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e Marina Roio e Marina Roio di Simone Martuscelli di Simone Martuscelli Quanto vale il Made in Italy?Quanto vale il Made in Italy?
from N.25 OTTOBRE 2019
by Scomodo
Quanto vale il Made in Italy? -------------------------------------------------------------------- Analisi economica (e politica) dell’import-export italiano
Tutta colpa degli Airbus Nell’ottobre del 2004 il governo di Washington pone fine ad un accordo del 1992 tra USAUE sulla costruzione di velivoli civili, e apre un fascicolo presso l’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) per denunciare una presunta concorrenza sleale da parte dell’Unione Europea. Sotto la lente d’ingrandimento finiscono infatti 22 miliardi di dollari, sotto forma di sgravi fiscali, con i quali l’UE avrebbe aiutato illegalmente il colosso Airbus, principale concorrente della compagnia statunitense Boeing. Alla mezzanotte del 18 ottobre, 15 anni di contese hanno finalmente trovato una loro, parziale, conclusione: gli Stati Uniti hanno avuto il via libera dal WTO per imporre dazi di compensazione del 25% verso l’UE per un “risarcimento” complessivo che ammonta a 7,5 miliardi di dollari. I prodotti più interessati saranno quelli del settore agroalimentare: formaggi italiani, vini francesi, olive greche, whiskey scozzese; ma anche prodotti tessili, plastica, carta o componenti per l’aeronautica. Come esce l’Italia da questo braccio di ferro? Peggio di chiunque altro. Se si pensa che l’Italia non fa parte del consorzio Airbus (che coinvolge invece altri paesi europei come Francia e Germania) e che i dazi colpiscono uno dei fiori all’occhiello delle esportazioni italiane sul mercato statunitense (andando a penalizzare il commercio italiano per una cifra intorno al miliardo di euro), ecco che ci sono tutti gli elementi perché si possa gridare ad una decisione quantomeno ingiusta. In questo verso, è sensato inquadrare la visita di Mattarella a Trump avvenuta verso la metà di ottobre come un tentativo di ricucire uno strappo che può essere molto doloroso per l’economia italiana.
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Tentativo che ha portato i suoi, scarni, frutti: Lawrence Kudlow, il consigliere economico del presidente USA, ha dichiarato a margine della visita di Mattarella che l’aumento delle tariffe sul settore automobilistico, che avrebbe avuto come obiettivo principale l’industria tedesca, è stato evitato perché avrebbe danneggiato in maniera considerevole anche l’economia italiana. Il colloquio tra Mattarella e Trump, però, non è stato sempre così sereno.
Il capo dello Stato italiano ha apertamente rimproverato a Trump una generale politica di protezionismo e chiusura dei mercati che sarebbe controproducente per entrambe le economie, mettendo nel mirino probabilmente anche la stretta su acciaio e alluminio avvenuta nel 2018. La risposta di Trump è stata di quelle che fanno riflettere: il presidente USA si è lamentato dell’esigua quantità di finanziamenti che l’Italia riserverebbe alle spese militari e quindi al finanziamento della NATO (circa l’1% del PIL invece del 2% richiesto da Trump). Ciò mette in risalto come quella tra Europa e Stati Uniti sia una partita tutt’altro che limitata al settore economico: il progetto di un esercito comune europeo recentemente ritornato in auge va proprio nella direzione di rendere l’Unione Europea sempre meno dipendente da un alleato statunitense ritenuto non più così affidabile. E allo stesso modo va interpretata la visita di Xi Jinping in Italia lo scorso marzo, con gli accordi commerciali che lo hanno accompagnato: un tentativo di instaurare rapporti commerciali alternativi. Peraltro, la querelle tra Airbus e Boeing non può dirsi affatto conclusa, come ha ricordato lo stesso Kudlow dichiarando che “ci sono ancora sei mesi per negoziare”: è attesa a stretto giro di posta, infatti, anche la sentenza inversa che dovrebbe riconoscere gli USA colpevoli di concorrenza sleale per gli aiuti a Boeing, concedendo quindi all’UE l’opportunità di imporre a sua volta dazi sulle esportazioni statunitensi. L’Italia troverà quindi il modo di difendere il Parmigiano Reggiano dall’assalto del Parmesan americano?
