ISBN 978-88-6242-796-8
Prima edizione dicembre 2022
© LetteraVentidue Edizioni
© Francesca Iarrusso
© Mario Pagliaro
Volume realizzato con il contributo dell’Ordine degli architetti Pianificatori Paesaggisti Conservatori di Napoli e provincia.
Tutti i diritti riservati
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Progetto grafico: Stefano Perrotta
LetteraVentidue Edizioni Srl
Via Luigi Spagna 50 P 96100 Siracusa, Italia
www.letteraventidue.com
Mario Pagliaro
L’esercizio
del progetto
Francesca Iarrusso
Indice
Mario Pagliaro, designer conviviale
Nicola Flora
Tendere all’infinito
Traiettorie ed esperienze nel lavoro di Mario Pagliaro
Intervista a Mario Pagliaro
PROGETTI ORDINARI
Serie multistrato
Incastro Semplice: poltrona smontabile di emergenza
Incastro Semplice: Chaise longue
Incastro Semplice: Sedia del boscaiolo
Intaglio Semplice: Scrittoio
Intaglio Semplice: Libreria sfrido zero
Intaglio Croce: Sedia Croce
Intaglio Croce: Tavolo Croce
Intaglio Croce: Libreria estensibile
Intaglio Croce e Rotazione: Tavolo salvaspazio
Intaglio Croce e Rotazione: Comodino con anta
Intaglio Croce e Rotazione: Culla
STRA ORDINARI Carriola Carriola Gymball 2 Gymball 2 Tavolo al quadrato Tavolo al quadrato Quanti oggetti è un oggetto? Federica Deo ENGLISH TEXTS 006 015 027 043 045 052 054 056 058 060 062 064 066 068 070 072 075 077 080 083 086 089 092 095 103
PROGETTI
Mario Pagliaro, designer conviviale
Nicola Flora
Mario Pagliaro è un progettista-designer atipico. Non concede nulla alla rappresentazione ostentata della propria persona. È semplice e solare. Non intende mai mostrare sé stesso come un brand. Per questo (e molto altro) mi è piaciuto sin dal primo incontro, e nel tempo delle nostre frequentazioni mi sono convinto sempre di più che era davvero una persona interessante cui dedicare attenzione e studio.
Erano anni che avevo incontrato il suo lavoro, sempre in maniera incidentale, senza averlo personalmente conosciuto: la prima volta in una nota ditta di carta da parati napoletana, vicino alla prima multisala cinematografica della città, in pieno centro antico. Ricordo che quei pochi oggetti esposti, così semplici, mi lasciarono senza fiato: io che mi spendevo come progettista alla ricerca del “troppo” cui togliere risalto, lì vedevo lavori che erano infinitamente avanti in questa lotta contro la ridondanza della forma. Erano oggetti in equilibrio formale, eleganti: niente di troppo, niente di troppo poco. Chiedevano solo di essere abitati, sperimentati col corpo. Solo un po’ di senso sociale mi impedì di sedermi, di smontarli, in qualche modo di conoscerli veramente. Con fare circospetto li fotografai, pensando di riguardarmeli meglio e con calma allo studio, e capire perché mi avevano abbagliato così. Da quel giorno, un sabato di quasi quindici anni fa, ho più volte ripensato al rigore e alla pulizia formale nel lavoro di quel progettista che non conoscevo personalmente, e che tanto nel cognome assomigliava al mio amatissimo maestro universitario, Nicola Pagliara, pur se – ricordo di aver pensato – capace di lasciare lontano da sé, insieme ad un piccolo segno dell’ultima lettera del cognome, un mondo di eccessi formali e linguistici che il mio maestro amava
Francesca Iarrusso Mario Pagliaro L’esercizio del progetto
invece frequentare (e invero dominare) per raggiungere un rigore che mi appariva dal sapore nordico. Da allora diverse volte lo ho incontrato, tramite i suoi oggetti, e sempre mi sono ripromesso di voler conoscere la persona che era dietro un progettista così rigoroso, così asciutto, per il quale passavano gli anni ma certo non perdeva l’urgenza di dire molto con una sola e semplice materia, con una sola tecnica. Voler dipingere il mare con il mare stesso, come fa dire Alessandro Baricco ad un suo personaggio nel meraviglioso racconto “Oceano Mare”. Questa cosa a me bastava per decidere che prima o poi lo avrei studiato ed indagato in maniera strutturata. Questa pazienza è stata compensata dal viaggio nel suo lavoro che questo bel volume di Francesca Iarrusso racconta. Ho deciso di parafrasare la figura di Mario Pagliaro