N.25 OTTOBRE 2019

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La ricchezza nascosta dei beni comuni La strada poco battuta dei beni comuni nasconde in realtà numerosi significati giuridici ed economici che si interpongono tra le sfere del pubblico e del privato rilevando teorie economiche da premio Nobel. L’ampia accezione di bene comune Sebbene non esista una chiara definizione giuridica dei beni comuni, gran parte dell’orientamento giurisprudenziale li definirebbe come beni il cui uso è reso libero alla comunità trattandosi di risorse considerate dall’ordinamento essenziali per il conseguimento dei diritti fondamentali dell’uomo, risorse che costituiscano un motivo di autodeterminazione della propria personalità se non addirittura motivo di sopravvivenza. Da un punto di vista prettamente giuridico, considerando quindi, il titolo di proprietà che caratterizza questa tipologia di beni, risulta piuttosto utile rimandare a quella definizione che diede la c.d. “commissione Rodotà”, istituita nel 2007, quando si trovò a presentare un disegno di legge che aveva l’obiettivo di ammodernare la normativa del codice civile: “Si dicono essere beni comuni quei beni che non rientrano stricto sensu nella specie dei beni pubblici, poiché sono a titolarità diffusa, potendo appartenere non solo a persone pubbliche, ma anche a privati”. Nella definizione che diede la commissione si facevano poi una serie di riferimenti all’entità di questi beni comuni, che rientrerebbero più o meno tutti nella categoria delle risorse naturali, come i fiumi, i torrenti e le altre acque; o come l’aria, le zone montane di alta quota, i ghiacciai e la fauna selvatica. Per quanto però a seguito del lavoro compiuto dalla commissione Rodotà emerga l’essenza quasi prettamente naturalistica dei beni condivisi, è necessario comprendere il concetto ben più ampio che di questa accezione se ne fa e se n’è fatta. 4

L’evoluzione della società e dello stato hanno determinato il sorgere di nuove forme di beni comuni facendo rientrare in questa categoria anche i beni appartenenti allo Stato; stiamo parlando, per scendere nel dettaglio, di edifici abbandonati, scuole e strutture che potrebbero essere valorizzate e gestite direttamente dai cittadini. Attualmente l’amministrazione dei beni dello Stato è affidata alla macchina pubblica, che con la sua burocratica e macchinosa operatività fa sì che gli spazi vengano utilizzati meno di quanto in potenziale possano esserlo, si pensi banalmente alle scuole, che al suonare della campanella si cominciano ad avviare verso lo svuotamento totale dell’edificio, che per metà della giornata rimane quindi totalmente inutilizzato. In tutto questo contesto di noncuranza generale degli spazi risulta comunque non indifferente evidenziare come il momento storico di forte istinto liberale e di privatizzazione in cui viviamo consegni ai cittadini un’impostazione mentale che riconduce tutte le forme proprietarie a due opzioni: il singolo proprietario privato o la proprietà demaniale, ossia la proprietà dello stato. È necessario tuttavia, in alternativa a questi due sistemi concettuali, considerare un’altra via: la cosiddetta teoria della terza via che ha valso nel 2009 il premio Nobel per l’economia a Elionor Ostrom, prima donna a riceverlo, che elaborò una tesi che concettualmente parlando è in grado di stravolgere l’intera economia di mercato ad oggi basata sul valore di scambio dei beni, sulla fruizione e sulla disposizione riservata ai privati. Prima di andare ad analizzare il modello che l’economista americana aveva ipotizzato per rilanciare l’uso comune dei beni, è importante comprendere bene le problematiche reali che possono generarsi dalla gestione libera e diffusa di un bene e che vennero in particolare evidenziate da alcuni studiosi: la critica formulata evidenziò come una risorsa concessa all’uso indiscriminato di tutti i componenti di una comunità è un bene che è destinato a deperire; ossia, un ambiente condiviso da molti individui è un ambiente che facilmente subirà un degrado. In sostanza l’uso comune su un bene può facilmente far sì che la libertà stessa concessa ai cittadini si trasformi in un’esasperazione del bene, che ne risentirebbe nelle sue qualità essenziali andando così contro lo scopo stesso per cui la risorsa sarebbe stata resa comune. Scomodo

Ottobre 2019


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