, raccontano le cronache del tempo. I viaggiatori descrivono una situazione del tutto analoga in Francia: “A ogni fermata vi sono schiere di donne, bambini, anziani radunate intorno alla carrozza; le grida di tutte queste figure pallide ed emaciate, con le mani tese verso di noi, sono insopportabili”. Ben presto la Francia assiste a scenari da guerra civile, in Inghilterra c’è aria di rivoluzione, Vienna invia l’esercito per tenere a freno le masse esasperate con la forza delle armi. Nella Germania Sud-occidentale, tra la metà del 1816 e la fine del 1817 decine di migliaia di persone emigrano;
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del 160%, quella dell’Indiana quadruplica, arrivando a quasi 100 mila abitanti, quella dell’Ohio passa da 200 mila a 400 mila persone. Sicuramente non è solo il Tambora a spostare i confini americani. Gli Stati del New England, il nucleo iniziale degli Stati Uniti, sono densamente popolati, la terra è sottoposta a un eccessivo sfruttamento. L’“anno senza estate” fa crollare un sistema comunque fragile. Lo stesso avviene in Europa, dove il freddo anomalo colpisce un continente stremato da due decenni di guerra. Eppure senza l’eruzione del Tambora la storia del mondo sarebbe stata diversa, non solo in Europa, non solo in America. Nel 1816, a causa delle basse temperature, il monsone estivo è praticamente assente in India, dove si registrano scarsi raccolti, carestie ed epidemie. La Cina deve affrontare un’improvvisa ondata di freddo, con neve estiva, violente inondazioni nel Sud e siccità nel Nord.
IL VULCANO E IL VELOCIPEDE L’aumento vertiginoso dei prezzi dei cereali incrementò la criminalità. In questo dipinto si vede uno “strozzino del grano” impiccato.
nei primi quattro mesi del 1817, il solo granducato di Baden perde un quinto della popolazione, che risale il Reno verso i porti marittimi per proseguire alla volta dell’America. Ma non è un buon piano, perché sull’altra sponda dell’Atlantico il quadro è lo stesso: un’estate che è come un inverno, accompagnata in parte da un’estrema siccità. A metà aprile del 1816, nevicate che durano giorni interi preannunciano una catastrofe in Canada. In maggio il gelo e la neve raggiungono gli Stati Uniti dal Maine fino al Tennessee. A giugno le pecore appena tosate del Vermont muoiono assiderate e gli uccelli cadono morti dagli alberi; Boston è sotto la neve, ad Albany, capitale dello Stato di New York, si scatenano tempeste invernali. Neve e gelo anche nel mese di luglio, gelo in agosto. Stessa situazione nel 1817, con la neve che cade anche in pieno maggio. Ormai non si trova più il foraggio, e allora numerosi allevatori del New England sono costretti a trasferirsi nell’Ovest o nel Sud. Un esodo lungo 1.500 chilometri, con diligenze scassate o carretti a mano, sui quali stanno i figli più piccoli e qualche effetto personale; il padre provvede a trainare, seguito a piedi dalla moglie e dai figli maggiori. Tra il 1815 e il 1818 la popolazione dell’Illinois cresce
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Come reagiscono i potenti alle intemperie? Un esempio illustre è quello di Guglielmo I e della consorte Ekaterina Pavlovna Romanova, che salgono sul trono del Württemberg proprio nell’anno senza estate e, come risposta al disastro naturale dell’epoca, adottano misure sociopolitiche a sostegno dei ceti più deboli: nella primavera del 1817 fanno costruire mense, ospedali e una cassa di previdenza agricola, attuano un programma per la creazione di posti di lavoro e introducono una commissione per i poveri facente capo al ministero degli Interni. Una linea politica del tutto nuova, che prende le mosse dagli effetti devastanti dell’eruzione