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l’Unità Laburista - Autunno Caliente - Numero 44 del 30 ottobre 2021

L’UNITA’ LABURISTA - 44

L’INTERVENTO IN ECONOMIA DELLO STATO UNITARIO ITALIANO

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DI GIOVAN GIUSEPPE MENNELLA

Lo Stato italiano sorse nel 1861 unito e

indipendente e fu un miracolo politicomilitare dovuto all’astuzia politica di Cavour e dei moderati e all’impegno militare di Garibaldi e del Partito democratico. Dopo i miracoli si fermarono; infatti, la base sociale dello Stato risultò estremamente ristretta, composta com’era sostanzialmente di proprietari terrieri grandi e medi, di banchieri, di proprietari delle pochissime industrie non legate alla trasformazione dei prodotti agricoli, di esponenti dell’alta burocrazia e degli alti gradi dell’Esercito. Aveva diritto all’elettorato attivo non più del due per cento della popolazione.

Il compito immane di amalgamare gli ordinamenti, le economie, l’organizzazione di tanti ex Antichi Stati italiani entrati a far parte della compagine unitaria, insieme alle fortissime spese necessarie per organizzare dal nulla un nuovo Stato, aprirono una voragine nei conti pubblici e un conseguente aumento delle imposte.

In queste condizioni, ovviamente, il neonato Stato non poteva avere un programma organico di intervento nell’economia, impegnato com’era a tappare sia i buchi di bilancio con una politica fiscale che oggi si definirebbe di lacrime e sangue, sia a reprimere la ribellione di forze che si opponevano allo Stato unitario, soprattutto la guerriglia dei briganti nel Mezzogiorno.

D’altra parte, l’impostazione di politica

economica dei moderati della Destra storica al potere nel primo quindicennio unitario fu chiaramente liberistica. Il liberismo post-unitario danneggi il Sud, dove non ci fu più la barriera del protezionismo adottato dal Regno borbonico per proteggere i prodotti autoctoni dalle importazioni da paesi tecnologicamente più avanzati. Così ebbero a soffrirne le poche industrie presenti nel territorio, meccaniche, di navigazione, tessili, non molto evolute, soprattutto dal punto di vista dell’organizzazione capitalistica e finanziaria, da

poter reggere la concorrenza. Fu emblematico il caso della gestione del servizio postale marittimo per le rotte verso il Sud, in relazione al quale i finanziamenti statali dello Stato unitario furono concessi alla Società Rubattino, avente sede nel Nord.

Viceversa, nel Nord, le più organizzate industrie capitalistiche tessili e di trasformazione dei prodotti agricoli, soprattutto della Pianura Padana, ressero.

Dal 1864 al 1875 lo sforzo dei Ministri delle

Finanze Quintino Sella e Marco Minghetti riuscì a raggiungere il fatidico pareggio di bilancio e quindi, anche con l’avvento al governo della Sinistra Storica, si aprì un maggiore spazio per l’intervento statale nell’economia.

Nei primi anni dopo il 1876 e fino allo scorcio del secolo XIX l’impegno statale si esplicò nel protezionismo doganale, adottato per favorire le nascenti industrie siderurgica, meccanica, delle costruzioni navali, situate soprattutto nel Nord. L’impostazione protezionistica di alcuni governi della Sinistra storica dopo il 1876 e dei governi di Crispi sfavorì l’agricoltura meridionale, soprattutto le colture specializzate e di pregio della vite, dell’olivo, degli ortaggi che si trovavano ostacolate dalle barriere doganali innalzate per ritorsione dagli Stati esteri, soprattutto dalla Francia.

Probabilmente, alla politica protezionistica non c’erano alternative, se si voleva far sorgere un processo di accelerata industrializzazione, necessario per recuperare il ritardo sui Paesi tecnologicamente più avanzati.

Giolitti, nei suoi governi a partire dal 1903

continuò con la politica protezionistica, alla quale non mancarono anche serie e motivate opposizioni, come quella dei sindacalisti rivoluzionari di Arturo Labriola e quella dell’opposizione liberale costituzionale di Sidney Sonnino che lamentavano i danni per l’economia

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agricola del Mezzogiorno e per la libera impresa.

