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ed Ettore Iorioed Ettore IorioIntervista a Gregorio ArenaIntervista a Gregorio Arena
from N.25 OTTOBRE 2019
by Scomodo
Intervista a Gregorio Arena, fondatore di “Labsus”
Nel panorama dei beni comuni “Labsus: laboratorio per la sussidiarietà” rappresenta l’esperienza più virtuosa nel panorama nazionale. Capovolgendo la visione del bene comune, l’energica spinta propulsiva del Professor Arena ha portato alla stesura ed approvazione in 210 comuni italiani di un regolamento visionario che permette ai cittadini di gestire direttamente i beni comuni favorendo un modello di società inclusivo, egualitario e partecipato.
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Professore come è nato Labsus e in risposta a quali esigenze?
Mi sono sempre occupato dell’amministrazione pubblica dalla parte dei cittadini cercando di cambiare le cose tramite gli strumenti che avevo, cioè tramite il Diritto amministrativo. Nel 97’ scrissi un saggio intitolato “Introduzione all’amministrazione condivisa” in cui ipotizzavo la nascita di un nuovo modello di amministrazione. Nella mia ottica le problematiche non potevano essere affrontate con una netta divisione tra ciò che è delegato all’amministrazione e ciò che è delegato ai cittadini, da questa consapevolezza nasce il concetto di amministrazione condivisa in cui l’amministrazione condivide con i cittadini uno scopo d’interesse generale. Quando nel 2001 è stato inserito il principio di sussidiarietà in Costituzione molti l’hanno interpretato come una legittimazione dell’esternalizzazione di funzioni e servizi, inteso come un semplice dovere dello Stato di supportare economicamente i cittadini una volta che questi si fossero attivati, per poi ritrarsi. Essendo io contrario a che il pubblico si ritraesse, soprattutto alla luce dell’art 3 secondo comma della Costituzione che prevede l’intervento dello stato per rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo delle persona, iniziai a girare l’Italia dicendo ai cittadini che c’era questo principio che gli permetteva di prendersi cura dei beni comuni.
Fondai “Labsus” nel 2005 e continuai a girare il paese accorgendomi che il problema principale per l’attuazione di questi progetti era la mancanza di disposizioni legislative o regolamentari, non bastando il riconoscimento costituzionale. A quel punto, avendo incontrato ad un convegno il direttore generale del comune di Bologna, per due anni abbiamo lavorato nei quartieri della città per scrivere un regolamento per l’amministratore condivisa dei beni comuni insieme con i cittadini e i dirigenti del comune di Bologna.Sabato 22 Febbraio 2014, me lo ricorderò finché campo, con Il sindaco di Bologna Virginio Merola abbiamo presentato questo regolamento e lo abbiamo caricato sul sito di Labsus. Da quel momento ci sono state migliaia di adesioni in tutta Italia, sono iniziato ad andare dove mi chiamavano e mi sono reso conto che avevamo intercettato senza prevederlo un bisogno di centinaia di migliaia di persone che già svolgevano queste attività ma nell’assenza di un regolamento che li legittimasse. La cosa incredibile degli ultimi mesi è lo sviluppo a livello internazionale, in Francia, Spagna e da ultimo persino in Sudafrica. Perciò quello che stiamo capendo è che questo bisogno di prendersi cura dei luoghi dove si vive non è un sentimento solamente italiano. Stiamo liberando energie nascoste.
Come la realizzazione di questi progetti può far nascere un’educazione al bene comune? In Italia non è normale prendersi cura delle cose di tutti come se fossero proprie e se lo vedi fare da altri cittadini pensi che siano matti. Se però vi è un regolamento che li legittima e un sostegno dal comune, la cittadinanza inizia a convincersi di poterlo fare, superando l’eventuale stigma sociale. Noi non parliamo mai di manutenzione ma piuttosto di cura, un termine che ha un significato empatico e mette in evidenza che la ricostruzione dei legami di comunità è il vero valore di questi progetti. Le persone che si prendono cura dei beni comuni sono allegre, si divertono. Tempo fa in un’assemblea un medico di base mi disse di aver riscontrato una diminuzione del livello di depressione negli anziani della sua città dove erano stati realizzati i patti di collaborazione, perché prendersi cura dei beni della loro città li faceva sentire utili e li aveva aiutati ad uscire dalla solitudine. L’educazione ai beni comuni passa dalla cura di quest’ultimi, il sesto senso, quello civico, va educato.