definendola “designer conviviale” per le modalità generali del suo lavoro, riconducibili a quell’auspicabile Società Conviviale definita da Ivan Illich in opposizione a quella capitalistica industriale occidentale. Scriveva infatti Illich che «ognuno di noi si definisce nel rapporto con gli altri e con l’ambiente e per la struttura di fondo degli strumenti che utilizza. Questi strumenti si possono ordinare in una serie continua avente a un estremo lo strumento dominante e all’estremo opposto lo strumento conviviale: il passaggio dalla produttività alla convivialità è il passaggio dalla ripetizione della carenza alla spontaneità del dono. […] Il rapporto industriale è riflesso condizionato, risposta stereotipa dell’individuo ai messaggi emessi da un altro utente, che egli non conoscerà mai, o da un ambiente artificiale, che mai comprenderà; il rapporto conviviale, sempre nuovo, è opera di persone che partecipano alla creazione della vita sociale. […] Il passaggio dalla produttività alla convivialità significa sostituire a un valore tecnico un valore etico, a un valore materializzato un valore realizzato. La convivialità è la libertà individuale realizzata nel rapporto di produzione in seno a una società dotata di strumenti efficaci. Quando una società, qualunque essa sia, reprime la convivialità al di sotto di un certo livello, diventa preda della carenza; infatti nessuna ipertrofia della produttività riuscirà mai a soddisfare i bisogni creati e moltiplicati a gara»1. Parole che per me costruiscono l’habitat concettuale in cui opera, parallelamente a tanti progettisti contemporanei a me cari2, il nostro autore.
1. Illich I., La convivialità, Red edizioni, Milano 1993, p. 29.
2. Penso particolarmente a Giacomo Borella, co-fondatore dello studio Albori, o a Juan Ignacio Mera, architetti che dell’indipendenza dal grande sistema mediatico dell’architettura e dei suoi riti fanno il cuore duro del proprio agire per costruire opere libere e necessarie, oltre che formare coscienze pensanti e non dedite a osservare schematismi di una qualche scuola formale dell’architettura contemporanea. Ma non voglio dimenticare Luigi Maisto, e i più giovani architetti Enzo Tenore (+tstudio) e Domenico Rapuano, che nelle difficili nostre aree interne campane vivono quotidianamente la radicalità del vivere e progettare convivialmente, e che molte di queste riflessioni declinano nel loro fare e costruire per la gente, con la gente.
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Mario Pagliaro, designer conviviale
TENDERE ALL’INFINITO
Traiettorie ed esperienze nel lavoro di Mario Pagliaro
Seduto alla scrivania, sdraiato sul letto o appeso alle cinghie dei suoi attrezzi ginnici Mario Pagliaro ritaglia il suo spazio vitale in una sola stanza, tra le molte disponibili della sua casa-laboratorio a Casoria (in provincia di Napoli), dove progetta e sperimenta in solitudine. Basta una rapida immersione nel suo mondo per capire quanto poco conceda agli eccessi.
Poco interessato agli ambienti patinati, ai vernissage, alle attrazioni glamour comunemente associate al settore, Pagliaro non è uno che rincorre le tendenze. Non viaggia molto. I suoi viaggi sono piuttosto esplorazioni alla scoperta di sé. Condotti in isolamento, spesso in bici, fatti per mettersi alla prova.
Dice che da Napoli un uomo sarebbe in grado di raggiungere Capri a nuoto1, e chi lo conosce un po’, sa che lui potrebbe riuscirci, o che almeno avrebbe l’ardire di provarci. Quella tensione gli appartiene. Il suo modo di fare, nel progetto come nella vita, è quello di un atleta, fatto di disciplina, di esercizi ripetuti e vincoli stringenti. Il fine non è raggiungere l’obiettivo, ma allenarsi regolarmente affinché sia possibile avvicinarsi.
Non stupisce dunque che il suo rapporto con i materiali sia dello stesso tipo. Stressarne le caratteristiche, per permettere a ciascuno di esprimere il proprio valore in potenza, curandosi però – come in un allenamento – di organizzare gli stimoli secondo una sequenza che impedisce sovraccarichi, con l’abilità di chi conosce i singoli effetti di ciascuno sforzo.
