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La ricchezza nascosta dei beni comuni

La strada poco battuta dei beni comuni nasconde in realtà numerosi significati giuridici ed economici che si interpongono tra le sfere del pubblico e del privato rilevando teorie economiche da premio Nobel.

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L’ampia accezione di bene comune

Sebbene non esista una chiara definizione giuridica dei beni comuni, gran parte dell’orientamento giurisprudenziale li definirebbe come beni il cui uso è reso libero alla comunità trattandosi di risorse considerate dall’ordinamento essenziali per il conseguimento dei diritti fondamentali dell’uomo, risorse che costituiscano un motivo di autodeterminazione della propria personalità se non addirittura motivo di sopravvivenza. Da un punto di vista prettamente giuridico, considerando quindi, il titolo di proprietà che caratterizza questa tipologia di beni, risulta piuttosto utile rimandare a quella definizione che diede la c.d. “commissione Rodotà”, istituita nel 2007, quando si trovò a presentare un disegno di legge che aveva l’obiettivo di ammodernare la normativa del codice civile: “Si dicono essere beni comuni quei beni che non rientrano stricto sensu nella specie dei beni pubblici, poiché sono a titolarità diffusa, potendo appartenere non solo a persone pubbliche, ma anche a privati”. Nella definizione che diede la commissione si facevano poi una serie di riferimenti all’entità di questi beni comuni, che rientrerebbero più o meno tutti nella categoria delle risorse naturali, come i fiumi, i torrenti e le altre acque; o come l’aria, le zone montane di alta quota, i ghiacciai e la fauna selvatica. Per quanto però a seguito del lavoro compiuto dalla commissione Rodotà emerga l’essenza quasi prettamente naturalistica dei beni condivisi, è necessario comprendere il concetto ben più ampio che di questa accezione se ne fa e se n’è fatta.

L’evoluzione della società e dello stato hanno determinato il sorgere di nuove forme di beni comuni facendo rientrare in questa categoria anche i beni appartenenti allo Stato; stiamo parlando, per scendere nel dettaglio, di edifici abbandonati, scuole e strutture che potrebbero essere valorizzate e gestite direttamente dai cittadini. Attualmente l’amministrazione dei beni dello Stato è affidata alla macchina pubblica, che con la sua burocratica e macchinosa operatività fa sì che gli spazi vengano utilizzati meno di quanto in potenziale possano esserlo, si pensi banalmente alle scuole, che al suonare della campanella si cominciano ad avviare verso lo svuotamento totale dell’edificio, che per metà della giornata rimane quindi totalmente inutilizzato. In tutto questo contesto di noncuranza generale degli spazi risulta comunque non indifferente evidenziare come il momento storico di forte istinto liberale e di privatizzazione in cui viviamo consegni ai cittadini un’impostazione mentale che riconduce tutte le forme proprietarie a due opzioni: il singolo proprietario privato o la proprietà demaniale, ossia la proprietà dello stato. È necessario tuttavia, in alternativa a questi due sistemi concettuali, considerare un’altra via: la cosiddetta teoria della terza via che ha valso nel 2009 il premio Nobel per l’economia a Elionor Ostrom, prima donna a riceverlo, che elaborò una tesi che concettualmente parlando è in grado di stravolgere l’intera economia di mercato ad oggi basata sul valore di scambio dei beni, sulla fruizione e sulla disposizione riservata ai privati. Prima di andare ad analizzare il modello che l’economista americana aveva ipotizzato per rilanciare l’uso comune dei beni, è importante comprendere bene le problematiche reali che possono generarsi dalla gestione libera e diffusa di un bene e che vennero in particolare evidenziate da alcuni studiosi: la critica formulata evidenziò come una risorsa concessa all’uso indiscriminato di tutti i componenti di una comunità è un bene che è destinato a deperire; ossia, un ambiente condiviso da molti individui è un ambiente che facilmente subirà un degrado. In sostanza l’uso comune su un bene può facilmente far sì che la libertà stessa concessa ai cittadini si trasformi in un’esasperazione del bene, che ne risentirebbe nelle sue qualità essenziali andando così contro lo scopo stesso per cui la risorsa sarebbe stata resa comune.

Le uniche alternative per ovviare a questo “anarchico saccheggio del bene” sarebbe quella di lasciare la gestione del bene comune o all’amministrazione privata dando il via alla libera concorrenza, o a quella pubblica, lasciando nelle mani dello stato il governo dei beni.