Il CETA e i rischi del libero mercato In questo senso, una situazione esemplare ma di significato opposto è quella che riguarda il CETA, l’Accordo economico e commerciale globale stipulato da Unione Europea e Canada. Il trattato, firmato nell’ottobre del 2016 ed entrato in vigore nel settembre 2017, fa parte dei cosiddetti “mixed agreements”: ha bisogno quindi di ratifica da parte dei singoli stati membri per essere applicato, anche dopo l’approvazione del Parlamento Europeo. Finora il CETA ha ottenuto la ratifica di 13 paesi membri su 28, e tra questi non figura l’Italia. Proprio nelle scorse settimane la nuova Ministra dell’agricoltura Teresa Bellanova aveva ripreso a spingere affinché l’Italia ratificasse presto l’accordo, riaprendo di fatto un acceso dibattito sul tema. Da un lato, il CETA potrebbe rivelarsi un ottimo mezzo di promozione del Made in Italy, nonché un nuovo mercato su cui ripiegare viste le chiusure che vengono dagli USA. Lo dimostra il fatto che da quando è stato firmato il CETA l’export italiano in Canada è cresciuto dell’11%, con un valore delle esportazioni verso il paese nordamericano tre volte superiore rispetto alle importazioni. Dall’altro lato, però, una liberalizzazione di questo tipo potrebbe essere il primo passo per un attacco alla rigida legislazione europea sull’agricoltura. Lo scorso aprile la Camera di Commercio canadese ha pubblicato, insieme a CropLife (l’associazione internazionale delle aziende agrochimiche), un dossier che metteva in evidenza come alcune misure rappresentassero un freno alla crescita delle esportazioni canadesi nel settore agricolo: tra queste figuravano l’etichettatura del grano, il divieto sugli OGM e i timori verso il glifosato. Nel dossier si sottolineava come, dal 2014 al 2018, le esportazioni canadesi di grano fossero crollate da 557 milioni di dollari l’anno a 93, e tutto ciò a causa di quelle politiche precedentemente menzionate, definite “protezionistiche” e “a tutela del mercato interno europeo”. Ecco perché il ritorno in campo della possibilità di una ratifica del trattato ha causato un’ampia levata di scudi. Innanzitutto di una parte della coalizione di governo, ovvero il Movimento 5 Stelle, che si è sempre dichiarata contraria al CETA e che esprime tra le altre cose il presidente della Commissione Agricoltura alla Camera. E poi della Coldiretti, con la pubblicazione a fine settembre di un report che dipinge un quadro per nulla positivo: nel primo semestre del 2019 le esportazioni di Grana Padano e Parmigiano Reggiano verso il Canada sarebbero calate del 32%, 1/3 in meno rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Ad influire su questo crollo sarebbe stata la diffusione del cosiddetto “falso Made in Italy”, ovvero quelle merci prodotte in Canada ma spacciate per prodotti italiani, spesso con marchi falsi. Proprio come il “Parmesan”, spauracchio dei caseifici italiani sui mercati esteri e che 8 volte su ogni 10 pezzi di Parmigiano venduti viene scambiato per il marchio originale. Sempre secondo i dati Coldiretti, nello stesso periodo è aumentata di 9 volte la quantità di grano importato dal Canada, che ha raggiunto i 387 milioni di chili e che quindi può rappresentare un serio problema per il settore agroalimentare italiano. Non solo un problema economico, ma anche sociale e ambientale: la scarsa tracciabilità delle merci dal Canada e i controlli qualità alla frontiera non sempre all’altezza del loro nome possono far arrivare sulle tavole degli italiani prodotti non all’altezza degli standard di sicurezza e salute alla quale sono invece obbligati a sottostare le merci prodotte all’interno dell’Unione Europea. Quale che sia la strada giusta, tra la chiusura protezionistica e le opportunità che vengono dell’apertura dei mercati, la tutela del settore agroalimentare rimane un nodo cruciale per il sistema produttivo italiano. Basti pensare che le esportazioni riguardanti il settore secondario incidono per 411 miliardi di euro sull’economia italiana: circa il 20% del PIL del nostro paese. “È sensato inquadrare la visita di Mattarella a Trump come un tentativo di ricucire uno strappo che può essere molto doloroso per l’economia italiana.”
