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Annachiara Mottola di AmatoAnnachiara Mottola di Amatodi di

Attivismo 2.0 -------------------------------------------------------------------- Quando e perché fare politica è diventato pop

Quante volte ti è capitato di vedere una pubblicità con chiari riferimenti a tematiche sociali e politiche attuali? Se avessero formulato questa domanda a un uomo o a una donna negli anni ‘60 probabilmente la risposta sarebbe stata molto diversa da quella che una qualsiasi persona darebbe oggi.

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In effetti non è difficile per chiunque usi i social, navighi in internet o semplicemente guardi la tv ricordare più di un esempio di spot in cui il prodotto pubblicizzato sia associato ad una qualche battaglia sociale, dalla lotta per l’uguaglianza dei diritti tra uomini e donne fino alla difesa dei valori del multiculturalismo. Questa tendenza, che solo da qualche anno a questa parte è diventata particolarmente diffusa e riconoscibile, prende il nome di brand activism, ovvero attivismo dei marhi, e segna il passaggio a una nuova epoca in cui prendere posizione rispetto a questo o quel tema sociale diviene una mossa obbligata, parte integrante della strategia economica delle aziende e fattore determinante alla base del loro successo o insuccesso. Un esempio tra tutti di questo fenomeno è la campagna pubblicitaria We Accept di Airbnb andata in onda nel 2017 durante il Superbowl, il più grande e seguito evento sportivo in America ogni anno. Nel breve video di trenta secondi Airbnb promuoveva un messaggio chiaro nel dibattito politico statunitense lanciato da Trump sull’immigrazione e l’integrazione: noi accettiamo indipendentemente dal colore della pelle, dalla tua provenienza, religione o orientamento sessuale. La compagnia così facendo sceglieva di prendere apertamente posizione sulla tematica sociale più significativa per gli americani in quel momento mettendo in atto un’operazione di brand activism. E’ importante sottolineare, tuttavia, come questa strategia utilizzata oggi da tutti i più grandi marchi sia una seminovità connessa alle nuove frontiere aperte dai social media nonché il punto di arrivo di un processo di sperimentazione complesso.

Dall’intrattenimento alle battaglie sociali Nell’era dei social media costruire un brand è diventata una sfida. In un primo momento tutti i grandi marchi avevano guardato a piattaforme quali Facebook e Twitter come a una miniera d’oro per i loro affari grazie alla possibilità che offrivano di pubblicizzare i prodotti.

Così i marchi svilupparono una strategia digitale basata sul brand content, una nuova forma di pubblicità che si presentava in forme diverse da quelle classiche (video, corti etc.) e che aveva come scopo quello di costruire una connessione diretta e a più livelli con il consumatore. Questa tecnica fondata sulla creazione di un prodotto culturalmente rilevante non era nuova, in quanto di norma le possibilità di successo di un marchio aumentano quando questo riesce a connettersi con la cultura del tempo. Approcci presi in prestito dal mondo dell’intrattenimento (storie, trucchi cinematografici ed effetti speciali) catturavano il pubblico e rendevano il loro marchio famoso. I brand riuscivano a inserirsi nel contesto culturale del momento attraverso la sponsorizzazione di programmi tv, eventi, festival. Con lo sviluppo delle nuove tecnologie, che permettevano al pubblico di scegliere se vedere o meno gli annunci pubblicitari, questa tecnica si reinventò in una forma nuova, in diretta competizione con il mondo dell’intrattenimento. Con l’avvento dei social media, che riuscivano a collegare e connettere tra loro comunità e sottoculture un tempo geograficamente isolate, si apre una nueva era. Emergono prepotentemente le nuove culture di massa che per i brand rappresentano una nuova sfida. I numeri parlano chiaro: nelle classifiche di Youtube e Instagram, le grandi aziende commerciali appaiono in coda, in ombra rispetto a nuove figure di intrattenitori fino a poco fa sconosciuti come PewDiePie o l’italiano Favij, ragazzi che emergono dalla nuova sottocultura giovanile del gaming. data la possibilità per i fans di interagire direttamente con i propri personaggi preferiti (atleti, cantanti, attori etc.). Nella storica campagna Just do It già dagli anni 70 la Nike raccontava le storie personali di atleti di successo partiti da zero sfruttandone la popolarità. Presto si comprende che era preferibile e più efficace associare al volto noto un messaggio innovativo. Uno dei tentativi meglio riusciti in tal senso è quello del marchio di vestiario sportivo Under Armour che in un suo spot propone la logica competitiva sportiva, tipicamente maschile, in versione femminile. La ballerina Misty Copeland che indossa abiti sportivi, con la sua fisicità non convenzionale, rompe con lo standard classico della femminilità tipico del mondo del balletto. In questo caso vediamo come il successo della campagna non sia legato esclusivamente alla notorietà del personaggio, ma al carattere innovativo dell’ideologia sposata. Il fenomeno prende il nome di cultural branding, nuova strategia utilizzata dalle imprese nella quale rientra il brand activism. “La strategia del brand activism non è pensata per orientare i consumatori verso una certa ideologia ma per compiacere le preferenze culturali e politiche di alcuni di loro.”