del Tambora. Anche l’Inghilterra emana nuove leggi sociali, la Francia promuove la giustizia distributiva con una politica economica ben calibrata, in Irlanda nascono organizzazioni umanitarie di nuova concezione. In passato le vittime di grandi calamità potevano contare solo sulla carità della Chiesa; ora invece, sotto la cappa di aerosol del Tambora, si fa strada la convinzione che i governanti debbano affrontare le conseguenze delle catastrofi naturali con programmi statali. La crisi degli approvvigionamenti impone anche misure preventive: nel 1818 Guglielmo I fonda un Istituto di agricoltura per lo studio di metodi di coltivazione più efficienti, che in seguito diventerà l’Università di Hohenheim, tuttora centro di eccellenza per le scienze agrarie. Un altro esito dell’eruzione è la Cannstatter Volksfest di Stoccarda, esposizione agricola annuale dove i contadini possono frequentare lezioni di agro-
COME FUNZIONA LA CLIMATOLOGIA: ECCO COSA POSSONO DIRCI DIPINTI E ALBERI
IL SEGRETO DI UN’APOCALISSE REMOTA I risultati delle misurazioni meteorologiche sono disponibili soltanto da un secolo e mezzo, quindi gli storici del clima si avvalgono anche di dati indiretti per poter studiare il passato in modo più approfondito.
Nel dipinto di William Turner, Il declino dell’impero cartaginese (Londra, Tate gallery), il cielo drammatico ricorda la catastrofe del Tambora.
STORICI DELL’ARTE e geologi colgono tracce dell’eruzione del Tambora nei tramonti particolarmente intensi dipinti da pittori come Caspar David Friedrich o William Turner. Anche se si potrebbe obiettare che il Romanticismo aveva un debole per la teatralità delle luci crepuscolari. È possibile stabilire in quale misura lo spirito dei tempi e la fisica dell’atmosfera si riflettono nelle esplosioni cromatiche sulle tele dei quadri? Alcuni scienziati, guidati dal fisico Christos Zerefos dell’Osservatorio nazionale di Atene, si sono cimentati in questo esperimento complesso e costoso. Gli studiosi hanno infatti analizzato le rappresentazioni di tramonti in 554 dipinti di 181 autori, eseguiti tra il 1500 e il 1900. Risultato: le opere prese in esame contengono informazioni straordinariamente precise sull’ambiente e l’intensità dei colori in correlazione con le quantità di lava emesse dalle eruzioni vulcaniche. I quadri dipinti nei tre anni successivi alle grandi eruzioni possiedono inoltre una percentuale notevolmente maggiore di rosso, con punte estreme nei dipinti eseguiti tra il 1815 e il 1818, a dimostrazione della violenza dell’eruzione del Tambora. LA DENDROCRONOLOGIA studia i rapporti tra lo sviluppo annuale degli alberi e i fattori climatici, misurando la larghezza e lo spessore degli anelli legnosi:
a condizioni di crescita sfavorevoli (in termini di temperature e precipitazioni, per esempio) corrispondono anelli di dimensioni minori. Il team del dendroecologo svizzero Ulf Büntgen ha raccolto dati dagli alberi, ma anche da vecchi mobili e travi, ordinandoli secondo un criterio temporale, riuscendo così a ricostruire 2.500 anni di storia del clima. I ricercatori hanno confrontato le informazioni climatiche racchiuse nel legno con gli eventi storici e sono giunti alla conclusione che le epoche storiche sono in correlazione con i cicli del clima; gli alberi e il loro sviluppo riflettono anche l’ascesa e il declino delle civiltà. Per esempio fu proprio intorno al 300 a.C., quando il clima in Europa divenne più caldo e umido, come si evince dalla maggiore crescita degli alberi, che l’Impero romano iniziò a prosperare, per poi tramontare a partire dal IV secolo d.C., quando il clima divenne freddo e secco. I CLIMATOLOGI analizzano i sedimenti sul fondo delle acque