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e Ilaria Coize Anna Cassanelli
from N. 27 DICEMBRE 2019
by Scomodo
Incontro con Ignazio Ardizzone e Graziella Bastelli, due esperti nel settore neuropsichiatrico
Abbiamo intervistato uno dei medici del reparto di Neuropsichiatria infantile del Policlinico Umberto I di Roma, Ignazio Ardizzone e la ex-caposala, nonché storica volontaria del Grande Cocomero, Graziella Bastelli. L’Umberto I è uno dei maggiori ospedali della città. Siamo stati nel quartiere San Lorenzo, in una sede dislocata, il reparto di Neuropsichiatria Infantile, in via dei Sabelli. Graziella Bastelli ha contribuito a fondare e dare forma a questo reparto, quando dopo la riforma sanitaria e la legge 180 furono effettuati grandi cambiamenti nel mondo della neuropsichiatria, lasciando non esplicitati i destini dei minori. Oltre a Graziella Bastelli, Giovanni Bollea e Marco Lombardo Radice furono i personaggi principali dell’inizio di una nuova sperimentazione e della nascita di questo reparto. Il dottore Ardizzone è entrato in questo mondo in un secondo momento, dopo aver incontrato Franco Basaglia. È un reparto di avanguardia e innovativo poiché fonde psicologia, psichiatria e neuropsicologia ed è l’unico in Italia a riuscire in questo intento. Il fine dell’intervista è stato quello di avvicinarsi alla tematica affrontata non solo attraverso i documenti, ma anche attraverso due testimonianze che vivono la vita nel reparto come diretti responsabili di questo.
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Legge Basaglia La legge Basaglia del 1978 ha portato alla chiusura dei manicomi, luoghi in cui venivano confinati ed emarginati i malati mentali. L’intento della Legge era quello di restituire dignità umana ai malati, che prima di allora venivano considerati socialmente pericolosi e incurabili. Lo psichiatra Basaglia aveva in mente un nuovo modello di presa in carico dei malati, che garantisse loro accoglienza, ascolto e l’instaurazione di un rapporto umano con i medici. Nel 2019 la Legge appare più avanzata del contesto reale: ci sono ancora apparati segregativi e repressivi nei confronti dei malati e la necessità di presa in carico totale del paziente rimane lontana dalla sua completa realizzazione.
Marco Lombardo Radice: neuropsichiatra infantile, viene chiamato giovanissimo a dirigere il reparto dell’istituto di via dei Sabelli, quello riservato agli adolescenti. Compì una vera “rivoluzione”, aprendo le porte del reparto, organizzando uscite con i giovani pazienti e richiedendo il coinvolgimento pieno di tutti gli operatori, infermieri compresi. Tra le sue opere: “Porci con le ali” e “Una concretissima utopia”
Giovanni Bollea: padre della neuropsichiatria infantile in Italia. Fondatore del reparto di via dei Sabelli.
Qual è il ruolo del neuropsichiatra e dello psicologo e le due figure collaborano per curare la patologia? Qual è, invece il ruolo di una caposala in questo reparto? Ardizzone: “La prima grande differenza sta nel corso di studi: lo psicologo è laureato in psicologia, il neuropsichiatra è un medico specializzato, questo porta ad una differenza brutale: lo psichiatra può dare i farmaci, lo psicologo no. Diciamo che lo psichiatra lavora su una malattia reale causata da diversi fattori, lo psicologo lavora su un malessere di vita non definibile come malattia. Seppure le cause di una malattia psichiatrica sembrerebbero essere psicologiche, spesso vi è un problema genetico che, in correlazione con fattori ambientali, porta al disturbo. Quello che è sicuro è che le due figure devono collaborare per aiutare l’adolescente, l’una senza l’altra non sussiste” Bastelli: “Il mio ruolo è stato fondamentalmente coordinare e controllare. In un reparto di questo tipo è essenziale la comunicazione tra infermieri e dottori, nessuno da solo è in grado di guarire un paziente. Inoltre, sono diversi i disturbi psichiatrici che portano il paziente a voler mettere uno contro l’altro i medici curanti o gli infermieri. La mia idea era di creare una gestione collettiva in modo tale che il reparto diventasse autonomo, con l’esperienza ho imparato che serve anche autorevolezza, nel senso lato di coinvolgimento, da non confondere con semplice autorità. Il mio ruolo era anche di insegnare a lasciare i propri problemi alla porta per non contaminare il reparto ed i pazienti, è il ragazzo e la ragazza a stare in primo piano, il resto deve essere uno sfondo”.
