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Il diritto di avere diritti

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Il diritto di avere diritti

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Giovanni AIELLO

La democrazia è ufficialmente in crisi. Il dato emerge, sebbene in forme leggermente diverse, sia dal ‘Democracy Index 2020’, report annuale a cura dell’Economist Intelligence Unit (divisione della nota rivista inglese che si occupa di consulenza e di ricerca), sia da quello di ‘Freedom House’, organizzazione non governativa con sede a Washington. L’Economist ha evidenziato come su 167 paesi analizzati (nel mondo gli stati riconosciuti sovrani sono complessivamente

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196), sono appena 22 quelli in cui la democrazia può dirsi realmente compiuta. Fra questi, come prevedibile, troviamo i paesi scandinavi, il Canada, la Nuova Zelanda, l’Australia, ma anche stati inattesi, come Costa Rica, Uruguay, Cile, Corea del Sud. L’Italia non è ricompresa in questo primo gruppo di eccellenza, ma si trova al 29esimo posto fra le “democrazie imperfette”, in triste compagnia ad esempio di Ungheria e Polonia, ma anche degli Usa.

Il report di Freedom House ha invece messo in luce una più generale erosione dello spazio dei diritti. Complice la pandemia (talvolta servita da grimaldello), un po’ ovunque nel mondo sono stati adottati provvedimenti che hanno limitato le libertà fondamentali, talvolta scavalcando i principi di legalità e proporzionalità. Ed in molti regimi è stata usata la violenza per contenere o finanche impedire qualsiasi manifestazione di pensiero dissonante, con il caso più eclatante costituito dal golpe militare in Myanmar, sulla cui unanime condanna grava però il veto opposto da Cina e Russia nel corso del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. La sintesi di queste analisi è dunque piuttosto dura da digerire; i tre quarti della popolazione mondiale (oltre 5,5 miliardi di persone) vivono una condizione definita di “deficit democratico”, mentre un terzo degli abitanti (quasi 3 miliardi) subisce l’oppressione diretta di governi autoritari, e non arriva al 10% la quota di coloro che nel mondo possono dirsi fino in fondo liberi.

‘Dittature, guerre e povertà: ovvero la seconda domanda di Yali’

Ma le classifiche, com’è noto, se da un lato fotografano un utile quadro d’insieme,dall’altro risultano sempre opinabili (il Canada, per esempio, figura come una

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realtà virtuosa, ma si fa forte dell’ala protettiva garantita dalla politica imperialista degli Usa), e soprattutto non estinguono gli interrogativi principali.

Uno di questi, ad esempio, ce lo suggerisce ‘Armi, acciaio e malattie’, celebre saggio di Jared Diamond, pubblicato nel 1997 e vincitore del premio Pulitzer, in cui si ricostruisce come e perché in alcune aree del mondo (verosimilmente nell’attuale bacino del Mediterraneo e poi in Europa) si siano sviluppate civiltà che nel corso della storia hanno finito per sopravanzare le altre. La ricerca dell’antropologo americano era partita nel 1972 da una candida domanda rivoltagli da Yali, un politico della Nuova Guinea incontrato durante un viaggio di ricerca; “come mai voi bianchi avete tutto questo cargo (beni materiali, ndr) e lo portate qui in Nuova Guinea, mentre noi neri ne abbiamo così poco?”.

Applicando questo approccio anche al nostro tema, potremmo dunque immaginarci che Yali ci ponga oggi una seconda domanda: “come mai voi avete così tanti diritti, mentre noi non ne abbiamo affatto?”. Esattamente come per il “cargo”, anche il mondo dei diritti risulta infatti spaccato in due parti profondamente diseguali. E se per una minoranza sono riconosciute (almeno sulla carta) le libertà civili, il giusto processo, l’accesso alle cure e all’istruzione pubblica, per tutti gli altri la vita scorre invece fra stati semi autoritari e regimi sultanistici (le monarchie assolute degli anni duemila). Inoltre si riscontra un’altra casistica (soprattutto con riguardo a Sudamerica, Africa ed ampie zone dell’Asia), per cui quanto più risulta geopoliticamente “prezioso” il territorio su cui insiste un determinato stato, tanto più aumentano le possibilità che il governo corrispondente non rispetti i diritti fondamentali, che il paese sia coinvolto in guerre apparentemente senza padrone e che la situazione economica e sociale ne risulti compromessa (si pensi in proposito al Venezuela di Maduro e alla Siria di Assad, paesi distanti ma accomunati dalla