Quali sono i prossimi passi per arrivare ad un riconoscimento legislativo a livello statale? Il riconoscimento potrebbe venire solo dal parlamento, il problema è che il nostro legislatore, che sia nazionale o regionale, tende ad imbrigliare anziché liberare le energie, diffida dell’espressione dell’autonomia dei cittadini e per questo temiamo che una legge nazionale si tradurrebbe in una burocratizzazione eccessiva. Noi stiamo andando avanti con la proliferazione dei regolamenti a livello comunale. Se il governo italiano si dotasse di un ufficio di coordinamento nella gestione dei regolamenti e dei patti di collaborazione il nostro progetto potrebbe avere un maggiore sviluppo, ma da amministrativista temo la burocrazia.
Si può ricostruire la fiducia dei cittadini nello stato tramite questi progetti e quanto lo stato ha fiducia nei suoi cittadini? I beni comuni sono di tutti, devono rimanere fuori dalla contesa elettorale ma allo stesso tempo certamente i beni comuni non sono politicamente neutrali: una società che si fonda sulla cura condivisa dei beni comuni è ben diversa da una società fondata sull’egoismo, il risentimento e la paura. Stiamo effettivamente proponendo un progetto politico e di società al cui interno, fra l’altro, c’è sicuramente anche il recupero del rapporto con le istituzioni più vicine ai cittadini, quindi con il comune e la regione. La fiducia è circolare: i cittadini si fidano del comune e il comune dei cittadini. Il grosso problema sono i funzionari e dirigenti, non gli amministratori locali che sono persone come noi che cercano con tante difficoltà di gestire le città. Gli amministratori capiscono che i cittadini sono loro alleati, mentre i funzionari e i dirigenti li vedono come degli intrusi e rendono il tutto più difficile. In presenza di sindaci determinati e cittadini insistenti anche i dirigenti possono diventare difensori dei patti di collaborazione. Alla fine si accorgono della convenienza dei patti poiché si generano risorse, il clima sociale migliora e la gente è contenta.
La sostenibilità economica dimostrata nella realizzazione dei progetti di sussidiarietà può generare un nuovo modello economico incentrato sul bene comune e sulla diretta partecipazione dei cittadini? É una cosa su cui stiamo ragionando molto per far si che la cura dei beni comuni generi lavoro per i giovani e non solo. Ci siamo resi conto che i patti di collaborazione si distinguono in due categorie: il 90% sono ordinari e riguardano verde pubblico, scuole, beni culturali ecc; poi c’è un 10%, i patti complessi, che riguardano gli edifici abbandonati.
In Italia si stima che ci siano circa 5 milioni di immobili abbandonati, ex caserme, ex asili, ex tutto, senza tralasciare i beni confiscati alle mafie che sono anch’essi spesso abbandonati, così come molti beni ecclesiastici. Tramite la Sibec -la Scuola italiana per i beni comunistiamo tentando di formare dirigenti capaci di gestire questo immenso patrimonio di beni abbandonati, trasformandoli in beni comuni e gestendoli in maniera economicamente sostenibile. Stiamo ragionando inoltre sulla possibilità di contribuire ai patti di collaborazione non solo con le energie e il tempo impiegati dai cittadini, ma anche prevedendo la possibilità di contribuire economicamente con risorse in denaro a sostegno dei patti, tramite per esempio dei voucher. Se intorno ad ogni patto nascessero forme di crowdfunding di quartiere gestite in maniera trasparente questo potrebbe alimentarne la replicabilità. A prescindere da queste evoluzioni la cura dei beni comuni produce indirettamente sviluppo economico perché produce capitale sociale e le imprese preferiscono investire in territori dove c’è molto capitale sociale. Oggi un’impresa preferisce stare in un territorio con un clima sociale di questo tipo piuttosto che in uno dove magari ci sono delle agevolazioni fiscali ma allo stesso tempo ci sono problemi di criminalità e tensioni sociali. di Chiara Falcolini ed Ettore Iorio
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