Si potrebbe dire che il suo sia un rituale di devozione verso le forze che spendono energie. Nel refettorio del convento di Santa Chiara a Napoli campeggia una scritta: “quello che fai, fallo bene”. Il monito monastico ritorna alla memoria pensando al lavoro
1. Il riferimento è all’intervista riportata all’interno di questo volume.
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Mario Pagliaro
attribuito il compito di veicolare le fattezze di un oggetto. Il progetto, dunque, non serve a costringere un materiale in un’idea astratta di forma ma nasce dallo scambio reciproco. «Questo significa – come ricorda Brancusi – che non dobbiamo cercare di far parlare ai materiali il nostro linguaggio, bensì assecondarli fino al punto in cui altri capiranno il loro»3. L’equilibrio tra tensione ed esasperazione si gioca quindi sul campo della disponibilità del materiale ad assecondare gli stimoli ricevuti, e in base a quelli, avviare un confronto dialettico di cui il progetto possa essere felice espressione e sintesi inattesa.
Sistematizzare
I rituali nella vita di Pagliaro occupano una posizione significativa: «appena sveglio la mattina faccio un piano d’azione», dice con convinzione. Vicino alle filosofie orientali, incline alle pratiche ascetiche e all’allenamento sportivo quotidiano, si avverte in ogni sua azione il bisogno di ricondurre l’esistenza ad un insieme di gesti ripetuti, che rassicurano e appagano l’animo, dando certezze. Oggi che le novità e le stranezze assumono –come sottolinea Han soffermandosi sulla scomparsa dei riti – le caratteristiche di una “coercizione permanente”, «il vecchio, ciò che è stato e che permette una ripetizione appagante, viene rimosso in quanto si contrappone alla logica proliferante della produzione. Le ripetizioni tuttavia stabilizzano la vita, il loro tratto essenziale è l’accasamento»4
Nel suo mondo di arredi definiti “ordinari” è dunque possibile rintracciare una volontà di “fare famiglia”, di ricevere conforto dall’esperienza di un rapporto rituale consolidato con procedure e gestualità. E come in una famiglia si può certamente provare un legame più forte per un singolo componente, o ci si può soffermare sulle debolezze di un altro, ma il valore di questo sistema risiede nella discendenza, nel radicamento che ciascun pezzo ha rispetto alla storia delle successioni, che ne assicura il suo chiaro posizionamento nel mondo. Una genealogia di pezzi attraverso cui rintracciare le traiettorie dell’esperienza che hanno guidato e guidano ancora oggi il lavoro del designer. Attraverso questa serie di oggetti Pagliaro disegna un paesaggio, una topografia emozionale fatta di inquietudine e pacatezza dove il bisogno di certezze convive
Francesca Iarrusso
Mario Pagliaro L’esercizio del progetto
3. Pallasmaa J., La mano che pensa, Sarfarà, Pordenone, 2014, p. 53.
4. Han B. C., La scomparsa dei riti. Una topologia del presente Nottetempo, Milano, 2021, p. 21.
costantemente con la necessità di superarle, di spingersi sempre un po’ più in là della soluzione appena trovata. È un bisogno personale, esistenziale, di fare ordine, di costruirsi appartenenze, di arginare impulsi a vagare nel campo ampio, talvolta aspro, del fare, attraverso l’imposizione di una serie di regole, a cui eventualmente derogare. Affidare ad un unico materiale il compito di risolvere sistemi d’arredo e l’assemblaggio delle singole componenti; riportare gli ingombri volumetrici all’interno di un sistema bidimensionale – il pannello con le sue dimensioni obbligate – dichiarare la tecnica costruttiva senza nasconderne le tracce, è l’insieme dei limiti entro cui il designer si impone di navigare. Tali vincoli non sono obblighi a cui attenersi acriticamente ma, come avviene per la fede, queste prescrizioni rituali – quando non vissute con la cecità assoluta di un dogma – sono funzionali a saggiare le proprie debolezze e a portare l’esistenza ad un livello superiore di complessità.
Derogare-flectere
L’eloquenza della produzione di Pagliaro si manifesta in questa categoria, che rappresenta una soluzione di continuità rispetto alla regola stabilita.
Una serie di oggetti (Gymball, Carriola, Tavolo al quadrato) si allontana dal lavoro sistematico sul multistrato e sulle tecniche costruttive per approfondire mondi differenti e sollecitare altre modalità dell’esperienza.
