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Zehra Dogan pag

ZEHRA DOĞAN: se di libertà si può veramente parlare Prigionia e resistenza di un’artista curda

“Non posso vedere il cielo. In questa galera tutto è vietato. Ma per una persona che ha uno scopo, anche uno spazio così limitato può trasformarsi in un grande mondo. Con le donne, qui, abbiamo costruito un grande paese di dee.”

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Zehra Doğan da anni porta avanti la sua attività di artista e giornalista, lottando per i diritti umani e denunciando le violenze del regime turco contro il popolo curdo. Nasce nel 1989 a Diyarbakır, in Turchia. Si laurea alla Dicle University’s Fine Arts Program e lavora come capo redattrice presso la prima agenzia di notizie al mondo gestita da sole donne, la JINHA (Jin in curdo significa donna). Durante la guerra in Iraq e Siria, segue assiduamente le vicende da entrambi i paesi ed è una delle prime giornaliste a portare alla luce la storia delle donne Yazide, la minoranza nel nord dell’Iraq soggetta a epurazioni, schiavitù e commercio sul mercato internazionale. Proprio in questi anni riceve il premio giornalistico Metin Göktepe Journalism Award, uno dei più prestigiosi in Turchia, conferito ai giornalisti che difendono l’integrità della professione resistendo alle pressioni e agli ostacoli. Nel periodo del conflitto nelle aree curde della Turchia prova a documentare gli assedi alle città interessate, in particolare quello di Nusaybin, precluso ai giornalisti. il 21 luglio 2016 viene arrestata in un bar con l’accusa di fare parte di un’organizzazione terroristica e posta in custodia cautelare a Mardin. Segue una seconda accusa, e dopo un anno, alla fine del processo, una seconda condanna. Questa volta l’oggetto incriminante è un acquerello pubblicato su Twitter. “Ho ricevuto una

condanna di 2 anni 9 mesi e 22 giorni solo perché ho dipinto bandiere tur-

che su edifici distrutti” scrive la giornalista“ma

è stato il governo a causare tutto ciò. Io l’ho solo

dipinto”. Condannata prima al duro carcere di Ahmed, verrà trasferita nella prigione di Diyarbakir, infine, in quella di massima sicurezza di Tarso. Qui il tempo scorre interminabile, così come Bansky lo rappresenta a New York nel suo Bowery Wall, dedicato proprio a Zehra. Le ore si susseguono senza tregua, ogni legame con il mondo esterno è bandito, ogni speranza, o quasi, lasciata morire e la sofferenza, lancinante e profonda, emerge in tutte le sue forme. La prigionia di Zehra si evolve in un duplice spazio: un dentro e un fuori. Due mondi che scorrono paralleli, fra lei e le mura del carcere, si mescolano e confondono. All’esterno: i massacri, le distese di rovine, l’orrore jihadista e l’odissea dei rifugiati, di cui nessuno, o troppi pochi, parlano, e di cui la giornalista è ben consapevole, anche se non può documentarli. Fuori, però, ci sono anche il sole, la natura, il cielo, che a Zehra mancano terribilmente, come arti amputati, ne sente la presenza, anche se ormai quasi non esistono, se non dentro di lei, rinchiusi fra i tanti e dolorosi ricordi. Fra le mura, invece, corpi che cadono e vite che si spengono, spesso giovanissime; donne emarginate e bambini, costretti a crescere troppo in fretta. Questo è il mondo che per quasi tre anni circonda Zehra. Questo è il mondo che si consuma, sotteso, nelle carceri. Questa è l’ingiustizia che dilaga in qualsiasi lembo di terra in cu rimbombi l’eco della guerra. Tutto il dolore, tutto il risentimento e la disperazione prendono vita, diventano arte politica, arte di protesta. ZEHRA DOĞAN FA DELL’ARTE LO STRUMENTO DELLA RESISTENZA DEL POPOLO CURDO E DELLE DONNE, IN PARTICOLARE. Si rivolge alle persone, le interroga e le istiga a non voltarsi, a non scegliere la

