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Pietro Forti Pietro Forti e e di Francesca Asia Cinone di Francesca Asia Cinone Epica SirianaEpica Siriana

EPICA SIRIANA -------------------------------------------------------------------- L’invasione turca in Siria del nord su cui ogni potenza sta creando una narrazione differente

Dalla notizia del ritiro americano delle truppe e, conseguentemente, dall’inizio dell’operazione militare turca nel nord-est della Siria, i messaggi, i comunicati e le dichiarazioni passate per i media di tutto il mondo sono stati il punto focale della guerra. Molto più dell’effettivo andamento della guerra stessa: i media mondiali hanno tentato di decifrare le intenzioni americane, europee, siriane, russe, turche e curde più di ogni altra cosa. Data anche la scarsità delle fonti attendibili (dal dibattito sulle armi chimiche in giù), per intuire l’andamento della guerra e il peso delle forze in campo si è creata un’attesa ansiosa dell’ultima dichiarazione di questo o quel leader.

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Con un apparato mediatico così assetato di comunicati e così poco curioso della guerra, quale terreno più fertile per i vari leader per far passare in prima pagina la propria propaganda?

Equilibrismi atlantici Il Rojava non smette di essere al centro delle rivendicazioni turche da ormai troppi anni e Ankara non sembra disposta a compiere nessun passo indietro. Ad oggi l’emergenza umanitaria in Siria provocata dalla guerra è in pieno atto e non bastano tregue di 120 ore a disinnescarla. Stando agli ultimi dati rilasciati dalle Nazioni Unite, gli sfollati nel nordest del Paese in dieci giorni di invasione sarebbero circa 300mila, con decine di morti e feriti da aggiungersi al conto.