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presenza di ingenti giacimenti di petrolio e dalla contestuale disgregazione interna).

Si tratta di uno scenario che, parafrasando proprio il titolo del best seller di Diamond, potremmo sintetizzare con l’espressione “dittature, guerre e povertà”. Viene soltanto da chiedersi chi mai possa trarre beneficio da questa oscena relazione fra ricchezza naturale dei territori e povertà delle persone che vi abitano, così come fra valore strategico dei luoghi e conflitti senza fine.

‘Civili in casa, incivili fuori: la Francia e gli altri’

Quest’ultima domanda trova una risposta evidente nel gigantesco cortocircuito etico e giuridico, costantemente in atto proprio nei paesi a più alta tradizione democratica, fra la tutela dei diritti entro i propri confini e la cinica politica neocolonialista abitualmente adottata verso l’esterno. Esempio lampante di questa schizofrenia è senza dubbio la Francia, prototipo di tutte le repubbliche moderne, giustamente considerata la patria dei diritti dell’uomo e dotata attualmente di un sistema di tutele tra i più sviluppati del mondo. Eppure, il governo di Parigi estende la sua influenza in tutti i continenti e in particolare su ampie zone dell’Africa, dove gestisce con fermezza le istituzioni monetarie (come la BCEAO e BCEAEC, che riuniscono le banche centrali dei paesi francofoni dell’area occidentale ed equatoriale), i flussi commerciali e il destino politico delle ex colonie, tanto da potersi parlare di una ‘Francafrique’. Ha basi militari in Gabon, Senegal, Gibuti, Ciad ed è intervenuta sia in Costa d’Avorio (operazione Liocorno del 2002) che nel colpo di stato nel Mali, agendo spesso anche in modo autonomo, indipendentemente dalle risoluzioni internazionali. Nel 2011, fu proprio l’allora

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presidente Sarkozy ad inaugurare i bombardamenti in Libia, avviando contestualmente un’ambigua politica che vede i francesi tutt’ora divisi fra l’appoggio di facciata al governo “ufficiale” di Sarraj (militarmente sostenuto dalla Turchia di Erdogan) e un dialogo incoffessabile col generale Haftar (forte invece del supporto economico della Russia). Analoghe ricostruzioni, naturalmente, tornerebbero valide per tutti i principali governi, Italia compresa. Ed infatti basta scorrere per intero la lista degli stati intervenuti proprio in Libia sotto la bandiera congiunta delle Nazioni Unite e della Nato, per notare subito una macabra corrispondenza con quella classifica delle democrazie ‘complete’ da cui eravamo partiti; Norvegia, Svezia, Danimarca, Paesi Bassi, Belgio, Canada, e poi Gran Bretagna e Usa. Le troviamo tutte, anche le comunità più meritevoli, dentro questo conflitto crudele durante il quale sono stati più volte bombardati finanche i presidi ospedalieri (come accaduto a maggio 2020 all’Ospedale Centrale di Tripoli), e che fin ad oggi ha già causato migliaia di morti fra i civili, oltre a un’emergenza che coinvolge quasi un milione e mezzo di persone (circa un terzo sono minori) tra sfollati, rifugiati e migranti i cui diritti sono violati sistematicamente. Un quadro d’insieme, questo, che inoltre ricalca in pieno quello di decine di altre guerre dimenticate in diverse aree del mondo.