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Perché non cresciamo più? Il 2019 si è presentato come un anno in cui molti indicatori economici hanno segnato un ribasso. La bilancia commerciale italiana del 2019 è stata stimata in calo rispetto all’anno precedente, e la nostra economia ed il nostro PIL stanno attraversando una fase di stagnazione, ovvero una fase in cui la valutazione di crescita è pari a zero. Il rallentamento della crescita delle esportazioni è una delle cause maggioritarie di questa condizione, che nell’ultimo anno è diventata una caratteristica comune soprattutto nell’Eurozona e nei paesi emergenti. Analizzando più nel dettaglio, il 2019 è attraversato da una continua oscillazione di percentuali negative e positive: la stima finale sembra positiva, ma non si traduce in una crescita del PIL. E tutto ciò ovviamente non fa che ripercuotersi sulla mancata crescita del mercato del lavoro. Ma il 2019 è stato anche un anno di grandi aspettative non raggiunte, specialmente per le stime che aveva registrato l’anno precedente. Il clima di fiducia del consumatore è migliorato, nonostante un clima economico non facile, soprattutto grazie a un miglioramento della valutazione delle prospettive future; tuttavia l’indicatore anticipatore ha continuato a viaggiare su linee di valori negativi, lasciando intendere il proseguimento della fase di debolezza dei vari livelli produttivi. Si sono verificati episodici segnali di ripresa economica, ma comunque meno positivi rispetto alle aspettative. Queste conseguenze derivano da alcune situazioni congetturali: come ad esempio la non corrispondenza di prospettive commerciali tra consumatore e aziende, o valori altalenanti che riguardano il tasso di disoccupazione, le importazioni, gli investimenti esteri e le esportazioni. Parallelamente questa fase si è riversata in prospettive di scambi sfavorevoli e nel protrarsi di tensioni commerciali. Un particolare non irrilevante riguarda i numeri sproporzionati che sussistono tra il quantitativo di merce che abbiamo esportato verso la Cina (6.490,35 milioni di euro nel solo periodo da gennaio a giugno 2019) negli ultimi anni rispetto a quanto abbiamo importato (15.661,99 milioni di euro nello stesso periodo). Ci troviamo, inoltre, in un periodo di incertezze sulle future relazioni commerciali internazionali, causate da alcune circostanze mondiali: come il proseguire del conflitto tra USA e Cina e la perenne minaccia della Russia di “chiudere i rubinetti d’Europa”. I dazi imposti dagli USA, le varie precauzioni che sono state attivate dai paesi coinvolti, insieme ai fattori geopolitici minano l’equilibrio e causano il rallentamento dell’economia di altre potenze mondiali come la Cina. E ovviamente, queste influenze negative destabilizzano il commercio mondiale. Una considerazione da fare nei riguardi delle trattative tra Cina e America è ragionevolmente sulle prospettive globali. Cosa significa a livello economico questo scontro? Sono subito i numeri a rispondere a questa domanda, in quanto si parla di miliardi di dollari di danni per entrambi i paesi. In questo panorama che parte dal mese di luglio del 2018 ed arriva fino al settembre 2019 si parla di un danno americano nei confronti della Cina complessivo di 293,75 miliardi di dollari in dazi. Dal punto di vista degli USA, riguardo l’effettivo danno inflitto dalla Cina si riscontrano cifre più contenute. Infatti, gli Stati Uniti concludono il girone con più o meno 107,35 miliardi di dollari in dazi. Il danno economico registrato dagli USA, tra il quantitativo monetario dei dazi e il cambio dollaro-yuan, è di 87 miliardi di dollari. Seguendo la seconda ipotesi, ovvero di un rialzo dell’aliquota del 30%, le prospettive sono inevitabilmente più drastiche e tragiche. Per il fronte americano si stimerebbe un danno economico di 106,25 miliardi di dollari, considerando anche i 231,25 miliardi di dollari in dazi. E, a differenza di come potrebbe sembrare, queste prospettive non sono così distanti dall’Italia. Legami indissolubili Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, quando è stato ricevuto alla Casa Bianca, ha rilasciato dichiarazioni esplicite sulla continuazione di questa partnership USA-Italia usando parole come “una grande amicizia”. Uno dei grandi problemi dell’economia italiana è proprio questa tendenza al cristallizzare i possibili sbocchi di mercato. “l rallentamento della crescita delle esportazioni è una delle cause maggioritarie di questa stagnazione.” “La scarsa tracciabilità delle merci dal Canada può far arrivare sulle tavole degli italiani prodotti non all’altezza degli standard di sicurezza.”
