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Cultura Quindici minuti di… immortalità
Cultura
Quindici minuti di… immortalità
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Antonella BUCCINI
“Tutto si cancellerà in un secondo. Il dizionario costruito termine dopo termine dalla culla all’ultimo giaciglio si estinguerà. Sarà il silenzio, e nessuna parola per dirlo. Dalla bocca aperta non uscirà nulla. Né io né me. La lingua continuerà a mettere il mondo in parole. Nelle conversazioni attorno a una tavolata in festa saremo soltanto un nome, sempre più senza volto, finché scompariremo nella massa anonima di una generazione lontana” (Gli anni di Annie Ernaux). E invece no. A sostenerlo è Pupi Avati nel film “Lei mi parla ancora”. Il racconto di un malinconico spaesamento nello scenario, caro al regista, della pianura padana. In un’atmosfera rarefatta di nebbia, neve, freddo, Nino continua a tenere vivo il dialogo con la sua sposa che dopo sessantacinque anni lo ha lasciato per sempre. Lo ha lasciato ma è ancora con lui, ne è convinto, in nome di quel patto stretto il
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giorno del matrimonio: se ci doneremo amore infinito saremo immortali. A fronteggiare la quieta e straziante solitudine dell’uomo arriva Amicangelo un non più giovane ghostwriter ingaggiato dalla figlia per spingere il padre a dettare le sue memorie e sedare in qualche modo la sofferenza. Sulle note di “Non partir”, canzone celebre degli anni ‘50, i flashback raccontano gli incontri di Nino e Caterina sulle rive del Po, le origini benestanti di lei, il sospetto della più umile famiglia di lui, la felicità nella casa della vita, casa museo per le tantissime opere d’arte che raccoglierà. La vita sentimentale e professionale dell’aspirante scrittore, pure aggrovigliata in un’irreparabile frustrazione, e quella dell’anziano farmacista, ancora stretta ad un amore che la morte non consuma, alla fine, troveranno una comune assonanza. Quando si è vecchi non ci si abbraccia più, è la cosa che non riesco a perdonarmi, scrive Amicangelo nell’ultimo capitolo suggerendo al vecchio farmacista una nuova consapevolezza. Una seduzione che lo scrittore mancato ha subito dal racconto di un amore difeso e custodito con pazienza, comprendendone il senso e la leggerezza. Nino congederà il nuovo amico per l’ultima volta con le parole di Cesare Pavese: L’uomo mortale non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia.
Ne avevamo bisogno. Di una favola, forse, di una speranza sicuramente. In questo tempo effimero e doloroso, provando a non abdicare alla solidarietà, alla responsabilità, all’accoglienza, magari, a quella tavolata in festa evocata da Annie Ernaux, avremo lasciato ancora un ricordo prima di scomparire “nella massa anonima di una generazione lontana”, e potremmo guadagnarci una quindicina di minuti di immortalità.
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