Nel 1911, poco prima della guerra di Libia,

Giolitti fece presentare al Parlamento un disegno di legge che istituì il primo Ente pubblico economico, l’Istituto Nazionale delle Assicurazioni, con il compito di esercitare il monopolio statale sulle assicurazioni sulla vita, con il compito di accumulare capitali pubblici per provvedere alla previdenza dei lavoratori. Il disegno di legge era stato preparato dal Ministro dell’Industria Francesco Saverio Nitti, con la collaborazione determinante di Alberto Beneduce, un grande tecnocrate che sarà ancora più determinante nel prosieguo della storia.

L’intervento nella Grande Guerra il 24 maggio 1915 accelerò la tendenza al controllo dello Stato su alcuni tipi di produzioni e anche sul credito e sui movimenti finanziari, allo scopo di razionalizzare l’economia e programmare lo sforzo bellico.

Dall’inizio del secolo anche i nazionalisti,

uno dei grandi movimenti di massa insieme al socialismo e ai cattolici, con l’ideologo Alfredo Rocco, avevano sostenuto che dall’antagonismo delle nuove parti sociali create dall’incremento delle iniziative industriali, dovesse emergere la sovranità assoluta dello Stato, sintesi dell’unità nazionale, anche nel campo dell’economia.

Il Fascismo in quanto regime totalitario fu interessato al controllo di tutte le attività dei cittadini e quindi anche di quelle in campo economico. Non a caso, Giovanni Gentile, tra i principali ideologi del fascismo elaborò il concetto che nulla doveva esistere al di fuori dello Stato, nulla senza lo Stato, nulla contro lo Stato. Quando il Pontefice Pio XI volle criticare i totalitarismi in quanto contrari allo spirito del Cristianesimo, ebbe a dire che il Fascismo aveva sostituito alla religione di Cristo la Religione dello Stato. Tuttavia, nei primi anni del Regime prevalse la tendenza a lasciare di l’iniziativa economica alla classe imprenditoriale, alla cui connivenza il fascismo doveva in larga parte la presa del potere.

Q uando il Regime fu abbastanza consolidato da

poter fare scelte autonome, furono adottate alcune scelte che già configuravano un maggiore controllo dell’economia, un embrione di vero e proprio dirigismo. In questo filone si inserirono nella seconda metà degli anni ’20 la rivalutazione della lira a quota 90 sulla sterlina, la battaglia del grano, intesa ad aumentare artificiosamente la produzione dei cereali per raggiungere l’autosufficienza, peraltro mai ottenuta,

un ciclo di lavori pubblici intesi a diminuire la disoccupazione, la bonifica integrale, studiata dal grande tecnocrate Arrigo Serpieri, che però non fu portata a termine per mancanza di capitali e per il boicottaggio dei grandi proprietari terrieri che non intendevano parteciparne finanziamento.

Le prime misure dirigistiche del Fascismo non sempre riuscirono utili, anzi qualcuna si rivelò controproducente, come la rivalutazione della lira che danneggiò l’esportazione di alcuni prodotti, o l’incremento forzato della produzione di cereali che causò la diminuzione del terreno destinato alle colture di pregio e danneggiò la zootecnia.

L’intervento dello Stato fascista fu più sostanziale durante la grande crisi mondiale, seguita al crollo borsistico del 1929 e alla depressione economica dei primi anni ’30, i cui effetti furono avvertiti in modo pesante anche in Italia, nel periodo 1929-1933.

La crisi mondiale fu originata dal crollo

borsistico che causò un drastico restringimento del credito e il fallimento di moltissime aziende che erano già loro stesse alle prese con problemi di sovrapproduzione. Poi si riverberò anche sulle banche che si trovarono irrimediabilmente esposte perché non riuscirono a recuperare i crediti concessi alle imprese e avevano in portafoglio moltissime azioni ormai svalutate.

La congiuntura mondiale estremamente sfavorevole fece sentire i suoi effetti anche in Italia. L’industria italiana fu colpita dalla crisi in misura non molto diversa da quella della media dei paesi industrializzati europei, ma anche l’agricoltura soffrì gravemente per il crollo dei prezzi delle derrate, per le difficoltà del commercio estero e per la politica del governo di proteggere fortemente la produzione della barbabietola da zucchero e del grano, nella continuazione della famosa “battaglia”,.