Mentre illustra la sua tesi di una produzione in serie capace di ottimizzare gli sfridi, di semplificare l’assemblaggio, di ridurre gli ingombri del packaging, di ragionare sulla monomateria; e convince con una famiglia di arredi in grado di declinare la logica in molteplici variazioni funzionali, Pagliaro spiazza con oggetti che nulla hanno a che fare con metodi e modalità consolidate.
Flectere è la terza categoria dell’eloquenza Ciceroniana.
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Tendere all’infinito
Francesca Iarrusso
Mario Pagliaro L’esercizio del progetto
Sei napoletano, vivi e lavori a Casoria; una realtà ben lontana dal patinato contesto milanese, comunemente associato all’industria, quindi alla produzione e al design. Come vivi questa condizione geografica? Credi che la dimensione “periferica” possa essere un limite per un giovane progettista?
No non direi. È vero che probabilmente manca il confronto con altri designer e con quel tipo di contesto culturale, ma per me il rapporto necessario è quello che si determina con le persone. È una questione maieutica: farsi delle domande e cercare le risposte attraverso il dialogo con gli altri, perché il design entra nella vita comune della gente. Per quanto riguarda il lavoro sono abbastanza autonomo, tendo a sviluppare un pensiero isolato, mi interesso poco delle “tendenze”. La dimensione dell’isolamento è quindi vicina al mio modo di concepire il processo creativo. Quando acquisisci una maniera di pensare – che un po’ si impara studiando e un po’ è connaturata – in base a cui inizi a guardare e analizzare le cose con una certa consapevolezza, la condizione geografica è del tutto irrilevante.
Hai una formazione da architetto, lavori come designer e sperimenti nel tuo laboratorio come un artigiano: qual è secondo te la definizione in grado di descriverti meglio?
Io non parlerei di artigianato perché un artigiano si trova a riprodurre più volte la stessa cosa senza l’ausilio di macchine, senza pensare al processo industriale. Il designer invece non può prescindere dal fatto che un oggetto debba essere prodotto in serie, cercando il massimo risultato con il
Mario Pagliaro L’esercizio del progetto 26 + 27 INTERVISTA A MARIO PAGLIARO
progetti ordinari
INCASTRO SEMPLICE
poltrona smontabile di emergenza
Francesca Iarrusso
Mario Pagliaro L’esercizio del progetto
52 + 53 Serie Multistrato
INTAGLIO CROCE
Tavolo Croce
Francesca Iarrusso Mario Pagliaro L’esercizio del progetto
64 + 65 Serie Multistrato
progetti straordinari
Francesca Iarrusso Mario
L’esercizio
progetto CARRIOLA
Pagliaro
del
80 + 81 Carriola
Francesca Iarrusso
Mario Pagliaro L’esercizio del progetto
Questo progetto è probabilmente tra i più arditi nella produzione di Mario Pagliaro.
Composta da due wellness ball – le famose sfere in gomma utilizzate nel fitness per rafforzare la muscolatura e migliorare l’equilibrio – questa seduta nasce dall’osservazione sull’esistente e dalla valutazione critica delle potenzialità insite in un oggetto già appartenente alla produzione industriale, in un processo inventivo che asseconda l’ottimizzazione di risorse già date. La necessità di fornire la sfera di uno schienale per migliorarne le prestazioni in relazione all’atto del sedersi, determina la scelta di aggiungerne una seconda, tenuta insieme alla prima da tubolari metallici sagomati ad anello. È la radicalità del gesto di unione che definisce la struttura e stabilisce di fatto il trasferimento dell’oggetto dal campo del wellness a quello del design. La forma finale è raggiunta per avvicinamenti graduali e avviene eliminando le cime, che nella prima versione permettevano alle balls di non sfuggire all’incastro degli anelli, rese poi superflue grazie all’uso di sfere dentate in grado di garantire una maggiore aderenza alla superficie metallica.
Incasellata dallo stesso designer nella famiglia delle “poltrone” in realtà questa seduta sfugge ad ogni tipo di categorizzazione, risemantizzando in ciascun aspetto l’archetipo di provenienza. Non ha i classici braccioli, non ci sono piedi, non presenta alcuna imbottitura, e non esiste, a ben vedere, una gerarchia tra struttura portante e portata: nulla di tutto ciò che nell’immaginario comune associamo all’idea di una poltrona è presente in questo oggetto, che sfida il modo consueto di guardare la realtà.
Se la pipa di Magritte non è una pipa, producendo un
Mario Pagliaro L’esercizio del progetto 82 + 83 GYMBALL 2