o i depositi nei ghiacci artici, la crescita dei coralli e il rapporto tra gli isotopi di ossigeno nei fossili di crostacei. Il progetto Pages (Past global changes), a cui partecipano 78 ricercatori di 24 Paesi, ha esaminato per sette anni oltre 500 archivi in tutto il mondo, ricostruendo con precisione gli avvenimenti climatici del Pleistocene e dell’Olocene. Gli scienziati hanno anzitutto individuato le forti oscillazioni di temperatura su grandi distanze temporali, causate per esempio dall’intensità solare o dall’inclinazione dell’asse terrestre; tra esse figura la fase calda medioevale, che coincise con un picco culturale in Europa (poemi cavallereschi, cattedrali gotiche). Poi hanno studiato gli eventi catastrofici tra il 1815 e il 1817, successivi all’esplosione del vulcano Tambora, fino ad arrivare a ritroso al 536 d.C., anno d’inizio di un decennio veramente estremo dal punto di vista climatico. Il Sole si oscurò per almeno 18 mesi e i dati raccolti evidenziano infatti un drastico crollo delle temperature, che provocò una crisi della civiltà, con la scomparsa di intere città mitteleuropee, cinesi e centroamericane, il crollo degli imperi, il diffondersi di carestie ed epidemie. Quale fu la causa di una simile apocalisse? Tra i “sospettati” c’è il vulcano Ilopango, nell’odierno El Salvador, tuttavia finora non è stato possibile stabilire la data e l’intensità esatte della sua eruzione. Secondo un’altra ipotesi, quella terribile decade fu dovuta all’impatto di comete con la Terra. IL SEGRETO dell’anno senza estate è stato gradualmente svelato sul piano scientifico a partire dalla fine dell’Ottocento grazie a nuovi metodi di misurazione e con riferimento ad altri vulcani: le eruzioni del Krakatoa in Indonesia (1883), del Santa María in Guatemala (1902) e del Novarupta in Alaska (1912) hanno dimostrato, infatti, che esiste un nesso tra le grandi eruzioni vulcaniche e il raffreddamento del clima.
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nomia e scambiare idee innovative. Oggi è una delle feste popolari più importanti del mondo. Oltre a tutto questo, e sempre sulla scia dell’eruzione vulcanica, a Baden prende corpo una geniale invenzione. Il tedesco Karl Drais lavorava già da tempo alla “draisina”, antenata della bicicletta, ma i suoi contemporanei non sapevano cosa farsene, avendo a disposizione cavalli e carrozze. Poi, nel 1816, gli animali, già fortemente decimati dalle guerre napoleoniche, iniziarono a morire di fame o a essere macellati per far fronte alla carestia. C’era quindi bisogno di un mezzo di trasporto efficiente su due ruote. Nel 1817 nasce la bicicletta e nel febbraio 1818 Drais brevetta finalmente il suo veicolo in Francia con il nome di “velocipede”. Nel 2017 verrà festeggiato il 200° anniversario della bicicletta, ennesima eredità lasciata dal vulcano Tambora.
TENEBRE E TRIPUDIO CROMATICO Ebbi un sogno che non era del tutto un sogno. Il sole radioso si era spento, e le stelle vagavano oscurandosi nello spazio eterno, disperse e prive di raggi, e la terra coperta di ghiacci in tenebre ruotava cieca nell’aria senza luce; il mattino venne e svanì, ritornò senza portare il giorno, e nel terrore di questa desolazione gli uomini obliarono le loro passioni; (...) IL POETA INGLESE GEORGE GORDON BYRON, autore di questi versi (L’oscurità), trascorre l’estate del 1816 in una villa sul lago di Ginevra. Sono presenti anche la scrittrice Mary Shelley, suo marito e altri bohémien inglesi. Regna un’atmosfera di desolazione. La località di va-
La carestia del 1816 decimò anche i cavalli, spianando la strada a un’invenzione fino ad allora considerata inutile e derisa: la draisina, antenata della bicicletta.