Tutto questo produsse un considerevole e inarrestabile aumento della disoccupazione. Si passò dalle 300.000 unità nell’ottobre 1929, a 740.000 nel dicembre 1930, a 1.070.000 nel dicembre 1931, a 1.230.000 nel febbraio 1932, a 1.300.000 nel febbraio 1933, per mantenersi a tale livello nell’inverno 1933- 1934. Dopo cominciò a diminuire, ma i disoccupati erano ancora 765.000 nel 1935. Per due anni vi fu anche una ripresa dell’emigrazione, consentita da Mussolini con una circolare ai prefetti delle province settentrionali e parte di quelle centrali del 13 agosto 1930, adottata per alleggerire la pressione dei disoccupati nelle zone più colpite dalla crisi.

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partire dal novembre 1930 fu decisa la riduzione dei salari nell’industria e nell’agricoltura. Diminuirono anche le ore lavorative e i consumi, soprattutto quelli delle classi sociali meno abbienti.

La crisi dell’industria e dell’agricoltura determinò una grave sofferenza delle banche, per l’inesigibilità dei crediti con le imprese, e anche perché le più importanti di esse, Banca Commerciale, Credito Italiano e, sia pure in misura minore, Banca di Roma, essendo state sempre le principali finanziatrici delle imprese, avevano in portafoglio un gran numero di azioni delle più importanti industrie italiane.

Il problema principale del mondo bancario fino al 1929, non solo in Italia, era consistito nella commistione, nelle medesime banche, tra attività bancaria tradizionale di tipo commerciale e speculativo e l’attività di investimento a favore delle imprese. Le operazioni azzardate tipiche del primo tipo avevano travolto nel loro crollo anche l’attività di credito alle imprese.

Q uando, nel settembre 1931, divenne grave

anche la situazione della Commerciale, fu necessario operare un intervento pubblico per salvare banche e imprese industriali.

Si decise un intervento radicale, comprensivo di pubblicizzazione e ristrutturazione del mondo bancario e industriale, sia perché i mutui concessi poco alla volta dallo Stato alle banche si erano rivelati insufficienti per il salvataggio, sia per evitare che le stesse banche private, una volta salvate dalla crisi, continuassero ad essere, con i medesimi rischiosi criteri speculativi, le finanziatrici delle imprese.

L’operazione fu avviata alla fine del 1931 e constò nel salvataggio a spese dello Stato delle imprese bancarie e industriali in crisi e nella costituzione degli Enti pubblici IMI, Istituto Mobiliare Italiano e IRI, Istituto per la Ricostruzione Industriale a cui andava affidata la gestione degli asset salvati.

L’operazione fu portata avanti, nella

massima segretezza, da un gruppo ristretto di tecnocrati, scelti personalmente da Mussolini, senza interessare minimamente il Parlamento, il Gran Consiglio e neppure i principali dirigenti del Partito Nazionale Fascista, né il tanto enfatizzato sistema delle corporazioni o lo stesso governo inteso nella sua collegialità. Piuttosto che in questi circuiti istituzionali la strategia prese corpo invece nelle stanze riservate degli enti pubblici economici, nelle stanze ovattate della Banca d’Italia, molto negli ambienti esclusivi frequentati dalle élite

tecnocratiche del regime. Gran parte della manovra, dipanatasi nel corso di più anni, tra il 1931 e il 1933 per la fondazione dell’IMI e dell’IRI e tra il 1936 e il 1938 per la legge bancaria e l’ordinamento del credito, si avvalse di strumenti normativi “leggeri”, il decreto-legge quando non se ne poteva fare a meno, sennò, meglio, un armamentario di convenzioni, accordi, direttive di autorità di settore per lo più messi a punto dal diritto privato.

Il principale attore ne fu Alberto Beneduce,

studioso di statistica ed economia, già collaboratore del Ministro dell’Industria Francesco Saverio Nitti nella fondazione dell’Istituto Nazionale delle Assicurazioni, successivamente presidente di alcuni importanti istituti di credito. Beneduce era stato sempre contrario alle banche miste, cioè quelle che esercitavano sia il credito commerciale a breve, sia il credito a lungo termine alle industrie, caratteristica tipicamente italiana che era stata una delle principali ragioni della crisi della Banca Commerciale e del Credito Italiano. Era convinto che le banche private dovessero limitarsi al credito commerciale e lo disse con determinazione a Mussolini e a Toeplitz che amministrava da tempo la Commerciale.