In questo quadro desolante, l’Europa è risultata sin dall’inizio spettatrice ammanettata e impotente, la Turchia sembra essersi dimenticata del suo posto nella Nato e gli USA sembrano giocare a convenienza un gioco che ancora in pochi sono riusciti a decifrare. La frontiera 2.0 intanto è stata solcata: il 7 ottobre Donald Trump ha annunciato con un tweet il ritiro del contingente americano dal lato curdo, sostenendo la necessità di far cessare queste “ridicole guerre senza fine e riportare i soldati in patria”. L’America, dunque, ha spianato la strada alla Turchia. Due giorni dopo, infatti, Recep Tayyip Erdoğan ha comunicato a sua volta su Twitter l’inizio dell’operazione “Primavera di pace” contro le milizie curde YGP (Unità di protezione popolare) e il PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan), scrivendo che «[...] La missione turca è quella di distruggere e impedire la creazione del corridoio del terrore che sta cercando di stabilirsi attraverso il confine meridionale e di portare la pace nella regione». Ma le mire del Sultano vanno ben al di là dell’opposizione alle richieste indipendentiste e autonomiste del popolo curdo, percepito non poco come minaccia alla sicurezza interna; Erdoğan infatti vuole che nella cosiddetta zona cuscinetto, oggi di fatto sotto il controllo dei curdi, vengano trapiantati all’incirca i 3 milioni di rifugiati siriani che ospita attualmente in Turchia. La sua propaganda - non dissimile da quella del Presidente americano Trump - nel caos di una guerra decisamente spietata, è battente e senza sosta e i social network sono a questo proposito l’arma prediletta: il posting quotidiano alimenta il mito populista della nazione e della tutela dei confini, legittima l’utilizzo della violenza verbale e dell’odio gratuito. Lo scambio di tweet da un capo politico all’altro svilisce la portata del messaggio in sé, sminuisce la delicatezza delle scelte da prendere e da riferirsi nel privato, rendendo noto alla coltre globale di internet cosa ne sarà del futuro di migliaia vite umane nel bel mezzo di una guerra civile di qui alle prossime ore. Ciò che intimorisce è che la propaganda politica turca è riuscita ad infiltrarsi su vari strati: il calcio, in questo senso, è diventato forse il primo strumento di manipolazione ideologica di massa. Dopo la vittoria per 1-0 della Nazionale a Istanbul contro l’Albania, la squadra turca si è posizionata in fila inscenando il saluto militare tipico dei soldati turchi; inutile dire che il gesto politicamente schierato è stato avvolto dal silenzio dell’Europa e in particolare delle società calcistiche, le quali non hanno preso nessun provvedimento ammonitore. Addirittura una propaganda indiretta si è abbattuta sul social più potente di sempre, Facebook: moltissime pagine di movimenti sociali e testate indipendenti solidali con la causa curda sono state oscurate perché mostravano foto o video di simboli e slogan pro-Kurdistan. Anche Donald Trump non è da meno in questo gioco di autodeterminazione. Più sferzanti rispetto a quelli di Erdoğan, i suoi numerosi tweet rimbalzano da una parte all’altra dei social e delle testate giornalistiche mondiali. Degna di nota è la lettera del 9 ottobre inviata istituzionalmente al Presidente turco nella quale chiede, con tono pietoso e al contempo duro, di mettere fine al massacro di migliaia di innocenti. In un punto si legge: «[...] La storia ti guarderà favorevolmente se riuscirai a farlo nel modo giusto e umano. Ti guarderà per sempre come il diavolo se non accadono cose buone. Non essere un tipo duro. Non essere sciocco!». Queste parole arrivano un po’ come arriva il sereno dopo la tempesta; Trump ha lasciato i curdi combattere da soli nel pieno dell’attacco, togliendo loro quasi ogni speranza di sopravvivenza militare e civile e badando unicamente al proprio utile: lasciar stare le guerre incerte e combattere unicamente quelle che l’America può vincere. Allo stesso tempo, Trump gioca proprio su un aspetto caro a Erdogan: l’immagine. Se quella interna può uscire rafforzata dalle operazioni militari turche, lo stesso non è successo con il suo appeal internazionale, ritrovandosi a fronteggiare una stroncatura dopo l’altra. Dopo la lettera inviata al Presidente turco e dopo i successivi bombardamenti, è arrivata poi la “tregua”, il cessate il fuoco concordato tra Turchia e USA. Il patto è questo: le truppe di Erdoğan si impegnano a non impugnare le armi per cinque giorni restando comunque a presidiare il territorio, mentre i curdi depongono le armi e abbandonano definitivamente la “safe zone”. “«È un risultato fantastico, ringrazio la Turchia, ringrazio i curdi, milioni di vite sono salve», twitta Trump, in un evidente eccesso di entusiasmo.”