‘I diritti sono per tutti, oppure non sono diritti’

A ben vedere sembra dunque che i diritti, per via di un amaro paradosso, possa permetterseli soltanto chi nel mondo fa la voce grossa, per giunta negandoli a chi è più vulnerabile. I principi contenuti nella ‘Dichiarazione Universale dei diritti umani’ (adottata nel 1948 a Parigi dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite) non costituiscono infatti un obbligo in capo agli stati membri, anche se numerosi

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giuristi aderiscono alla tesi secondo la quale “le norme che compongono la Dichiarazione sono ormai considerate, dal punto di vista sostanziale, come principi generali del diritto internazionale e come tali vincolanti per tutti i soggetti di tale ordinamento”, come si legge anche dalla pagina ufficiale del Senato. Peso diverso ha invece la Convenzione Europea per i diritti dell’uomo, entrata in vigore nel 1953. Un documento davvero prezioso, che nel recepire in larga parte il contenuto della precedente Dichiarazione, assume in più valore vincolante all’interno della UE, ed offre sia agli stati che ai singoli individui l’opportunità di ricorrere ad un’apposita corte (la Corte Europea per i diritti dell’uomo, con sede a Strasburgo).

Rimane però viva l’ambizione di costituire prima o poi quello che il giurista Stefano Rodotà aveva individuato, nel suo omonimo libro, come il ‘diritto di avere diritti’, universalmente riconosciuto e tutelato. Nulla, infatti, in tema di garanzie, va mai dato per scontato. Prova ne sia la risoluzione adottata per consenso lo scorso 23 marzo dal Consiglio Onu dei diritti umani, dal titolo “Assicurare l’accesso equo, sostenibile, tempestivo e universale di tutti gli stati ai vaccini contro la pandemia da Covid-19”. E ciò proprio mentre si assiste per assurdo ad una vera e propria corsa internazionale, sospesa fra accaparramenti indebiti delle dosi (solo gli Usa ne possiedono attualmente oltre 1 miliardo) e colpevoli ritardi nel resto del mondo.

I numeri forniti in proposito da ‘Our World in Data’ dicono infatti che finora, delle quasi 800 milioni di somministrazioni totali, oltre la metà è concentrata soltanto fra Stati Uniti, Cina e India, con un rapporto complessivo fra vaccinati e popolazione globale che ad oggi si attesta appena al 5,5%.

Insomma, siamo sempre al chi tutto e a chi niente.

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Ma anche lì dove le persone credono di essere più al sicuro, la sfida costante per i diritti non deve essere abbandonata.

Ce lo ricordano i casi più eclatanti di “eccesso di sorveglianza” da parte delle forze dell’ordine in questi ultimi mesi, come quello verificatosi a Londra in occasione della veglia in ricordo di Sarah Everard (la ragazza rapita ed uccisa da un poliziotto).

Oppure a Parigi, dove una manifestazione contro la contestatissima legge sulla ‘sicurezza globale’ voluta da Macron è stata dispersa con la forza.

Ci sono poi i segnali provenienti dal mondo del lavoro, con il primo sciopero nazionale dei dipendenti di Amazon e la difficile battaglia dei riders, che accendono una spia sullo sfruttamento 4.0 nei confronti dei cosiddetti ‘platform workers’.

Senza mai dimenticare infine il dramma silenzioso della segregazione economica, che intrappola milioni di persone a bassissimo reddito, e colpisce i nuovi poveri fin nel cuore delle nostre città.

Si tratta in definitiva di un panorama tutto da ridefinire e da sorvegliare con la massima attenzione.

L’obiettivo: sottrarre la sfera dei bisogni e dei diritti agli appetiti del nuovo filantrocapitalismo degli Zuckemberg e dei Gates, che “applica modelli di mercato alla beneficenza” (come scrive la giornalista Nicoletta Dentico), con l’intenzione di privatizzare gradualmente il welfare, la ricerca e l’accesso all’informazione.

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