Con decreto-legge del 9 novembre 1931 fu istituito un nuovo Ente statale finanziatore delle imprese, l’IMI (Istituto Mobiliare Italiano), con capitale di circa 500 milioni di lire sottoscritto da Cassa Depositi e Prestiti, INA, Banco di Napoli, Banco di Sicilia, con il compito di raccogliere risparmio mediante l’emissione di obbligazioni decennali da destinare al finanziamento di industrie a scopo di risanamento e sviluppo. Tuttavia, nel corso del successivo anno 1932, per l’aggravarsi della crisi e per una gestione troppo prudente, l’IMI riuscì a svolgere un’attività relativamente limitata e in ogni caso non sufficiente a risolvere la situazione in modo decisivo.

Mussolini l’8 gennaio 1933 incaricò il

Ministro delle Finanze Guido Jung di preparare la formazione di un nuovo istituto pubblico, che avrebbe dovuto finanziare a lungo termine le industrie in maggiore difficoltà e stimolare la ripresa produttiva. Per consiglio di Alberto Beneduce, che pose il problema dello smobilizzo del possesso azionario delle banche, Jung modificò il progetto originario del Duce, che non si oppose alle modifiche. Era questa, sostanzialmente la realizzazione del necessario progetto di separazione dell’attività bancaria commerciale tradizionale che poteva prevedere anche aspetti di rischio speculativo dall’attività bancaria di

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finanziamento a lungo termine delle imprese che doveva essere controllata, o addirittura gestita, con criteri più sicuri dallo Stato. Un’operazione simile si rese necessaria anche negli USA, dove era iniziato il crollo bancario, con l’emanazione nello stesso anno 1933 del Glass-Steagall Act che pure separò l’attività bancaria tradizionale anche speculativa dall’attività bancaria di investimento a favore delle imprese e istituì la Federal Deposit Insurance Corporation con lo scopo di garantire i deposti bancari e prevenire il rischio di panico bancario e corsa agli sportelli

Fu così emanato il decreto-legge del 23

gennaio 1933, che diede vita all’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI), di cui fu presidente Beneduce, vicepresidente Francesco Giordani, professore di chimica generale all’Università di Napoli, e direttore generale Donato Menichella, futuro governatore della Banca d’Italia dopo la seconda guerra mondiale.

La più importante attività dell’IRI riguardò le grandi banche, di cui era divenuto il principale proprietario, possedendo il 94% delle azioni della Banca Commerciale e il 78% di quelle del Credito Italiano. Acquistò anche il 94% delle azione del Banco di Roma, per evitare che questa banca privata, sia pure molto più piccola delle altre due e non in sofferenza, continuasse ad effettuare pericolose operazioni speculative. Oltre che delle tre banche, l’IRI divenne proprietario di una grande quantità di partecipazioni azionarie nelle imprese, cedutegli dalle banche stesse. Così le partecipazioni azionarie dell’IRI ammontarono a più del 20% del capitale azionario totale in Italia. In percentuale, l’IRI prevaleva nelle società telefoniche (83,15%) e in quelle di navigazione (55,88%), mentre aveva posizioni cospicue nelle banche private (38,92%), nelle società metallurgiche (37,92%), nelle società finanziarie (32,18%), in quelle elettriche (29,33%), nelle immobiliari urbane (23,00%) e nelle società meccaniche (21%).

Il compito per il quale l’IRI fu costituito sarebbe

stato quello di finanziare, riordinare e poi rivendere agli imprenditori privati le società di cui aveva acquisito la proprietà azionaria, quindi avrebbe dovuto essere un compito limitato nel tempo. Tuttavia, solo alcune imprese furono smobilizzate e vendute ai privati, quelle più redditizie e non in perdita. Viceversa, non poterono essere smobilizzate quelle imprese non molto appetibili per i privati in quanto avrebbero dovuto essere ancora sostenute da forti investimenti, mentre lo Stato pretese di conservare il controllo

delle imprese necessarie alla produzione bellica. Pertanto l’IRI fu trasformato in Ente permanente con decreto legge del giugno 1937.