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canza è interessata dalla catastrofe e si prevede un’alluvione. Gli illustri ospiti non possono uscire di casa e si annoiano davanti al camino. Per ingannare il tempo, lord Byron indice un concorso letterario nella categoria dei racconti del terrore, in linea con la situazione generale. La prova di Byron è notevole: nel frammento Il vampiro, datato 17 giugno 1816, l’autore dà vita al prototipo del moderno vampiro. Ma il contributo di Mary Shelley è addirittura sensazionale: dalla sua fantasia nasce infatti Frankenstein, il capolavoro visionario che narra la storia del mostro per eccellenza. Alla sublime oscurità corrisponde una policromia esplosiva. Gli scrittori gotici possono coltivare la loro malinconia e i pittori romantici di quegli anni guardano il cielo della sera, rapiti da tramonti (quei pochi che ci sono) di intensità fino ad allora sconosciuta.
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ESPLOSIONE del Tambora non produce solo nuvole gravide di pioggia, ma anche crepuscoli dalla luce spettacolare. Le goccioline di aerosol nell’atmosfera spezzano i raggi di luce, dando vita a grandiose atmosfere crepuscolari. Probabilmente fu proprio una di esse che il pittore tedesco Caspar David Friedrich immortalò nel dipinto Veduta di un porto del 1815-16. Un altro pittore tedesco, Karl Friedrich Schinkel, si cimenta con la luce crepuscolare in Riva della Sprea nei pressi di Stralau (1817), e altrettanto fanno l’inglese William Turner ne Il declino dell’impero cartaginese (1817) o il francese Théodore Géricault in Paesaggio con acquedotto del 1818. L’impressionante gioco di colori non dura però a lungo. La nuvola di aerosol del Tambora si dissolve completamente entro il 1817 e nell’estate del 1818 le temperature tornano a normalizzarsi su entrambi i versanti dell’Atlantico. Tuttavia, almeno secondo alcuni studiosi, gli effetti della catastrofe si protraggono nel tempo, assumendo forme nuove e uccidendo probabilmente altre centinaia di migliaia di persone. Nel luglio 1832 New York è una città in preda al terrore. Sulle strade le diligenze sovraffollate schivano carrozze stracariche, tutti corrono veloci con il panico dipinto sul volto, tra rumore e caos. Via dalla città. “Fuggono come gli abitanti di Pompei, quando la lava cominciò a riversarsi sulle loro case”, scrive l’Evening Post. Il motivo di questo esodo di massa è il terrore del colera, che, nella sola New York, mieterà oltre 3.500 vittime. I cittadini più abbienti si salvano nelle campagne, mentre i più poveri rimangono nelle loro abitazioni; e nella
Negli anni Trenta dell’Ottocento il colera si diffuse in Europa: solo a Parigi (nel dipinto Il duca di Orléans visita un ospedale del francese Alfred Johannot) le vittime furono 18.500. Secondo gli studiosi, l’epidemia fu una conseguenza postuma dell’eruzione del Tambora.
metropoli regna un silenzio spettrale. Anche questa epidemia, che può trasformarsi in pandemia, ha a che fare con quell’esplosione vulcanica che, 17 anni e tre mesi prima, ha devastato l’isola indonesiana di Sumbawa. Ha inizio nel 1817 in India. Il colera è da tempo conosciuto come fenomeno isolato, ma l’anno senza estate crea condizioni di vita completamente nuove per l’agente patogeno. Le intemperie fanno crollare le temperature e provocano il raffreddamento delle acque del Golfo del Bengala, l’habitat naturale del batterio Vibrio cholerae. Questa nuova fase evoluzionistica ha prodotto un ceppo patogeno ancora più aggressivo a cui l’uomo non può opporre nessuna resistenza.
