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Politica Le varianti virali della diseguaglianza

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Le varianti virali della diseguaglianza

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Rosanna Marina RUSSO

Alla parola cambiamento preferisco, ormai, mutamento. È passato un bel po’ di tempo da quando, come tanti, auspicavo una metamorfosi sociale radicale e mi ribellavo alle ingiustizie con clamore, con la forza della giovinezza. Ma poi ho capito, e un po’ tutti lo abbiamo capito, che le rivoluzioni possono sembrare risolutive, ma conservano, spesso, al proprio interno il germe della degenerazione e dell’ingiustizia, insieme al desiderio di squadernare con impeto il presente sbagliato. Non immagino più un cambio repentino delle cose, dunque, non spero più che le diseguaglianze scompaiano solo perché è giusto che scompaiano. Ora anelo alla costruzione caparbia del domani, pezzo a pezzo, al graduale e realistico mutamento del modificabile, appunto. Ciò in cui credo adesso è la possibilità di trasformare con pervicacia il sistema vita e i vasi comunicanti economici che abbiamo creato. Sentii un economista qualche anno fa che spiegò, in buona sostanza, come la ricchezza di un popolo renda automaticamente povero un altro popolo. Anzi usò una metafora particolarissima. Il sistema economico, disse, è fatto come un organo a

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canne e ogni canna è una Nazione. Ci sono quelle alte, le ricche, e quelle basse, le povere. Ma la musica che ne esce è quella scritta sullo spartito. E se un giorno un Paese divenisse povero, cioè si rimpicciolisse, un altro crescerebbe prendendo il suo posto, perché la musica rimanga fedele a sé stessa. Metafora terribile, ma, credo, veritiera. Però, in questo momento storico, qualcosa d’altro sta accadendo a causa della crisi sanitaria in atto, forse un moltiplicarsi di canne piccole che rendono stonato un sistema perfettamente ingiusto. Il maledetto COVID che contagia tutti, ricchi e poveri, e si insinua in qualsiasi luogo senza guardare in faccia a nessuno e che per vincere sulla nostra specie muta con un numero imprecisato di varianti, al suo passaggio non solo amplifica la distanza economica tra le diverse aree del mondo, ma crea delle profonde spaccature sia in uno stesso paese sia tra i Paesi, delle nuove diseguaglianze, delle varianti che si ancorano, come quelle virali, sui disagi preesistenti. La prima è quella relativa alle condizioni di vita nelle varie parti del Globo. È stato evidenziato più volte: non tutti godono di presidi igienici e strutture sanitarie, di u- na casa dove rifugiarsi in isolamento e, dunque, della libertà di difendersi dal contagio. Si parla certamente di zone tra le più deprivate del pianeta, dove si vive in condizioni disperate, come le Favelas dell’America Latina, gli slum di Lagos o di Bangkok o di Nuova Delhi, in cui è possibile fruire di un solo respiratore ogni milione di abitanti, in cui i letti di terapia intensiva sono una rarità e l’acqua non è sufficiente per bere, tanto meno per lavarsi frequentemente le mani. Una parte della nostra umanità è indifesa contro tutto, figuriamoci in presenza di una emergenza pandemica. In situazioni così estreme, in cui il virus amplifica a dismisura le problematiche, ci può essere un mutamento? Possono essere risolutivi gli interventi dei tanti Gino Strada che costruiscono presidi sanitari come fossero isole in deserti immensi? Un tempo avrei detto di sì. Oggi, pur convinta dell’importanza di questa rete di volontari che curano malattie fisiche e sociali, non credo che le cose vengano modificate in sostanza. Forse è necessaria una profonda consapevolezza e una forte volontà da parte di tutti. Joseph Stiglitz su Internazionale ha ipotizzato due soluzioni concrete per combattere la povertà nel mondo: Attivazione da parte del G-20 dei diritti speciali di prelievo del Fondo Monetario

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Internazionale per aiutare i Paesi più bisognosi; Sospensione del debito delle economie in via di sviluppo da parte dei Paesi creditori. Proposte che comporterebbero una vera e propria rivoluzione, un cambiamento immediato e radicale capace, però, di promuovere il miglioramento costante nelle condizioni di vita di molti popoli. Ma c’è un’altra variante che ormai si è diffusa ed è quella del Piano Vaccinale mondiale che più sperequato di così non potrebbe essere. Usa, Uk e Israele dispongono di milioni di dosi, l’Europa arranca, i Paesi poveri stanno a zero. E noi sappiamo che dall’efficacia del piano vaccinale discende linearmente la ripresa economica. Poco prima che esplodesse la pandemia, il 12 settembre 2019, si è svolto a Bruxelles il Global Vaccination Summit, organizzato congiuntamente dalla UE e dall’OMS nel quale si è dato rilievo al problema della recrudescenza di alcune malattie, come il morbillo, e alla disinformazione in ambito vaccinale di molta parte della popolazione. Il documento presentato dalla UE, un vero e proprio decalogo, voleva prospettare modalità funzionali a garantire le vaccinazioni per tutti, contrastando così le malattie prevenibili. E, pur non potendo immaginare tutto lo sconquasso sanitario di qualche mese più tardi, le proposte avanzate appaiono validissime anche per contrastare la pandemia che ci ha assediato e uniformare la distribuzione dei vaccini. In sintesi quelle indicazioni avrebbero potuto garantire una copertura sanitaria universale, creare un sistema di sorveglianza delle malattie, attenuare i rischi di carenza dei vaccini migliorando i sistemi di monitoraggio, proiezione, acquisto, consegna e stoccaggio, sostenere la ricerca, aumentare la fiducia nelle vaccinazioni e promuovere, a livello globale, una leadership politica e, a livello nazionale, regionale e locale, una partnership efficace. Ora quello che non appare chiaro è come mai proprio l’Europa si sia trovata impreparata un anno più tardi e come mai altri paesi si siano arroccati e preoccupati solo dei propri cittadini. Forse l’una è rimasta schiacciata dagli altri a causa di una sorta di sovranismo sanitario? Difficile stabilirlo. Di certo, pur vivendo la stessa tempesta, non si è agito come si fa in mare, salvando prima i più deboli, ma ognuno ha difeso le proprie vie di fuga.

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Papa Francesco, un anno fa, in una piazza solitaria e livida ci ha ricordato che siamo tutti sulla stessa barca, nella sofferenza. Mi verrebbe da pensare che siamo tutti sulla stessa nave, ma solo alcuni possono tentare di allontanarsi dal naufragio. Devo dire che, smentendo il mio punto di vista iniziale, vorrei adesso un subbuglio radicale, vorrei che si costruissero scialuppe per tutti e tutti insieme si salpasse per una terra che sappia adeguare i propri comportamenti per evitare dolori evitabili. Forse quello spirito rivoluzionario di un tempo era solo sopito ma mai cambiato,

mai mutato.

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