«È un risultato fantastico, ringrazio la Turchia, ringrazio i curdi, milioni di vite sono salve», twitta Donald Trump dalla poltrona del suo studio in un evidente eccesso di entusiasmo. In questa finta tregua, infatti, non c’è nulla di veramente positivo: per i vertici turchi le operazioni militari verranno riprese allo scadere dei cinque giorni di tregua concordati e protratte fino a che il territorio non sarà espugnato dai curdi totalmente. E Trump questo lo sa bene. Tanto che la strategia che sta mettendo in campo è diventata palese agli occhi dei milioni che lo leggono sui social: provare a fare il mediatore delle parti, il pacificatore tra la Siria e la Turchia. E tutto questo è ossimorico già solo a dirsi. È ossimorico anche perché, nonostante il cessate il fuoco stipulato, le armi turche non hanno smesso di attaccare, cinque civili sono stati uccisi e Amnesty International ha denunciato la Turchia per crimini di guerra. Eppure, anche stavolta, i tweet del Presidente della Casa Bianca dopo gli attacchi susseguitisi alla tregua non si sono fatti attendere e una frase recita: «si è trattato solo di un limitato gioco di mortaio». È sempre più chiaro, dunque, quanto gli Stati Uniti abbiano fatto una scelta: tacitamente (ma non troppo), gli americani di Trump hanno scelto di sedersi al tavolo turco abbandonando quello curdo con il quale, prima, avevano un accordo militare e non solo. Sicuramente, però, non sarà l’America a trarre dei benefici da questa guerra, né sarà colei che ne uscirà trionfante, anzi. L’attrice che più di tutti, tra i presenti al tavolo, avrà effettivamente i suoi guadagni sarà la Russia. La stessa Russia che dalla propaganda di Trump è risultata essere, sin dall’inizio, completamente assente e tagliata fuori. Come scrive Pierre Haski in un articolo su France Inter (tradotto da Internazionale): «Ora Putin approfitta nuovamente dell’eclissi di Washington per affermare il suo paese come unica potenza straniera presente sul campo e capace di dialogare con tutti gli attori coinvolti. Alleato e protettore di Damasco, il presidente russo è il padrino delle trattative di Astana che riunisce i protagonisti della guerra, oltre a incontrare regolarmente i leader di Iran e Turchia». La proverbiale calma degli Zar Mentre Trump cerca in maniera convulsa una giustificazione alla propria mossa, altrettanto confusamente minaccia la Turchia e tutti gli statunitensi annaspano nel trovare una soluzione migliore (il Dem Debate del 15 ottobre ne è una cristallina dimostrazione) è evidente chi abbia più beneficiato di questa mossa. Oscurato dall’oggettiva povertà di condizione del proprio Paese e relegato a poco più di un fanalino di coda nella disputa tra Trump e il suo partner commerciale cinese Xi, Putin ha trovato nuovamente il modo di imporsi al mondo come leader grande potenza. E tuttavia, in una stagione di grandi proclami, i media russi (in prima fila i canali social ufficiali del Cremlino) sono stati piuttosto silenziosi. In una home page costellata da foto di strette di mano tra Putin e capi di Stato di Paesi per lo più vicini, il resoconto della telefonata tra il Presidente russo e il Sultano turco passa quasi in secondo piano. E tuttavia, rimane l’unica puntata sulla Siria in cui il Presidente russo sembra non essere neanche troppo coinvolto e preoccupato dall’invasione in piena regola in territorio siriano. Un Paese della NATO che invade il territorio in teoria di un alleato della Russia, dopo una serie di negoziazioni fallite. Allo stesso modo con cui ci si era abituati a vedere un Putin categorico, la sua reazione pacata è sembrata quasi fuori posto. Eppure, se combinata con i titoli dei principali giornali e canali di informazioni russi (dal più filoccidentale Moscow Times all’Izvestija passando per l’agenzia di stampa RIA Novosti) è chiaro che l’invasione non sia neanche lontanamente il primo pensiero della Russia in Siria. “I giornalisti russi hanno visitato una base americana abbandonata in Russia” (Izvestija) “I funzionari di Trump si precipitano in Turchia mentre la Russia avanza per riempire il vuoto in Siria causato dal ritiro degli Stati Uniti” (The Moscow Times) “L’operazione militare turca nella Siria settentrionale ha causato una nuova grave crisi nelle relazioni tra Ankara e gli Stati Uniti e i suoi alleati della NATO […] Martedì il Ministero della Difesa russo ha anche annunciato una situazione mutevole nella zona di conflitto, pubblicando una mappa con l’equilibrio di potere sul suo sito web” (Kommersant) “Allo stesso modo con cui ci si era abituati a vedere un Putin categorico, la sua reazione pacata è sembrata quasi fuori posto.”