È ormai consolidato il mito della “forza del nostro export” ed infatti i numeri che registriamo segnano ancora un’esportazione forte nell’ambito dei prodotti agroalimentari, dell’abbigliamento e dell’energia. La vera domanda è: cosa importa invece l’Italia? In questo contesto entra in gioco anche la Russia, altra potenza con il quale abbiamo un legame costante per quel che riguarda l’importazione di materie come gas e petrolio. Nonostante sia stato tra i partner che hanno perso di più in termini relativi, l’Italia resta il secondo partner commerciale UE della Russia preceduta dalla sola Germania. Tra le merci più importate, troviamo principalmente prodotti delle miniere e delle cave, “coke” e prodotti derivanti dalla raffinazione del petrolio. Le relazioni economiche e commerciali tra Italia e Russia sono tradizionalmente forti e molto articolate, così come molto forti sono anche le reciproche influenze tra i due paesi. La situazione economica italiana è contraddittoria, per quel che riguarda l’interscambio tra l’Italia e paesi extra Ue, anche per il dislivello di valore di mercato tra i prodotti importati e quelli esportati.
Tuttavia, l’Italia non è indipendente nemmeno in quest’ultimo settore: in quanto alcune materie prime utilizzate per realizzare il prodotto finale con l’etichetta “Made in Italy” vengono in realtà importati da altre nazioni. Ciò avviene spesso, ad esempio, con gli USA per la realizzazione di prodotti alimentari, con alle spalle imprese che ricercano sempre più soluzioni “biotech”. Altro risvolto della situazione è che le nostre importazioni riguardano prodotti e componenti fondamentali in una società avanzata: gas e componenti petroliferi. La vera malattia del commercio italiano è quindi probabilmente l’incapacità, o forse la riluttanza, nel cercare e sviluppare nuovi spazi di scambio. Il nostro legame a doppio filo con gli Stati Uniti, dovuto soprattutto alla presenza italiana nella NATO, ha creato una situazione di inevitabile subordinazione per quel che riguarda alcuni elementi del mercato, a discapito della Cina con la quale i contatti sono molto meno intensi.
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che dovrebbero rappresentare invece una garanzia di qualità. Questa condizione facilita il mercato interno americano proprio nella diffusione di questo tipo di merci: esempio principale è proprio il Parmesan che, come equivalente del nostro Parmigiano Reggiano, solo in questi ultimi giorni ha avuto un incremento di vendite del +220% proprio in vista dei dazi. Queste aziende hanno un fatturato di quasi 87 miliardi di dollari, ma registrano una forte perdita quando si trovano a dover concorrere con prodotti importati dall’Italia. Come si è evidenziato dai dati registrati nell’ultimo anno, la conclusione inevitabile da additare a questo panorama riguarda soprattutto le nostre aspettative economico-commerciali: ovvero, la manifestazione di un’evidente virata politica verso le certezze e i partner di sempre e la mancata fiducia verso altre nazioni e altri spazi di mercato, che potrebbero invece rivelarsi più confacenti alle nostre proposte.
Le esportazioni italiane negli USA sono principalmente avanzate nei settori della componentistica, dei mezzi di trasporto, del tessile e dell’agroalimentare, mentre la domanda italiana di prodotti statunitensi sono invece prevalenti i prodotti farmaceutici e chimici di base, le fonti di energia e gli aeromobili. I prodotti principali del nostro export globale, però, saranno proprio quelli che verranno colpiti dai dazi. Le prospettive future dell’Italia sotto questo punto di vista sono critiche anche a causa della contraffazione di prodotti tipici del Made in Italy, di Simone Martuscelli e Marina Roio