Le cessioni ai privati riguardarono soprattutto

le banche e le società elettriche, mentre furono conservate al pubblico soprattutto le società telefoniche (SIP e STET), quelle cantieristiche facenti capo alla FINMARE, quelle meccaniche controllate dalla FINMECCANICA, queste ultime importanti per la produzione di armamenti necessari alle guerre che il fascismo stava intraprendendo in giro per il mondo a partire dalla seconda metà degli anni ’30.

La storia dell’intervento statale in economia

nel secondo dopoguerra è più recente e più nota. L’IMI e l’IRI continuarono la loro opera configurando quella economia mista pubblica e privata per cui si è caratterizzato lo Stato democratico nato dalla Resistenza. Ai due pilastri costituiti dagli Enti costituiti durante il fascismo si aggiunsero sostanzialmente l’ENI di Enrico Mattei e la Cassa per il Mezzogiorno.

Enrico Mattei era stato un importante

imprenditore nato da umili origini, fattosi da sé durante il fascismo, che aveva partecipato attivamente alla Resistenza, con il compito di amministrare i finanziamenti del CLN e di tenerne i conti economici. Dopo la guerra gli fu affidato il compito di liquidare l’AGIP, uno dei tanti Enti economici secondari creati durante il fascismo. Mattei, valendosi delle sue amicizie politiche nella sinistra democristiana, come Ezio Vanoni, Amintore Fanfani e La Pira, riuscì a impedirne la liquidazione e lo rilanciò, ampliandolo con l’istituzione dell’Ente Nazionale Idrocarburi, dando vita all’interessante esperimento di cercare idrocarburi nella Valle Padana e passando poi al procacciamento di forti forniture di petrolio e gas naturale stipulando contratti vantaggiosi con i Paesi produttori del Terzo Mondo. Con l’ENI Mattei contribuì ad assicurare all’Italia una autosufficienza energetica che costituì uno dei fattori determinanti della Ricostruzione e del miracolo economico,

Un altro pilastro economico pubblico del

dopoguerra fu la Cassa per il Mezzogiorno, che ebbe il compito di sviluppare infrastrutture e imprese economiche nelle zone depresse del Paese, soprattutto il Mezzogiorno, ma non solo. L’organizzazione e la gestione della Cassa fu sostanzialmente nelle mani dei medesimi tecnocrati che avevano contribuito a fondare l’IRI, soprattutto Pasquale Saraceno, Gabriele Pescatore, Sergio Paronetto.

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L’opera degli Enti pubblici economici ENI, IRI,

Cassa per il Mezzogiorno fu sostanzialmente positiva e determinante per lo sviluppo del Paese nella prima parte della storia dell’Italia democratica, fino alla metà degli anni ’60 e sostanzialmente fino alla morte di Enrico Mattei nel mai chiarito incidente aereo di Bascapè.

Nella seconda parte della storia della

Repubblica, gli Enti pubblici economici persero molta della loro efficacia, diventando fonte di corruzione dei partiti politici, fino alla fine della cosiddetta Prima Repubblica. Sul controllo e sull’intervento statale in economia hanno influito negativamente il cambiamento del ciclo economico mondiale intervenuto a partire dagli anni ’80 del Novecento. Hanno spinto alla liberalizzazione e alla privatizzazione in economia le nuove normative europee a partire dagli accordi di Maastricht del 1992, la stessa abrogazione negli USA del Glass Steagall Act, la Globalizzazione economica con la tendenza mondiale alla liberalizzazione dei commerci e degli scambi finanziari prevista dagli accordi nell’ambito del WTO World Trade Organization, non era più favorevole all’esistenza di uno Stato controllore, né tantomeno imprenditore. Il ciclo è stato completato con l’emanazione delle regole europee che sostanzialmente hanno vietato, con eccezioni per casi particolari, gli aiuti di Stato all’economia e alle imprese.

Le conseguenze sono state in Italia la

dismissione delle aziende pubbliche economiche e le conseguenti privatizzazioni tra la seconda metà degli anni ’90 e l’inizio del nuovo millennio. Nel mondo ci sono state la crisi delle banche del 2008 e la conseguente depressione economica, la crisi del debito europeo del 2011.

Attualmente però, dopo le crisi del 2008 e

del 2011 e quella recentissima causata dalla pandemia da COVID 19, vi è un accenno di ritorno al passato ed è allo studio un grande piano di rilancio pubblico dell’economia nell’ambito delle istituzioni europee, che è ancora tutto da sviluppare e da applicare.

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