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l’Unità Laburista - Autunno Caliente - Numero 44 del 30 ottobre 2021

L’UNITA’ LABURISTA - 44

IL ‘PRIVATO’ NON CI AMA

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Il ‘privato’ non ci ama. Salute, territori e bisogni essenziali al centro di una battaglia per il controllo globale di Giovanni Aiello

Chi vi scrive ha già pubblicato circa un anno

fa un articolo, intitolato “Vaccini ‘privati’ e pubblici contagi”, all’interno del numero 35 di questa stessa rivista, in cui si faceva il punto sui farmaci in arrivo, sugli enormi guadagni attesi dalle aziende produttrici, sui macabri conflitti di interesse e sulle probabili sperequazioni che sarebbero seguite fra i paesi ricchi e quelli poveri nell’approvvigionamento di dosi (vedere fallimento del programma COVAX messo in piedi dalla UE).

Naturalmente, aprire un proprio articolo

citando se stessi può apparire poco elegante.

Ma la tentazione è stata davvero troppo forte, dato il tema di copertina e visto che la storia degli ultimi mesi ha confermato quanto il ‘privato’, in questo caso impegnato sul fronte della salute, possa agire secondo logiche profondamente ciniche e finanche predatorie.

Già agli inizi di dicembre 2020 infatti, quando

la campagna vaccinale non era ancora in corso, sembrava abbastanza chiaro che fossimo soltanto all’inizio di un estenuante tira e molla (almeno apparente?!) fra governi ed aziende. Prova ne sia che, appena pochi giorni fa, ma a distanza di un anno dalle prime somministrazioni, il Papa in persona abbia ancora dovuto invocare “in nome di Dio” la liberalizzazione dei brevetti e il condono dei debiti finanziari per i paesi più esposti, visto che in Africa, ad esempio, il tasso di vaccinati rimane ad oggi inferiore al 5%. Eppure, il motto della campagna era “o ci salviamo tutti insieme o non si salva nessuno”, come già nel novembre scorso affermava, fra i tanti, anche Ranieri Guerra, direttore vicario dell’OMS. “Globale è il rischio, e globale dovrà essere anche la risposta”, aggiungeva ancora nel corso di un suo intervento, anticipando però allo stesso tempo il pericolo di una vera e propria competizione scientifica. Ma d’altra parte, in assenza di fonti giuridiche internazionali e vincolanti che impongano ovunque agli stati il

rispetto dei diritti umani, non resta purtroppo che appellarsi al Padreterno. Anche se lui non è abitualmente invitato al G20.

Territori - La ‘guerra d’Amazzonia’

Contraddizioni analoghe a quelle registrate

per la salute si registrano per le politiche ambientali. Ne è un esempio macroscopico la trattativa in corso fra il presidente statunitense Biden e il governo del Brasile per limitare la distruzione della foresta amazzonica (la seconda più grande del mondo dopo quella equatoriale), nell’ambito di un piano green da oltre 20 miliardi di dollari che gli Usa vorrebbero attuare in Sudamerica. “E’ la transizione ecologica, bellezza!” e serve per salvare il pianeta dal collasso.

Peccato però che, fino a all’altro ieri, l’America

“trumpiana” fosse fuori dagli accordi di Parigi sul clima e negasse l’esistenza stessa dell’emergenza. Inoltre, l’interlocutore principale degli Stati Uniti è stato finora il ministro brasiliano dell’ambiente Ricardo Salles, esponente dell’ultradestra e uomo di fiducia del presidente Bolsonaro, ovvero colui che nel corso del suo mandato ha consentito un aumento della deforestazione superiore all’80%. Come se non bastasse, lo stesso Salles ha più volte difeso in veste di avvocato i gruppi privati dell’agrobusiness ed è stato condannato per illeciti nel settore ambientale. Per questo tutti i principali operatori ed attivisti impegnati sul territorio si sono detti più volte preoccupati, e molti di loro subiscono minacce e corrono rischi enormi, spesso mettendo in gioco la vita.