La Bmw, ad esempio, è stata tra le prime ad utilizzare questa strategia realizzando spot nella forma di cortometraggi. Grandi aziende hanno rincorso registi di fama mondiale pur di guadagnare popolarità; è il caso dello spot di Natale di H&M girato da Wes Anderson o di quelli famosissimi della Barilla, Gucci e Armani etc. di David Lynch. Erano questi gli anni che precedevano il boom dei social media, le grandi compagnie allora credevano che se fossero riusciti ad avere un livello creativo al pari degli standard hollywoodiani avrebbero raggiunto successo e popolarità.

Rispetto a queste nuove figure, e ai contenuti che propongono, sono perdenti anche i più grandi e potenti brand che, nonostante gli enormi investimenti, non riescono tenere il passo. Significativo il caso della Coca Cola che qualche anno fa trasformò il proprio sito online in un magazine digitale. Il risultato fu un flop. Risultava chiaro quindi quale fosse il limite del modello seguito fino ad allora: ineccepibile nella forma ma poco innovativo dal punto di vista culturale per le grandi masse. Se i brand non ottengono dai social media i benefici sperati, le celebrità vedono accrescere la propria popolarità in maniera esponenziale,

La storia di Chipotle: il fast food che si reinventa Per comprendere questa tendenza seguiamo il percorso comunicativo della famosa catena messicana di fast food: Chipotle. Questo marchio per emergere si è appropriato dell’opportunità creata dai movimenti sociali che, tra 2011 e il 2012, avevano messo in discussione la cultura del cibo industriale dominante in America. Il marchio, identificandosi con i valori alla base di questo movimento come il ritorno al cibo preindustriale, si propone come nuovo modello all’interno della propria categoria.

Le ragioni del successo del brand risiedono dunque nella promozione di una ideologia innovativa che rompe con le convenzioni dominanti nel proprio campo. Chipotle prima di tutto le identifica: nell’industria cibaria americana si era diffuso dagli anni ‘60 il mito per cui l’utilizzo di conservanti e la produzione standardizzata avrebbero realizzato cibo saporito e sano e su questa teoria si erano sviluppati tutti i fast food da MacDonald’s in poi.

Quando la sensibilità sociale su questi temi cambia e diventa virale con i social media la preoccupazione sulla qualità e salubrità del cibo dei fast foods, si apre una fase in cui l’ideologia fino ad allora dominante viene messa fortemente in discussione ed è qui che si apre la possibilità per un nuovo brand del settore di proporre un ideale alternativo. Chipotle coglie al volo l’opportunità e identifica la nuova cultura di massa che si era venuta a creare intorno a queste preoccupazioni che chiedeva a gran voce un ritorno al cibo preindustriale. Si lega alla sua causa e la fa diventare elemento fondante del brand. La nuova ideologia viene promossa dal brand con due film parossistici sul processo di macellazione e lavorazione della carne che, lanciati sulle piattaforme digitali, divennero presto virali. A determinare il successo della campagna fu la natura del messaggio che andava oltre il mero intrattenimento, tipico della strategia del branded content. Che a promuovere una nuova visione più salutista dell’America fosse proprio un fast food, certo molto più caro rispetto alla media, fu una mossa azzardata ma in definitiva vincente.

