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l’Unità Laburista - Autunno Caliente - Numero 44 del 30 ottobre 2021
L’UNITA’ LABURISTA - 44
LA GESTIONE PUBBLICA DELLA COSA PRIVATA E NON VICEVERSA
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DI ROSANNA MARINA RUSSO
Non sono dedita solitamente all’ormai
mitico “si faccia una domanda e si dia una risposta”, ma il tema è davvero complesso e stuzzicante. Come mangiare un piatto di cui non si riesce a riconoscere gli ingredienti, ma si vuole carpire il segreto. Perciò mi sembra utile, in questo caso, dedicarmi ad esercizi marzulliani. La prima domanda che mi faccio è: Chi è nato prima, il pubblico o il privato? Se crediamo in un Dio istituzione suprema, allora è nato prima il pubblico. E la cacciata dall’Eden è stata la nascita del privato di Adamo ed Eva.Se, invece, Dio rappresenta il padrone del Creato, allora il pubblico è una scelta gestionale di Adamo ed Eva.
Ci scherzo, ovviamente.
E
lo faccio perché mica è semplice stabilire con certezza quando si è sviluppata un’idea precisa della cosa pubblica rispetto a quella privata. Quest’ultima si è mossa in confini ben delineati da subito. Lo abbiamo studiato tutti: quando dal nomadismo si è passati alla stanzialità… a ognuno il proprio orticello, i propri animali, la propria tenda e la propria staccionata.
Il concetto di bene comune da custodire
(tralasciamo per il momento i servizi essenziali), invece, non ha un anno zero e ha avuto nel tempo degli stop and go molto forti. Di sicuro ne parlò Tommaso d’Aquino, nella Summa, come di salute di una società che va salvaguardata da ciò che la inquina o la ferisce. E i periodi storici successivi hanno visto lievitare la diatriba filosofica attorno a un bene relativo a tutti, cioè a ogni individuo, o ai più, cioè alla maggioranza indistinta degli individui. L’una o l’altra posizione ha prevalso secondo il segno culturale del momento.
Ma in questi mesi c’è una vera lotta sul punto e la discussione è, allo stesso tempo, filosofica e pragmatica. Parlo del vaccino anti Covid-19. Si discute fino allo sfinimento se abbia una valenza solo individuale o anche sociale, se cioè sia primaria
la sicurezza personale o quella collettiva.
In un certo senso ci siamo avvitati tra i filosofi storici ed Hegel.
Ma questo è solo un esempio di come
privato e pubblico, nel senso di personale e interpersonale, continuano a contrapporsi. Di sicuro sappiamo che mentre tutto ciò che è relativo al soddisfacimento dei bisogni del singolo non ha necessità di grandi esegesi storiche e antropologiche, tutto quello che si configura come realizzazione compiuta del bene collettivo spesso è un’idea mal digerita, perché intacca qualche scelta individuale. Il suo significato è, dunque, lontano da essere univoco. E, forse, è giusto che sia così. Magari il dubbio che tutto sia ancora in costruzione ci aiuta a staccarci dall’idea di esasperata perfezione antropocentrica di cui spesso siamo colpevoli.
La seconda domanda è posta in maniera più
seria: come mai l’uso di beni e servizi, che dovrebbero appartenere a tutti in maniera egualitaria per poter riconoscere il benessere di una società, spessissimo è specchio di antiche e incancrenite disuguaglianze? Pare semplicistico pensare che il male discenda tutto dalla proprietà privata che ha indotto a curare il proprio e a non preoccuparsi dell’altrui e che, come imprimatur atavico, ci porta a mettere su un piano privilegiato ciò che ci appartiene in maniera esclusiva, rispetto al resto. Ma, in realtà, questo è possibile, non tanto per la presenza della proprietà privata tout court, quanto dal ritardo della presenza del diritto pubblico. Da un punto di vista giuridico il diritto privato ha preceduto di parecchio quello pubblico, perché quest’ultimo ha avuto bisogno del caposaldo costituzionale per esprimersi nelle varie branche. Quindi si sono regolamentati prima di tutto gli affari e le convenienze private, anzi inizialmente solo i rapporti commerciali tra gli individui, inducendo una sorta di sbilanciamento. E nel tempo, questo vuoto giuridico ha sostanzialmente permesso un uso strumentale delle proprietà privata I latifondisti,
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ad esempio, affamavano la plebe con tasse inique e permettevano che sopravvivesse coltivando un pezzo di terra senza mai esserne padrone e che usasse per sé stessa solo una piccolissima parte del raccolto. Questo era appena sufficiente alla sopravvivenza e, se da una parte, la salvava dalla morte, dall’altra, la fidelizzava. E nessun reclamo era possibile, come sappiamo. Forse fu allora che il privato, legato a “proprietá”, prese ad avere un’accezione del tutto negativa, mentre divenne emblema di libertà la metaforica e “pubblica” foresta di Sherwood, quella di Robin Hood, per intenderci: un uso concordato del suolo pubblico, fondato sull’equità sociale. In fondo una comune come ne sono state sperimentate tante negli anni 70 del secolo scorso.
