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Racconto Come si cresce
Racconto
Come si cresce
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Lucia COLARIETI
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La piccola Ester avrebbe ricordato molto bene quel giorno: avevano consegnato a casa sua il primo apparecchio radiofonico.
Stava osservando incantata il grande mobile al centro del soggiorno che era enorme e molto più alto dei suoi cinque anni, quando dal corridoio delle stanze si affacciò Enrico, il giovane la guardò con un sorriso canzonatorio mimando una grande meraviglia e scimmiottando la sua espressione stupita.
L’appartamento all’ultimo piano di Piazza teatro San Ferdinando, dove Ester abitava con la sua famiglia, era grande abbastanza da consentire di fittare due stanze a- gli studenti fuori sede, Enrico era uno di loro. In quei tempi, un po’ difficili per le leggi fasciste, il papà commerciante di fiori di stoffa arrotondava le entrate con i soldi degli studenti.
La mamma, nei giorni precedenti, aveva parlato di un nuovo ragazzo che veniva da un paese del Cilento, ma la bambina non lo aveva ancora visto. Lei era piccola ma osservava molto in quella casa piena di gente: clienti del padre, amiche della mamma, gli studenti seri, compassati, allegri, spensierati. Lui, l’ultimo arrivato dal Cilento, si stava dirigendo verso il bagno con l’asciugamano sulle spalle e il sapone tra le mani, era l’ora di prepararsi per uscire. Lei sostenne lo sguardo e gli domandò a raffica: «Chi sei, che fai, cosa studi, da dove vieni?»
«Ciao, mi chiamo Enrico Briganti» rispose lui. «Piacere Ester». «Studio, ingegneria».
Lei lo fissò stupita, sembrava una cosa davvero difficile. Per quanto si sforzasse, quella materia strana non aveva a che fare con nessun mestiere che lei conoscesse
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da vicino.
Il giovane si accovacciò sul pavimento al fianco della radio, iniziarono insieme ad osservare meravigliati quel gigante di legno e ottone con due grandi manopole.
Furono interrotti dal padre che chiese il silenzio a tutta la famiglia, fece accomodare la moglie sul divano e la sorella di Ester su una sedia. Si avvicinò all’apparecchio e con un gesto solenne girò una delle manopole, immediatamente un gracchio fortissimo invase la stanza e, sotto il gesto paziente dell’uomo, si trasformò nella voce di un signore che annunciava: “le cronache del regime”.
La bocca spalancata di Ester fece morire dalle risate Enrico che la afferrò per la mano per andare a guardare il retro della radio.
«Vedi» le sussurrò con aria complice «sai come funziona?»
Di fronte agli occhi spalancati della bambina continuò: «Lì dentro ci sono dei piccoli uomini che parlano, cantano e suonano».
La piccola non avrebbe mai osato mettere in dubbio quello che diceva un uomo grande e per di più studente di ingegneria, ma dentro di lei non era convinta di quella spiegazione. Non era possibile che un uomo entrasse là dentro, era semplicemente assurdo. Ma lui rideva e continuava a spiegarle di questi omini radiofonici e intanto lanciava occhiate furtive al balcone di fronte, dove si affacciava la giovane figlia dei vicini.
Ester avrebbe voluto fare altre mille domande ma ormai l’interesse del ragazzo era rivolto altrove, lo lasciò alle sue storie e rimase ancora ad osservare e ascoltare il miracoloso apparecchio che continuava a riversare in casa le note di una canzonetta. Avrebbe ricordato per sempre il giorno in cui portarono il primo apparecchio ra-
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diofonico in casa, quel giorno fu anche quello in cui Ester decise che avrebbe studiato ingegneria o come diavolo si chiamava. Avrebbe studiato tanto da avere gli argomenti per spiegare ad Enrico che la stava imbrogliando!
(Dedicato alla mia mamma, laureata in Chimica Industriale il 21 marzo 1961)
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