individuare una convenzione sociale e il momento giusto per romperla; abbracciare un messaggio alternativo a questa facendolo proprio e infine innovare. Il brand per continuare a cavalcare l’onda del successo deve infatti continuare a connettere i prodotti e le strategie comunicative con temi attuali;

la parola d’ordine è evolversi continuamente dimostrandosi sempre fedeli alla causa originaria. Si veda ad esempio l’operazione commerciale effettuata dalla Mulino Bianco, come da tanti altri grandi marchi italiani, nei confronti dell’olio di palma, ritenuto tossico per la salute. Il marchio, da sempre legato ad una dimensione domestica, familiare e rassicurante, prende nettamente le distanze dall’utilizzo dell’olio di palma nei propri prodotti per difendere la sua immagine tradizionale.

Le regole del gioco: attualità e coerenza L’efficacia di questa strategia ha portato oggi la maggior parte dei brand a correre dietro le stesse tendenze e tematiche sociali: questo ha determinato un appiattimento e una omologazione delle campagne pubblicitarie, allineate sugli stessi argomenti e diventate quindi poco credibili e innovative. I brand iconici invece riescono ad avere successo in quanto, rispetto a un determinato tema sociale, come ad esempio l’uguaglianza universale e di genere, riescono ad articolare un proprio discorso culturale innovativo. E’ il caso di Puma che ha lanciato nel 2018 la piattaforma Reform che promuove il cambiamento interessandosi a temi particolari e specifici come quello della riforma del sistema di giustizia penale negli USA e delle rivendicazioni del movimento Black Lives Matter. Infatti non è un caso che il lancio di questo progetto sia stato accompagnato dalla famosa foto delle Olimpiadi del 1968 con i due atleti che alzano il pugno chiuso verso il cielo come segno di adesione alla causa del movimento delle Black Panthers.