In questo momento storico quali sono le patologie più frequenti tra gli adolescenti? Ardizzone: “C’è una grande differenza tra i maschi e le femmine. Tra le seconde autolesionismo e tentato suicidio, nei maschi l’isolamento e lo sparire dalla società. Vi è un aumento di esordi psicotici legati all’abuso di sostanze e di dipendenze in generale: alcol e ludopatia. Una costante sono i disturbi alimentari, soprattutto tra le ragazze, anche se per un periodo erano scomparsi perché vi erano modi diversi di trattare la malattia, ma poi sono tornati. Altra malattia molto frequente sono i disturbi di personalità”.
Quale potrebbe essere una strategia vincente per arginare ed evitare l’insorgere di disturbi psichiatrici? Perché in Italia non c’è?
Ardizzone: “La prevenzione esiste, bisognerebbe lavorare sul bambino o sull’adolescente appena si manifestano i primi sintomi di un disturbo psichiatrico, ma non è possibile effettuarla. La verità è che i posti letto per il ricovero sono per le emergenze. I fondi non sono sufficienti, i posti letto sono contati. Però lavorare sulla malattia quando è in evoluzione e non, quindi, sul paziente adulto, può prevenire la cronicizzazione della malattia stessa ed è questo che mi piace del lavoro che faccio”. Bastelli: “Sono d’accordo, il problema è che nel campo medico si cura l’emergenza e non si lavora sulla prevenzione. Non importa quanti calcoli siano stati effettuati per dimostrare che prevenire una malattia costa meno allo stato che curarla, i posti letto sono quelli e sono per le emergenze”.
Ci sono disturbi che è possibile guarire senza l’uso dei farmaci? In questo caso la terapia risulta più lunga? Ardizzone: “Il discorso è controverso. Secondo molti l’uso di farmaci non dovrebbe riguardare bambini e adolescenti, ma piuttosto gli adulti, io personalmente non sono d’accordo, purché la terapia farmacologica sia accompagnata da una psicologica. Qui entra in gioco la psicoterapia, ma il discorso diventa complesso. Lo psicoterapeuta si concentra o su uno studio bidimensionale “cognitivo-comportamentale” o su uno tridimensionale come la psicoanalisi che integra lo studio della mente e del comportamento con lo studio dell’inconscio. La prima non si avvale di farmaci e prevede quindi ricoveri molto lunghi anche di sette o otto anni”.
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Si può effettivamente guarire da un problema psichiatrico? Ardizzone: “Difficile parlare di guarigione, la diagnosi di disturbo psichiatrico è un’etichetta pesante di cui difficilmente il paziente si libererà. Diciamo che si può parlare di guarigione quando il ragazzo supera la sofferenza e riesce a riavvicinarsi alla società e all’altro da cui la malattia lo aveva isolato, deve avere voglia di riaffrontare il contatto con l’altro per quanto potenzialmente doloroso”.
Che tipo di comunità si crea all’interno di un reparto? Bastelli: “Nell’immaginario comune, a lavorare in un reparto ci sono i medici e gli infermieri, non è la realtà. In un reparto come questo ci sono moltissime persone dai portantini agli specializzandi e tutti in un modo o in un altro influenzano il paziente”.
Che tipo di rapporto mantiene il paziente con l’istituto dopo la dimissione? Bastelli: “Dipende. Alcuni vogliono tenere le distanze, mentre altri tornano con ancora più affetto e senso di comunità di quando la loro vita era in questo istituto. Altri, purtroppo, tornano proprio quando stanno male. Le ricadute sono possibili, e vanno tenute in conto quando si affronta una terapia. Spesso i ragazzi, anche una volta reinseriti in società, perdono il fascino della relazione con l’altro. Bisogna garantirgli la possibilità di non farsi del male e non fare del male. La malattia psichiatrica toglie il libero arbitrio, ciò che noi cerchiamo di fare è restituirglielo”.
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La famiglia è fondamentale per il percorso terapeutico? Quando si procede all’allontanamento familiare? Bastelli: “Un figlio va apprezzato sempre, soprattutto quando sbaglia. L’allontanamento familiare si rivela necessario soprattutto quando i genitori mostrano di avere a loro volta grosse patologie o problematiche. Per un effetto domino, i ragazzi possono sentirsi in colpa credendo di aver deluso le aspettative della madre o del padre. D’altro canto però questo posto non deve essere considerato un’oasi lontana dalla famiglia e dalla vita che il ragazzo ha visto così terribilmente oppressiva; vedere in questa chiave l’assistenza che noi forniamo, potrebbe non aiutare il paziente a reintegrarsi nel tessuto sociale una volta reintrodotto nella società. Inoltre, un rapporto troppo amicale da parte del personale con la famiglia, può creare ostilità da parte del giovane verso l’equipe medica: potrebbe sentire che non può fidarsi, perché gli sembra un’alleanza distruttiva nei propri confronti.