E
quanti fraintendimenti ideologici sull’argomento e quante lotte anticomuniste perché il comunismo si riteneva volesse abolire la proprietà privata. In realtà Marx non aveva idee preconcette sulla proprietà in genere, ma su quella che veniva utilizzata come strumento di sfruttamento (i latifondisti come sopra). La terza domanda è: come mai, ancora oggi, pubblico e privato configgono?
Parlo di quei servizi che tutelano diritti fondamentali come la vita, la salute, l’istruzione e che sono individuali e quindi privatissimi, ma che abbisognano, a mio avviso, di una gestione pubblica, statale e non, per esprimersi al meglio o per meglio dire di una visione pubblica anche del privato e non viceversa.
Nel nostro Paese la differenziazione tra statale
e regionale e tra privato e pubblico ha reso il governo di quei diritti piuttosto complicato. Spesso si è privilegiato il privato a discapito del pubblico anche quando sembrava si volesse fare il contrario. Uno scompenso che ha provocato disequilibri sociali tuttora evidenti.
Emblematica è la nascita e lo sviluppo della
scuola pubblica che divenne tale nel 1859 con la legge Casati, in Piemonte, semplicemente perché i Savoia, questa la motivazione ufficiosa, volevano togliere la supremazia educativa alla Chiesa. La scuola elementare istituita prevedeva, questa la motivazione ufficiale, che i bambini dovessero “leggere, scrivere e far di conto” e per questo fu resa obbligatoria e gratuita. Ma solo sulla carta. Difatti obbligatoria lo fu per modo di dire perché non c’erano sanzioni per i genitori inadempienti e gratuita lo fu solo per lo Stato centrale, visto che vennero delegati i Comuni all’organizzazione scolastica e all’assunzione dei
maestri. La legge, estesa al Regno d’Italia poco dopo, incise così malamente sullo sviluppo dell’istruzione che l’analfabetismo alla fine dell’800 riguardava il 74% degli uomini e l’84% delle donne. Come mai? Il peccato originale ne era la causa. I Comuni dovevano finanziare l’apertura di scuole e, dunque, quelli con minori risorse ne aprirono di meno e assunsero maestri non sufficientemente qualificati pagandoli di meno.
Che successe? Che venne incentivata la scuola
privata per le famiglie più ricche a discapito di quella pubblica, soprattutto nelle aree più bisognose d’istruzione. Esempio di scuola pubblica che pubblica non era. Solo nel 1911 vi fu l’inizio di una scuola statale che intese uniformare il sistema scolastico nazionale, trovandosi però di fronte all’arretratezza sociale ed economica di molte zone del sud penalizzato dalla legge Casati.
Pare che questo gap non si riesca ancora
a colmare. D’altra parte, se sono stati uniformati programmi ed esami, non lo sono stati mai i fondi stanziati. Persino adesso che nel Pnrr le risorse maggiori, secondo le Indicazioni Ue, dovevano servire a ridurre divari territoriali, si scopre che i soldi vanno a molti comuni ricchi.
Dall’articolo di Massimo Villone su Il Manifesto del 3 settembre scorso si legge:
“Come al solito, il trucco c’è, e si vede. Il bando di gara prevedeva che il cofinanziamento da parte dei comuni desse un punteggio aggiuntivo commisurato all’entità. Ed è allora ovvio che il comune ricco possa cofinanziare di più. Così, il comune di Milano vince su Venafro (provincia di Isernia), che pure lo precedeva in classifica prima del cofinanziamento. Milano batte Venafro uno a zero.”
Ecco perché confliggono. O perlomeno perché
mi sembra che configgano: la gestione della cosa pubblica viene spesso misurata con l’occhio di quella privata, o meglio, si tende a schiacciare sul modello privato quello pubblico. Orrendo il periodo della scuola-azienda che, purtroppo, ancora non è concluso.
E per la Sanità è anche peggio.
Insomma, molte domande senza risposte precise,
le mie. Allora voglio concludere formulandone un’altra, l’ultima, che sicuramente procede nello stesso solco: gli intendimenti e gli sforzi della nostra società “democratica” perseguono sul serio la vera uguaglianza tra i cittadini?“
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