Certo, questa operazione di brand activism può portare a sacrificare una parte dei consumatori per adattarsi maggiormente all’ideologia e all’universo valoriale della fetta di pubblico che si vuole attrarre e che spesso coincide con le nuove generazioni. Del resto la strategia del brand activism non è pensata per orientare i consumatori verso una certa ideologia ma per compiacere le preferenze culturali e politiche di alcuni di loro. Si veda, ad esempio, la campagna della Nike Stand for Something (Prendi posizione) che ha scelto la collaborazione di Colin Kaepernick, giocatore di football americano e attivista contro l’ingiustizia razziale. Questa campagna pubblicitaria ha scatenato la reazione del presidente Trump che a gran voce ha chiesto al suo elettorato, in un tweet, di boicottare il marchio. In questo caso è evidente come la presa di posizione del grande marchio su uno dei temi politici più caldi sia il risultato della polarizzazione esasperata della società statunitense che spinge ciascuno a schierarsi inevitabilmente da una parte o dall’altra. Questo approccio funziona solo se il brand esprime un punto di vista che si trova alla base della azienda stessa o della visione che essa veicola. Al contrario è controproducente quando l’operazione non viene percepita come autentica e anzi si pone in aperta contraddizione con il modus operandi della compagnia. Ad esempio nello spot pubblicitario della Pepsi del 2017 si vede una modella famosa, nel mezzo di una manifestazione, porgere una lattina di Pepsi a un poliziotto. I social sono insorti a gran voce. Da una parte i progressisti che ritengono inappropriato l’utilizzo del contesto della manifestazione in quanto chiara strategia di marketing, dall’altra i conservatori che non gradiscono l’accostamento semplicistico di due posizioni non sempre conciliabili (manifestanti e poliziotti). Il messaggio veicolato dal brand fallisce perché non sceglie un consumatore tipo (manifestanti o forze dell’ordine) al quale rivolgersi in maniera esclusiva o privilegiata e di cui sposare l’universo ideale. “Se solo papà avesse saputo del potere della Pepsi…” commenta sarcasticamente la figlia di Martin Luther King in un tweet che racchiude le perplessità di molti. Il cuore del dibattito sulle operazioni di brand activism, però, risulta più complesso. Al di là della credibilità o meno del messaggio veicolato, ci si chiede, più in generale, se sia giusto o meno che i grandi marchi e i loro interessi entrino in questo campo e se questo fenomeno possa contribuire a un effettivo cambiamento. Difatti, nonostante questa strategia di marketing possa influire positivamente sulla trasparenza delle aziende, incoraggiando comportamenti etici, è pur vero che i brands rifletteranno sempre soltanto quelle che sono le opinioni politiche, dominanti o emergenti, delle masse, senza promuovere valori realmente innovativi. Sarebbe, infatti, contrario agli interessi economici dei grandi brands, che continuano a muoversi secondo logiche di profitto, sostenere ideologie minoritarie, poco diffuse e quindi poco attraenti. Tuttavia, a parte le perplessità di fondo sull’opportunità del sodalizio tra i grandi temi sociali e gli interessi di promozione pubblicitaria di un prodotto, è necessario prendere coscienza del fatto che la polarizzazione delle società contemporanee ha avviato un processo inarrestabile in cui sono gli stessi consumatori, soprattutto i giovani, a sollecitare i brands iconici affinché prendano posizione sulle battaglie che gli stanno più a cuore. Non chiediamo più, semplicemente, che il marchio venda un prodotto di qualità, ma che esprima anche un punto di vista su determinate tematiche, non uno qualsiasi, il nostro. Parteggiare diventa quindi la regola. Ma a quali condizioni? Prima di tutto deve essere chiara e immediatamente percepibile la base ideologica su cui è costruito il brand a cui lo stesso deve mantenersi fedele in tutte le successive forme ed evoluzioni. In secondo luogo, il marchio deve tenere un comportamento coerente con il messaggio che trasmette. Patagonia, ad esempio, che promuove la conservazione ambientale, produce vestiti che sono effettivamente realizzati con materiali riciclati al 100%. Ma questo basta affinché il cosumatore possa sentirsi sicuro delle proprie scelte? Chi garantisce che anche l’azienda più coerente con il proprio messaggio non inganni ugualmente la buona fede del consumatore? Non si può infatti escludere che un’azienda che utilizza come proprio vessillo la tutela dell’ambiente ed effettivamente impieghi nel ciclo di produzione materie non inquinanti, possa fondare il proprio profitto sullo sfruttamento della manodopera minorile nei paesi in via di sviluppo. “I brands rifletteranno sempre soltanto quelle che sono le opinioni politiche, dominanti o emergenti, delle masse, senza promuovere valori realmente innovativi.”

Di fatto quindi è possibile che un marchio carpisca la fiducia del consumatore sulla base di un’informazione parziale del suo comportamento aziendale, con la conseguenza che il consumatore si veda rappresentato soltanto per una parte del suo patrimonio valoriale. In ogni caso il rischio è quello di ridurre l’impegno politico alla mera scelta di portafoglio (scegliere un brand piuttosto che un altro per i valori che sposa). Questo nuovo approccio, dunque, presenta un limite intrinseco: è un modo individuale di fare politica che elude la dimensione collettiva e pubblica alla base della stessa. Infatti, anche in un’epoca in cui è la stessa politica a utilizzare le forme e il linguaggio imprenditoriali, deve esistere uno scarto tra cittadino e consumatore. I due termini non sono e non devono essere in alcun modo sovrapponibili.