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a popolazione è indebolita, affamata e più esposta alle malattie. Emigra per fuggire dalle zone di povertà nella valle del Gange, portando con sé l’infezione in altre parti del mondo: con le truppe coloniali britanniche, infatti, il colera arriva in Nepal e in Afghanistan e, tramite il fiume Volga, si diffonde dal Mar Caspio fino al Baltico. In Europa e in America Settentrionale, dove il batterio trova terreno fertile nelle baraccopoli metropolitane, l’epidemia giunge all’inizio degli anni Trenta del 1800,
uccidendo 1.500 persone (tra cui il filosofo Georg Friedrich Wilhelm Hegel) a Berlino e 18.500 a Parigi. Dai porti britannici, poi, Vibrio cholerae viaggia verso il Nuovo Mondo. Il colera porta malattia e morte, ma cambia e modernizza anche le città. Una volta stabilito con chiarezza che l’epidemia è da imputare alle precarie condizioni igieniche, i quartieri poveri vengono risanati e lo Stato si fa carico di provvedere alle reti idriche e di attuare efficaci politiche sanitarie. Gli escrementi non vanno più a finire nei fiumi, da cui proviene l’acqua potabile: New York, Londra, Amburgo costruiscono le prime grandi reti fognarie. Il clima determina la Storia ben più di quanto pensassimo. “I fatti sociali si spiegano solo attraverso altri fatti sociali”, scriveva il francese Émile Durkheim, padre della sociologia. Si sbagliava: la sfera sociale è molto influenzata anche dalle temperature e dalle precipitazioni. Il 1815 è ricordato soprattutto come l’anno della battaglia di Waterloo, che segnò la sconfitta definitiva di Napoleone. Nei libri di Storia l’eruzione del Tambora appare tutt’al più nelle note a pie’ di pagina, ma la sua azione è importante tanto quanto quella di re, generali e soldati. L’anno senza estate potrebbe quindi insegnarci a ridefinire il nostro contesto storico.
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ANTEPRIMA
NASA
nel prossimo numero (maggio 2015)
GRECIA
L’occhio della conoscenza
Photocreo Bednarek/fotolia
Christian Ziegler
Sono 25 anni che il telescopio spaziale Hubble orbita intorno alla Terra. GEO ha selezionato le immagini più significative e i contributi più importanti raccolti direttamente nello Spazio.
Coste assolate, paesini che sembrano usciti da una cartolina, montagne aspre e dolci colline: il valore aggiunto della Grecia è la varietà. Ed è così incantevole da eclissare qualsiasi caos finanziario.
Progetto Icarus
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Un esercito composto da migliaia di animali presto controllerà l’intero pianeta. L’obiettivo: prevedere invasioni di cavallette, epidemie o addirittura terremoti e tsunami.
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Un barlume di speranza
Solo un terzo della popolazione della Birmania ha accesso all’elettricità, ma le organizzazioni umanitarie sono riuscite a distribuire nei villaggi piccoli impianti a energia solare. Il fotografo Rubén Salgado Escudero ha immortalato i cambiamenti che ha portato questa rivoluzione luminosa.
I pionieri delle app in Uganda
Prima guerra mondiale: la seconda battaglia di Ypres, in Belgio, diventa famosa per l’uso in combattimento dei gas asfissianti a base di cloro, sviluppati dal chimico tedesco Fritz Haber.
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Ciril Jazbec
Il laboratorio maledetto
A Kampala un gruppo di giovani imprenditori vorrebbe risolvere i problemi del Paese e dare al mondo un’immagine diversa del continente africano grazie a internet.
SCOPRIRE IL PASSATO, CAPIRE IL PRESENTE.
In questo numero, tutte le avventure intorno al mondo: gli Antichi al di là delle Colonne d’Ercole, Colombo e il mistero della scoperta dell’America e poi Magellano, Pigafetta, James Cook fino agli esploratori di spazio e abissi. Cosa li ha spinti ad andare oltre l’ignoto? E inoltre: i segreti dei profumi, l’invenzione del radar, i monaci del ‘200 scomunicati, la guerra di Vandea.
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