I

dati in proposito sono eloquenti, e somigliano a quelli di una vera guerriglia. Soltanto nel 2020 in tutto il mondo sono stati uccisi oltre 227 ambientalisti, come emerge dal rapporto annuale del Global Witness. La maggior parte di questi agisce in Centroamerica e in Sudamerica, ma non

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mancano le vittime in Asia e in Africa, sempre per motivi analoghi. Proprio in Brasile sono stati uccisi 20 attivisti, in Messico 30 e in Colombia, il paese più pericoloso, addirittura 65. Nel mese di marzo una leader/sindaca indigena colombiana, María Bernarda Juajibioy, che agiva nel dipartimento amazzonico di Putumayo, è stata assassinata da un commando armato insieme alla sua nipotina di un anno e mezzo. Sempre in Colombia, nell’importante città portuale di Buenaventura, è attiva invece Danelly Estupiñán, che è stata individuata anche da Amnesty International come un’attivista a forte rischio per il suo impegno in difesa dell’ambiente contro interessi economici locali che prevedono disboscamento e inquinamento minerario. Malgrado le denunce Danelly è stata costretta a cambiare casa per tutelare la sua incolumità, vive sotto scorta, e subisce ancor oggi una persecuzione fatta di pedinamenti e intercettazioni telefoniche. Come lei stessa ha dichiarato nel corso di un’intervista a “la Repubblica”, esiste il forte sospetto che anche il CTI (Cuerpo Técnico de Investigación), un organismo dello stato colombiano, sia coinvolto in questa ricerca indebita di informazioni su di lei e sul suo lavoro, e che dei contractors potrebbero essere ingaggiati per eseguire un attentato ai suoi danni. Nel corso dei primi tre mesi del 2021, stesso periodo delle denunce della Estupiñán, nella sola Colombia già si contavano oltre 30 attivisti assassinati.Bisogni essenziali - I progettidei ‘filantrocapitalisti’

Ma la strategia di controllo in assoluto più

efficace ed intrusiva, come spesso accade, non è basata sulla violenza in senso stretto. Ma anzi, è quella con cui i grandi ricchi del mondo cercano di giustificare e rinforzare la propria posizione dominante investendo enormi somme (che si contano in centinaia di miliardi di dollari o di euro) nell’azione umanitaria e nei bisogni fondamentali delle categorie più deboli. Un approccio certamente paternalistico e tutt’altro che disinteressato, che usa il pretesto della lotta al disagio globale per consolidare l’idea che i poveri abbiano bisogno dell’intervento dei ricchi per essere liberati dalla sofferenza e dall’emarginazione, secondo il principio win-win (se il ricco vince anche i poveri vinceranno grazie a lui). Si tratta insomma di una filantropia capitalistica, dunque “filantrocapitalistica”, che alcune influentissime fondazioni (quali la Welcome Trust, la Stiching INGKA Foundation, la Robert Bosch Stiftung o la Nestlé Foundation) perseguono con grande successo, e della quale ci parla approfonditamente la giornalista Nicoletta Dentico nel suo prezioso libro, non a caso intitolato “Ricchi e buoni? Le trame

oscure del filantrocapitalismo” (Emi, 2020).

Su tutte queste fondazioni troneggia però la

Gates Foundation di Bill e Melinda Gates, che con i suoi 50 miliardi di dollari di patrimonio sviluppa progetti praticamente a trecentosessanta gradi, che vanno dalla ricerca, all’educazione, dall’agricoltura, alla nutrizione, all’inclusione finanziaria e alla transizione energetica. La sua capacità di influenzare le scelte, indirizzare finanziamenti, aggregare competenze, è oggi quasi irresistibile, tanto che in molti suoi settori di intervento si fa oramai fatica a distinguere cosa sia pubblico da cosa sia privato. Il dato in questo senso più significativo ed allarmante è costituito forse dai 10 miliardi di dollari che la fondazione Gates ha complessivamente “donato” all’OMS (l’agenzia dell’Onu specializzata per le questioni sanitarie), che ne fanno il suo secondo più grande finanziatore, dietro soltanto al governo degli Stati Uniti. E siamo dunque ritornati alla salute, nostro punto di partenza, la cui gestione sembra quindi sottratta al potere delle assemblee internazionali, passando dall’essere bene comune ad interesse strategico di pochi. Ciò a riprova ulteriore di un disequilibrio generale in cui la pervasività della ricchezza privata mette in discussione qualsiasi aspirazione all’uguaglianza di oggi e di domani.

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