Il caso italiano: dietro Freeda e la retorica dell’empowerment femminile All’interno del complesso e variegato fenomeno del brand activism una delle tendenze più seguite e di moda oggi è quella del brand feminism, attraverso la quale i marchi più famosi si appropriano dell’ideologia femminista, trasformandola in una versione pop, attraente per le grandi masse. Negli ultimi quattro anni, infatti, sembra che il femminismo sia sulla bocca di tutti come non succedeva da parecchio tempo. Che si parli di movimenti, dall’argentino Ni Una Menos alle sue sorelle hollywoodiane Metoo e He for She, di spot anticonvenzionali sul ciclo mestruale lanciati da un’industria di assorbenti o delle magliette di Dior da 550 euro con la frase iconica We should all be feminists, il femminismo è l’indiscusso protagonista di questo particolare periodo storico. Tutti sentono di doverne fare parte prendendo posizione. Tra i nuovi convinti sostenitori della lotta femminista compaiono anche i grandi brand che, se fino a ieri avevano promosso un’immagine tradizionale e stereotipata della donna, adesso si dicono pronti ad invertire la rotta per adeguarsi a un cambiamento epocale di paradigma. Così l’ideologia femminista diventa un prodotto come un altro. Tuttavia, se questa strategia di marketing è facilmente smascherabile quando realizzata dai marchi iconici, come quelli di cosmetica o vestiario, risulta meno riconoscibile quando proviene da fonti diverse. E’ il caso della piattaforma digitale editoriale Freeda, un progetto tutto italiano considerato da molti il fenomeno del momento. Freeda nasce nel 2017 come startup editoriale che si propone di rappresentare “il punto di riferimento sui social delle giovani donne dai 18 ai 34 anni”. Si rivolge, pertanto, essenzialmente ai millennials e alla generazione Z e per loro inventa una formula accattivante per parlare di femminismo. Se si visitano, infatti, le pagine Instagram o Facebook di Freeda, si è immediamente colpiti dai colori sgargianti, dal linguaggio dei meme, dagli screen che simulano conversazioni whatsapp tra ragazze, tutti elementi tipici della cultura pop giovanile che mirano a ricostruire una cornice familiare in cui inserire sapientemente “nuovi” contenuti. Anche il modo in cui Freeda fa informazione strizza l’occhio ai più giovani. Tutte le notizie prendono la forma di instant articles che compaiono direttamente sui social media, in modo da facilitare la diffusione e fruizione dei contenuti. Ma quali sono questi nuovi contenuti che Freeda propone? Il modello di femminismo che la piattaforma veicola si basa essenzialmente sul racconto della vita di donne che, in vari campi, dallo sport all’arte, alla politica, hanno guadagnato il successo. Difatti, nonostante molte di queste storie tocchino temi rilevanti nel discorso femminista, dalla parità di genere alla sessualità come scelta libera e consapevole, rimane centrale nella narrazione la dimensione individuale della lotta femminista. Si moltiplicano i messaggi di self empowerment e la realizzazione personale del singolo diviene l’obiettivo principale che prevale sulla dimensione collettiva, sociale, in definitiva politica, che è l’essenza del femminismo. Freeda diviene quindi portavoce di un messaggio femminista neoliberale in versione pop. Ma non finisce qui. La piattaforma infatti si connota come una vera e propria operazione commerciale tenuta in piedi da massicce sponsorizzazioni il cui scopo principale non è quello di fare informazione ma ancora una volta di vendere. Come denuncia infatti Linkiesta, in un articolo su Freeda, molti si chiedono se il reale obiettivo non sia quello di divenire il principale foro delle conversazioni fra giovani donne, “al fine di vendere l’enorme quantità dei dati, così ottenuti, ad imprese che li utilizzerebbero per elaborare strategie aziendali mirate”. Un’operazione strategica ben costruita che non a caso vede tra i suoi fondatori Andrea Scotti Calderini, ex direttore della divisione crossmedia e branded entertainment di Publitalia, e Gianluigi Casole della Holding Italiana H14, anch’essa di proprietà della famiglia Berlusconi. Freeda sarebbe quindi l’ennesimo volto di una strategia d’impresa che rivela grandi capacità di trasformazione.

diAnnachiara Mottola di Amato

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