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9 Agosto 1969. L’attrice Sharon Tate – incinta di otto mesi del regista Roman Polanski – e altre quattro persone incontrano la morte su mandato di Charles Manson. Mezzo secolo dopo, l’Eccidio di Cielo Drive viene scelto da Quentin Tarantino come cornice per il suo ultimo film, Once Upon a Time in… Hollywood. Un affresco della Los Angeles di fine Anni ‘60 candidato per la Palma d’Oro a Cannes e con protagonisti Leonardo DiCaprio, Brad Pitt e Margot Robbie. Un film che però, come nelle sale, ha finito anche qui per spaccare in due la critica.
Cinema Once upon a time in Hollywood Quentin Tarantino
“Questa attività è stracolma di stronzi poco realisti che da giovani pensavano che il loro culo sarebbe invecchiato come il vino. Se vuoi dire che diventa aceto, è così. Se vuoi dire che migliora con l’età, non è così”. Una regola d’oro che l’immortale Pulp Fiction serve sul piatto d’argento di coloro che vorrebbero applicarla all’ultima pellicola di Quentin Tarantino. Un film visivamente notevole e validamente interpretato nel quale però l’impeccabilità formale finisce per mettere in risalto una certa povertà di contenuti. A un primo sguardo, Tarantino sembra riposare sugli allori, riproponendo numerosi espedienti narrativi – per non dire interi pezzi di sceneggiatura – già visti nei suoi precedenti film. Affondando le mani nel barile dell’autocitazione, qui gonfiato dal valore biografico di alcune scene, il regista si spinge troppo oltre verso un fondo nel quale, da raschiare, non resta che l’autoplagio. Ma coglie nondimeno l’occasione fornita dal ritorno dell’automobile come soggetto di scena prediletto, per escogitare alcune inedite, brillanti inquadrature, inflazionate tuttavia da un utilizzo eccessivo – come accadrebbe con un nuovo brano riprodotto più e più volte sino alla noia. Una metafora non casuale per chi ha sempre reso la musica grande protagonista dei suoi film, ma che qui non riesce ad applicare una cernita ai troppi, grandi brani che hanno costellato uno dei suoi trienni preferiti (’67-’69). Il risultato è una colonna sonora costipata, che perde anche molto in sede di montaggio sonoro perché resa comprimaria rispetto agli altri rumori ambientali. Tanti tappabuchi per diluire un progetto nato forse prematuro, che implora a gran voce di essere sfoltito delle sue tre ore di bobina, e la cui fatica a decollare alimenta per converso il picco improvviso raggiunto dal finale, tanto esplosivo quanto ridimensionabile. Ma nonostante i tanti passi falsi, ingigantiti da un’aspettativa che non lascia a Tarantino il beneficio del dubbio, Once Upon a Time in… Hollywood si rivela un film ricco di spunti, un chiaroscuro di luci e ombre che una singola visione non consentirà di mettere a fuoco a dovere. E questo perché il regista torna a parlare di quei settori di nicchia dell’audiovisivo dei quali il suo percorso da cineasta incallito è sempre stato imbevuto, qui affrontando il campo delle serie tv piuttosto che di generi quali “Exploitation” e “Blaxploitation”, omaggiati rispettivamente in Death Proof e Jackie Brown – uniche due pellicole che non a caso furono accolte tiepidamente e rivalutate col tempo. E per farlo, sceglie un linguaggio metacinematografico che gli consente di firmare l’ultimo tassello di una Trilogia Western che ha sempre voluto concludere. Le colline della Los Angeles ’69 si trasformano in un limbo di frontiera per stuntmen e hippie, per cowboy e indiani, dando vita a un’atmosfera di realismo magico che si ritrova anche negli ultimi fotogrammi, in quel mondo sospeso e fiabesco cui Rick Dalton può accedere varcando i cancelli del possibile. di Carlo Giuliano
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Scomodo
Ottobre 2019