Lunarfollie Aprile 2022

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LUNARFOLLIE

ZEHRA DOĞAN: se di libertà si può veramente parlare Prigionia e resistenza di un’artista curda “Non

posso vedere il cielo. In questa galera tutto è vietato. Ma per una persona che ha uno scopo, anche uno spazio così limitato può trasformarsi in un grande mondo. Con le donne, qui, abbiamo costruito un grande paese di dee.” Zehra Doğan da anni porta avanti la sua attività di artista e giornalista, lottando per i diritti umani e denunciando le violenze del regime turco contro il popolo curdo. Nasce nel 1989 a Diyarbakır, in Turchia. Si laurea alla Dicle University’s Fine Arts Program e lavora come capo redattrice presso la prima agenzia di notizie al mondo gestita da sole donne, la JINHA (Jin in curdo significa donna). Durante la guerra in Iraq e Siria, segue assiduamente le vicende da entrambi i paesi ed è una delle prime giornaliste a portare alla luce la storia delle donne Yazide, la minoranza nel nord dell’Iraq soggetta a epurazioni, schiavitù e commercio sul mercato internazionale. Proprio in questi anni riceve il premio giornalistico Metin Göktepe Journalism Award, uno dei più prestigiosi in Turchia, conferito ai giornalisti che difendono l’integrità della professione resistendo alle pressioni e agli ostacoli. Nel periodo del conflitto nelle aree curde della Turchia prova a documentare

gli assedi alle città interessate, in particolare quello di Nusaybin, precluso ai giornalisti. il 21 luglio 2016 viene arrestata in un bar con l’accusa di fare parte di un’organizzazione terroristica e posta in custodia cautelare a Mardin. Segue una seconda accusa, e dopo un anno, alla fine del processo, una seconda condanna. Questa volta l’oggetto incriminante è un acquerello pubblicato su Twitter. “Ho ricevuto una condanna di 2 anni 9 mesi e 22 giorni solo perché ho dipinto bandiere turche su edifici distrutti” scrive la giornalista- “ma è stato il governo a causare tutto ciò. Io l’ho solo dipinto”. Condannata prima al duro carcere di Ahmed, verrà trasferita nella prigione di Diyarbakir, infine, in quella di massima sicurezza di Tarso. Qui il tempo scorre interminabile, così come Bansky lo rappresenta a New York nel suo Bowery Wall, dedicato proprio a Zehra. Le ore si susseguono senza tregua, ogni legame con il

mondo esterno è bandito, ogni speranza, o quasi, lasciata morire e la sofferenza, lancinante e profonda, emerge in tutte le sue forme. La prigionia di Zehra si evolve in un duplice spazio: un dentro e un fuori. Due mondi che scorrono paralleli, fra lei e le mura del carcere, si mescolano e confondono. All’esterno: i massacri, le distese di rovine, l’orrore jihadista e l’odissea dei rifugiati, di cui nessuno, o troppi pochi, parlano, e di cui la giornalista è ben consapevole, anche se non può documentarli. Fuori, però, ci sono anche il sole, la natura, il cielo, che a Zehra mancano terribilmente, come arti amputati, ne sente la presenza, anche se ormai quasi non esistono, se non dentro di lei, rinchiusi fra i tanti e dolorosi ricordi. Fra le mura, invece, corpi che cadono e vite che si spengono, spesso giovanissime; donne emarginate e bambini, costretti a crescere troppo in fretta. Questo è il mondo che per quasi tre anni circonda Zehra. Questo è il mondo che si consuma, sotteso, nelle carceri. Questa è l’ingiustizia che dilaga in qualsiasi lembo di terra in cu rimbombi l’eco della guerra. Tutto il dolore, tutto il risentimento e la disperazione prendono vita, diventano arte politica, arte di protesta. ZEHRA DOĞAN FA DELL’ARTE LO STRUMENTO DELLA RESISTENZA DEL POPOLO CURDO E DELLE DONNE, IN PARTICOLARE. Si rivolge alle persone, le interroga e le istiga a non voltarsi, a non scegliere la

“cerco di fare un’arte di protesta perché ho delle cose da dire, la mia gente ha delle cose da dire.


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