Spesso infatti, chiediamo un certo distacco da parte delle famiglie, per evitare che il ragazzo percepisca un’amicizia che va oltre l’interesse di cura dello stesso. Proprio a causa di questi fraintendimenti spesso si va incontro a delle “crisi”, talvolta anche di natura violenta. Il paziente non odia il medico in sé, ma ciò che egli, in caso sia molto intimo con la famiglia, rappresenta: un personaggio della vita o dell’infanzia del ragazzo, che quest’ultimo ha vissuto come un nemico”.
Questo istituto copre un territorio maggiore di quello romano, se sì quale? Ardizzone: “Ci arrivano pazienti da tutto il Centro-Sud: non esistono altri punti di ricovero come questo, a livello pubblico. Il nostro metodo, che consiste nel trattare i ragazzi basandoci su un saldo lavoro di equipe, viene apprezzato da molte altre cliniche che non hanno il nostro stesso approccio. È capitato che medici più giovani o che volessero rivoluzionare il proprio approccio con i pazienti, venissero da noi per imparare. A livello nazionale questa è una struttura unica nel suo genere”.
Quanto gravano le limitazioni economiche sul trattamento del paziente? Bastelli: “La carenza di sovvenzioni statali è altamente deleteria per il ricovero a lungo termine dei pazienti.Spesso ci si trova a dover dimettere prima del tempo necessario al trattamento di un disturbo a causa del deficit di finanziamenti. Questo problema può essere certamente ovviato rivolgendosi alle cliniche private. Il punto è proprio questo: chi non può permettersi un trattamento del genere, da chi dovrebbe essere aiutato se non da noi? Ma noi, come possiamo farlo se mancano i fondi?”
Quali sono i principali stereotipi da sfatare riguardo le patologie psichiatriche? Ardizzone: “Innanzitutto, la credenza diffusa “che siano una cosa bella, positiva e creativa”. La diffusa corrente dell’Antipsichiatria è stata anche alla base di un movimento culturale. Questo non è minimamente concepibile: un disturbo psichiatrico, in prima battuta, porta tanta, troppa sofferenza. Non ha nulla di positivo. Certo, con la guarigione si può arrivare ad una nuova concezione del “sé”, ma il disturbo, in quanto tale, non porta mai nulla di buono. Non è trascurabile la paura nei confronti di chi è “diverso”, chi appare “strano”.
Quando chiedevamo all’amministrazione di portare fuori i ragazzi, ci era proibito di farlo il sabato e la domenica, per non “turbare” i residenti. Di stereotipi ce ne sono ancora tantissimi, e la paura della patologia non è stata ancora sconfitta, né con il dialogo né con la cinematografia. Il disturbo si teme perché non lo si capisce. Circa la pericolosità di un paziente, le apprensioni possono però essere legittime: noi tutti siamo stati addestrati ad affrontare la violenza anche attraverso corsi di autodifesa. Ciò che però innesca la reazione violenta, è la vergogna. Il paziente può vergognarsi, può sentirsi a disagio rispetto alla propria malattia psichiatrica. Il meccanismo “Furia-Vergogna” si basa proprio su questo: non ci si rende conto di aver umiliato la persona che si ha davanti, fosse solo con una sola parola sbagliata”. Bastelli: “Ad esempio, anche i bambini, quando sono violenti, spesso lo sono perché si sentono messi all’angolo”.
Di che cosa si occupa l’associazione “Grande Cocomero”? Bastelli: “Si tratta di un’associazione di volontari con continuo ricambio e alcuni elementi fissi. Al suo interno, si cerca di dare una nuova dimensione di sé al paziente, una prospettiva di vita. Ci sono laboratori di musica, teatro e giornalismo, tutti gestiti da professionisti dei rispettivi settori e precedentemente testati su i volontari. Le famiglie vengono costantemente coinvolte, ma questo non basta ad arginare la condizione di continuo sfratto dell’associazione. Questa storica struttura, nasce fra cinema e psichiatria. Si tratta infatti della ex sede dell’Istituto LUCE, e tutt’oggi la collaborazione tra psichiatri ed attori risulta vincente. In questo momento, il “Grande Cocomero” è anche uno spazio per la comunità, situato accanto al primo asilo Montessori, crea un ambiente tranquillo per i bambini, restituendo serenità al quartiere di San Lorenzo. L’obiettivo del centro è quello di dare un senso alle cose che si propongono, attraverso mostre mercato ed esposizioni dei lavori degli stessi ragazzi. La cosa importante è non restare mai soli”. di Anna Cassanelli e Ilaria Coizet
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