comodità dell’ignoranza. Con straordinaria tenacia e irrefrenabile ottimismo continua a produrre. Mai abbandona il pennello. Mai abbandona la relazione tra donne. Zehra lotta per le donne, con le donne. La sua esper ienza car ceraria, infatti, non è una parentesi solitaria, non un fatto isolato, ma collettivo, così come collettiva è la sua produzione artistica, fatta di tante compagne, di cella e di resistenza, tutte sottoposte al medesimo travaglio, tutte mosse da un unico desiderio, quello di denuncia. Così nasce il primo embrione di un’opera senza eguali, destinata a varcare le mura delle prigioni e i confini degli stati. Così nasce il quotidiano «Özgür Gündem Zindan» (Free Agenda Dungeon), giornale che lavora sull’attualità carceraria, l’unica disponibile alle prigioniere, ma che si evolverà in un’incredibile insieme di incisioni, pitture, ricami che all’unisono denunciano un’unica, sconcertante verità: quella delle donne, oppresse e subordinate, e quella del perseguitato popolo curdo. La voce delle donne riecheggia in tutte le opere dell’artista, così i loro “sogni in cattività", i volti e le storie che essi raccontano. Le donne primeggiano su tappeti sfibrati e laceri, sacchi, lenzuola, carta igienica e ogni qual tipo di supporto che la prigione, clandestinamente, fornisca. Figure contorte ed espressive, dai ventri arrotondati e dai visi sfigurati, così appaiono le donne di Zehra, macchie informi fatte di fondi di caffè, capelli, tè, sangue mestruale, fango, candeggina, curcuma, suc-

co di melograno e molto ancora. I soggetti, sono i soggetti della resistenza, e i materiali, sono quelli della necessità, naturalmente, della necessità di comunicare. un pittore deve usare il suo pennello come arma Il Bowery Wall di Banksy in sostegno di Zehra Dogan, New York, 2018 contro gli oppressori, così afferma l’artista. Non è un

caso quindi che durante la sua reclusione, abbia ricevuto sostegno da artisti di calibro inter-

nazionale: dall’opera del sopracitato Bansky in cui viene chiesta la liberazione dell’artista curda, alla lettera di solidarietà di Ai Weiwei, artista cinese dissidente, che fa un parallelo tra Cina e Turchia, entrambi paesi collocati fra gli ultimi posti nell’indice della libertà di stampa. Il 23 febbraio 2019 Zehra viene finalmente liberata e dal marzo dello stesso anno è residente a Londra. Fedele alla

sua terra è costretta a un autoe-

silio che non ferma la sua arte.

In questo è erede di Dante e di tutti coloro costretti a lasciare la propria patria, amata e sofferta, in nome di ideali più alti, primo fra tutti, quello della giustizia, inattuabile in un paese dove dilaga la minaccia e rista-

gna la censura. L’opera di Zehra raggiunge rapidamente fama internazionale. Viene esposta nell’agosto 2016 in Francia, presso il Douarnenez Film Festival e a Diyarbakır nel 2017, in attesa del processo dopo la prima detenzione, con il titolo “141” (il numero dei giorni trascorsi in cella). Le viene poi stato assegnato il Freethinker Prize e nel 2018, il premio Spring of Press Freedom dalla Deutscher Journalisten Verband. Nel 2019 riceve il premio della Fondazione May Chidiac a Beirut “Exceptional courage in Journalism Award” e, nel novembre dello stesso anno, viene pubblicato dalla casa editrice Editions de Femmes il suo carteggio con Naz Oke durante la prigionia dal titolo “Nous aurons aussi de beaux jours”, da cui trae ispirazione il titolo della mostra tenutasi a Brescia nel 2019 (Avremo anche giorni migliori- opere dalle carceri turche), successivamente esposta al PAC di Milano, nel 2021, con il titolo "Il tempo delle farfalle"). Zehra Doğan è e resterà sempre attuale perché ci insegna che ogni giorno in cui l’indifferenza prevale e l’ignoranza ne gode è un giorno in cui si crea ingiustizia. Ci insegna che l’arte non è

solo creatività e comunicazione, ma necessità di resistere,

di non perdersi, di lottare. Insomma, ci insegna il valore dell’arte come strumento di libertà.

Irene Reboldi 4° DL

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