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RECENSIONIRECENSIONI Carlo Giuliano e Cosimo Maj Carlo Giuliano e Cosimo Maj di di Once upon a time in HollywoodOnce upon a time in Hollywood
from N.25 OTTOBRE 2019
by Scomodo
9 Agosto 1969. L’attrice Sharon Tate – incinta di otto mesi del regista Roman Polanski – e altre quattro persone incontrano la morte su mandato di Charles Manson. Mezzo secolo dopo, l’Eccidio di Cielo Drive viene scelto da Quentin Tarantino come cornice per il suo ultimo film, Once Upon a Time in… Hollywood. Un affresco della Los Angeles di fine Anni ‘60 candidato per la Palma d’Oro a Cannes e con protagonisti Leonardo DiCaprio, Brad Pitt e Margot Robbie. Un film che però, come nelle sale, ha finito anche qui per spaccare in due la critica. Recensioni ------------------------------
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“Questa attività è stracolma di stronzi poco realisti che da giovani pensavano che il loro culo sarebbe invecchiato come il vino. Se vuoi dire che diventa aceto, è così. Se vuoi dire che migliora con l’età, non è così”. Una regola d’oro che l’immortale Pulp Fiction serve sul piatto d’argento di coloro che vorrebbero applicarla all’ultima pellicola di Quentin Tarantino. Un film visivamente notevole e validamente interpretato nel quale però l’impeccabilità formale finisce per mettere in risalto una certa povertà di contenuti. A un primo sguardo, Tarantino sembra riposare sugli allori, riproponendo numerosi espedienti narrativi – per non dire interi pezzi di sceneggiatura – già visti nei suoi precedenti film. Affondando le mani nel barile dell’autocitazione, qui gonfiato dal valore biografico di alcune scene, il regista si spinge troppo oltre verso un fondo nel quale, da raschiare, non resta che l’autoplagio. Ma coglie nondimeno l’occasione fornita dal ritorno dell’automobile come soggetto di scena prediletto, per escogitare alcune inedite, brillanti inquadrature, inflazionate tuttavia da un utilizzo eccessivo – come accadrebbe con un nuovo brano riprodotto più e più volte sino alla noia. Una metafora non casuale per chi ha sempre reso la musica grande protagonista dei suoi film, ma che qui non riesce ad applicare una cernita ai troppi, grandi brani che hanno costellato uno dei suoi trienni preferiti (’67-’69). Il risultato è una colonna sonora costipata, che perde anche molto in sede di montaggio sonoro perché resa comprimaria rispetto agli altri rumori ambientali. Tanti tappabuchi per diluire un progetto nato forse prematuro, che implora a gran voce di essere sfoltito delle sue tre ore di bobina, e la cui fatica a decollare alimenta per converso il picco improvviso raggiunto dal finale, tanto esplosivo quanto ridimensionabile. Ma nonostante i tanti passi falsi, ingigantiti da un’aspettativa che non lascia a Tarantino il beneficio del dubbio, Once Upon a Time in… Hollywood si rivela un film ricco di spunti, un chiaroscuro di luci e ombre che una singola visione non consentirà di mettere a fuoco a dovere. E questo perché il regista torna a parlare di quei settori di nicchia dell’audiovisivo dei quali il suo percorso da cineasta incallito è sempre stato imbevuto, qui affrontando il campo delle serie tv piuttosto che di generi quali “Exploitation” e “Blaxploitation”, omaggiati rispettivamente in Death Proof e Jackie Brown – uniche due pellicole che non a caso furono accolte tiepidamente e rivalutate col tempo. E per farlo, sceglie un linguaggio metacinematografico che gli consente di firmare l’ultimo tassello di una Trilogia Western che ha sempre voluto concludere. Le colline della Los Angeles ’69 si trasformano in un limbo di frontiera per stuntmen e hippie, per cowboy e indiani, dando vita a un’atmosfera di realismo magico che si ritrova anche negli ultimi fotogrammi, in quel mondo sospeso e fiabesco cui Rick Dalton può accedere varcando i cancelli del possibile.
di Carlo Giuliano
Il nono, e a detta dello stesso regista, penultimo film di Quentin Tarantino è distante dai suoi precedenti ultimi due film, paradossalmente definibili lineari, rispetto a quest’ultimo Once upon a time in Hollywood, un’opera frammentata, poco legata a una vera e propria trama come poteva essere il viaggio di Django alla ricerca dell’amata Broomhilde o il giallo alla Agatha Cristhie di Hateful Eigh. Questo nono film potrebbe essere quasi più facilmente accostabile, come spirito e forza animante, a uno dei meno ricordati del regista e suo unico vero flop, Grindhouse-Death Proof, un film incentrato principalmente sulla rievocazione di un certo cinema e, quindi, di una determinata epoca storica. In questo caso siamo nel 1969, in un periodo in cui Hollywood sta cambiando, l’ondata autoriale dall’Europa sta incalzando e il vecchio star-system è in declino. I due protagonisti, Rick Dalton (Di Caprio) e Cliff Booth (Pitt) sono due della “old school” che si muovono in un tempo che sembra non appartenergli più. Dalton disprezza gli hippie e non vuole andare a girare gli Spaghetti western in Italia (come gli suggerisce l’agente interpretato da Al Pacino) e Cliff Booth non si fa fare i pompini dalle minorenni. Vicini di casa di Dalton, a Cielo Drive, c’è la New Wave, il regista polacco Roman Polansky e la moglie, l’attrice non ancora affermata, Sharon Tate, i quali incarnano perfettamente i nuovi principi del cinema statunitense. Saranno però proprio i due vecchi cowboys a salvare la vita a quest’ultima, riparando alla storia, in un finale al limite del catartico. Questa volta Tarantino si prende tutto il tempo (filmico) del mondo e si concede il lusso di costellare questo film di tutto ciò che ama e lo ha ispirato, dal cinema di genere europeo alla vecchia golden Hollywood. E per farlo torna a casa, a Hollywood, dopo le trasferte nel profondo sud dell’Alabama e le montagne del Wyoming. È un film veramente di cuore, un film in cui la lentezza permette di riassaporare il gusto del bel cinema, del dettaglio, senza badare fin troppo alla trama, con una rievocazione storica impeccabile. La piacevolezza del film risiede non solo nella grande cura di ogni piccolo aspetto del contesto storico ma anche e soprattutto nella costruzione dei tre protagonisti. La coppia Di Caprio-Pitt e la loro amicizia virile, sempre tratteggiata sul filo di un’ironia fortemente tarantiniana e la dolce Sharon Tate, interpretata dalla Robbie, che va a vedere il suo film al cinema senza essere riconosciuta alla biglietteria, in una sequenza memorabile, il cui valore da solo vale il prezzo del biglietto. Seppur fosse abbastanza facile con un cast del genere, Tarantino riesce sempre a fare un lavoro incredibile sugli attori portandoli in stato di grazia, Brad Pitt su tutti. Once upon a time in Hollywood è una favola come dice il critico Alò, ‘di principi e di straccioni’, in cui gli straccioni, alla fine, salvano la vita ai principi.
di Cosimo Maj