Il bene comune si fa modello politico-economico La tesi della Ostrom parte proprio da una visione controproposta alla tesi sopra esposta, dimostrando, tramite una serie di esperimenti empirici, che un bene è più fruttuoso quando gestito dai fruitori stessi. Il godimento del bene, rischia di cadere nell’ esasperazione solo in assenza di regole ben definite, nell’uso e nella gestione. Elinor, per spiegare i vantaggi dell’uso comune, distinguibile dall’uso pubblico che spetta indiscriminatamente a tutti, pone il dilemma del prigioniero in cui due incarcerati vengono separatamente rinchiusi e dove viene loro proposto uno sconto di pena in cambio di un’informazione che procuri danno all’altro prigioniero; entrambi i prigionieri, mancando di comunicazione e cooperazione, si troveranno a fare il nome dell’altro e ad essere condannati allo stesso modo. Con questo piccolo dilemma la Ostrom cerca di dimostrare la tesi per cui di fronte ad una scelta l’approccio difensivo e non cooperante, che razionalmente valuta la scelta individuale più utile per sè, tende ad essere l’opzione peggiore per entrambi. “Il tema centrale del mio studio – afferma Ostrom - è il modo in cui un gruppo di soggetti economici che si trovano in una situazione di interdipendenza possono auto-organizzarsi per ottenere vantaggi collettivi permanenti, pur essendo tentati di sfruttare le risorse gratuitamente, evadere i contributi o comunque agire in modo opportunistico”. La comunità che pubblicamente beneficia del servizio, secondo tale modello, gestisce ed amministra l’esercizio stesso dell’attività, in modo democratico e disciplinato, secondo regole ben precise, di cui la Ostrom ci fa un elenco come condicio sine qua non, regole cioè da cui una buona gestione comune non può prescindere. L’amministrazione comune deve avvenire in capo ed entro dei limiti ben definiti, rendendo partecipi del processo decisionale tutti o la maggior parte dei membri, che devono avere un effettiva attitudine di monitoraggio sulla gestione e che devono allo stesso tempo prevedere delle sanzioni di tipo progressivo per chi violi le regole della comunità; regole che generando conflitti devono prevedere meccanismi di risoluzione poco costosi e di facile accesso. I grandi beni comuni devono dunque essere gestiti sempre secondo quel principio di sussidiarietà, citato all’art 118 della costituzione, secondo cui la singola scelta deve essere presa il più vicino possibile ai soggetti su cui quella decisione ricadrà.

5 Un compromesso tra stato e cittadino: la fiscalità Come riportato da “Labsus”, laboratorio per la sussidiarietà che porta avanti progetti di partecipazione diretta al bene comune, è possibile, nella pratica, agevolare tramite il fisco la formazione di queste realtà di rigenerazione e di conseguente autogestione dei beni che vengono abbandonati o quantomeno trascurati. Antonio Perrone, professore di diritto tributario all’Università degli Studi di Palermo, ha elaborato una tesi dove nella valorizzazione e nella rigenerazione dei beni evidenzia una convergenza di interessi tra pubblico e cittadino. Un bene rigenerato è un bene che contribuisce al patrimonio sia statale che cittadino, costituendo la rigenerazione, ad esempio di un edificio inutilizzato, un metodo alternativo e addizionale al sistema tributario per contribuire alla ricchezza di uno Stato, che si troverebbe così ad avere sia un edificio sfruttabile in più sia un ulteriore bene da tassare. Ciò che ipotizza Perrone è una forma di sgravio fiscale che venga scandita non unilateralmente dallo stato ma secondo le istanze della comunità, che capendo le proprie esigenze è così in grado di non disperdere la spesa pubblica. Sgravare fiscalmente le opere di rigenerazione costituirebbe, spiega Perrone, una forma di cooperazione tra stato e cittadino che, proprio come avviene nel dilemma del prigioniero, agevolerebbe entrambi, sia singolarmente che come collettività. I beni comuni verrebbero così a rappresentare una categoria di beni che esce fuori dalla definizione di privati e di beni prettamente pubblici, introducendosi tra i due come forma intermedia dove possano partecipare entrambe le componenti, sia private che pubbliche. Se si volesse pensare alla struttura pratica, allo scheletro di questa tipologia di proprietà, si potrebbe immaginare una configurazione simile a quella che troviamo negli enti del terzo settore, strutture il cui uso, seppur possa essere destinato al pubblico, è circoscritto ad un limitato gruppo di componenti e il cui monitoraggio dello scopo perseguito viene compiuto dall’autorità pubblica. Una concorrenza tra Stato e cittadino che è in grado di rimettere in discussione i rapporti di potere. La gestione del bene comune, avvenendo in forma di democrazia partecipativa rappresenterebbe così una forma di educazione politica alla partecipazione decisionale dove il cittadino coadiuva lo Stato anche alla gestione della spesa pubblica; uno spunto da cui ripartire per rilanciare la centralità del cittadino anche all’interno dei contesti così affollati che caratterizzano le città moderne, dove lo Stato, isolato con la sua burocrazia, spesso risulta insufficiente nella gestione e nella scansione di quelli che sono gli interessi cittadini, sempre più tralasciati, sempre più scavalcati. di Andrea Calà

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