Senza nessun annuncio in pompa magna, dalla Russia le poche notizie sulla Siria si sono limitate a sottolineare, anche qui pacatamente, il fattore di disordine: il ritiro degli Stati Uniti dalla zona interessata dall’invasione. Un “vuoto”, un “abbandono” a cui rimediare non con azioni eclatanti o proclami, ma con la cognizione di causa di chi sa governare molto bene un’area in preda al caos, una “situazione mutevole”. Anche per questo, incontri e telefonate con Erdogan vanno ad impattare meno sulla narrazione siriana di quanto non abbiano fatto gli “inviati” Pence e Pompeo nel negoziare con la Turchia: mentre gli Stati Uniti proclamano un effimero cessate il fuoco prima di allontanarsi del tutto dalle alture del Golan e dalla Siria del Nord, Putin ha già inviato delle truppe in supporto dell’alleato siriano per tenere la situazione sotto controllo. Detto fatto: per evitare lo scontro fra le forze del regime siriano e quelle delle FSA (Free Syrian Army, la galassia jihadista che opera in accordo con la Turchia) intervengono le forze russe. Per qualche complottista del Ponente, che ha visto nel Russiagate la pistola (quasi) fumante del coinvolgimento russo nella presidenza di Trump, tutto potrebbe tornare: gli USA passano da poliziotto del mondo a poco più che Stato canaglia mentre la Russia fa il processo inverso. E, sicuramente, a Putin e all’alleato siriano Bashar Al-Assad una situazione del genere sta bene. Per il quale, probabilmente, le cose non si sarebbero potute mettere meglio. Con la Russia a coprirgli le spalle, come del resto durante tutta la durata del conflitto, e con le SDF (Syrian Democratic Forces) a fare il lavoro sporco nel confine più delicato, la sconfitta dell’ISIS e la riduzione del dominio jihadista “misto” alla sola regione di Idlib, persino l’intromissione di Erdogan è stata una boccata d’aria. Non solo per la stabilità del regime, comunque salda da ben prima dell’invasione turca, quanto piuttosto per la martellante propaganda in favore di uno Stato siriano unitario.

L’immagine di un presidente in saldo controllo del proprio Paese, sicuramente, non è conciliabile con un’invasione di uno Stato nemico-ma-non-troppo. La Turchia, dunque, viene dipinta a tinte fosche dai media siriani, ma non nelle vesti di Paese invasore: l’incursione di Erdogan è solo l’ennesimo attentato alla stabilità e all’unitarietà della nazione siriana. E, al contrario della maggior parte dei media occidentali ed orientali, l’apparato siriano non manca di sottolineare i suoi nemici giurati: i jihadisti alleati di Erdogan, che tanti problemi hanno causato al regime di Assad tra il 2011 e il 2015. E se l’alleato russo non preme questo tasto dolente, poco male. I giornali “di regime” non possono non rimarcare con forza la gravità dell’azione turca, ma non si focalizzano solo su ciò.

“Giovedì scorso, le occupazioni turca e americana hanno raggiunto un accordo per sospendere l’aggressione per 120 ore, secondo la quale la cosiddetta ‘zona sicura’ nel nord della Siria sarebbe sotto il controllo dell’esercito di occupazione turco, in cambio della revoca delle sanzioni statunitensi contro il regime turco e del ritiro delle milizie curde dalla zona. Damasco ha definito l’accordo ‘ambiguo’ ” (Al-Watan)

“Fonti dei media e fonti locali hanno riferito che le forze di occupazione americane hanno trasferito dozzine di centri di detenzione dell’organizzazione terroristica (Daesh) dall’interno del campo Houl a est della città di Hassakeh in concomitanza con intensi sorvoli degli elicotteri di occupazione nell’atmosfera del campo, meno di 24 ore dopo il trasferimento di 230 terroristi […] alla prigione di al-Shadadi nella campagna meridionale di al-Hasakah” (Al-Thawra)

Tuttavia, nonostante l’attacco frontale all’aggressione turca nella sua totalità e nonostante la descrizione degli Stati Uniti come ulteriore invasore e fattore di instabilità, questa narrazione si concentra assai poco sulla condizione della Siria del Nord.

“ ‘Oltre ad omicidi a sangue freddo, la Turchia è responsabile delle azioni dei gruppi armati che li sostengono e li armano, ed ha scatenato gravi violazioni in Afrin’, ha dichiarato Komi Naidu, segretario generale dell’organizzazione (Amnesty International, ndr).

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