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Francesco di nome e di fatto

Vaticano

Francesco di nome e di fatto

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Rosanna Marina RUSSO

Guadagnare meno guadagnare tutti, parafrasando. Questa la scelta del papa. E non era affatto semplice discriminare tra ciò che è bene e ciò che è meglio e trovare la soluzione più accettabile. Ma è quello che fa un leader. E Papa Bergoglio è più di un leader di passaggio, è un sovrano assoluto, che ha scelto il nome Francesco perché, come lui stesso ha detto: “Come vorrei una Chiesa povera per i poveri”. Ma è anche una sorta di manager che, per portare avanti le sue opere di carità, deve saper gestire dei fondi. Che scarseggiano.

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Il Vaticano è indebitato, probabilmente anche per delle irregolarità durante alcuni pontificati, ma Papa Francesco non è tipo da recriminare. Perciò, da tempo, ha avviato una nuova politica di amministrazione non solo per alleviare il deficit, ma anche per rendere la gestione finanziaria più agile, più efficiente e più autosufficiente e, quindi, avere più risorse disponibili per aiutare i poveri e i disagiati. Fa dunque i conti con la crisi economica già presente, aggravata a causa del COVID, e con la sostenibilità economica futura dello Stato del Vaticano. E i conti non tornano.

Quest’anno il Vaticano chiuderà in rosso di 50 milioni a causa del crollo delle entrate del 30%, entrate che venivano soprattutto dai Musei Vaticani e che si sono ridotte drasticamente. Pertanto, con una lettera apostolica in forma di “Motu proprio” Francesco ha preso delle decisioni di contenimento della spesa, radicali ma necessarie per scongiurare i possibili licenziamenti. E motiva le risoluzioni con il: “disavanzo che da diversi anni caratterizza la gestione economica della Santa Sede” e soprattutto con la situazione venutasi a creare a causa della pandemia “che ha inciso negativamente su tutte le fonti di ricavo della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano.

Il papa decide di sua iniziativa, perché secondo il Codice di Diritto Canonico può farlo, in quanto dotato di tutti i poteri per esercitare sovranità immediata su tutta la Chiesa universale. E dispone il taglio degli stipendi dei dipendenti vaticani, proporzionale e progressivo. Così, mentre ancora noi ci chiediamo se una patrimoniale sia lecita, il papa per un certo verso la attua: più si guadagna e più la percentuale tolta è gravosa.

Quindi un ridimensionamento delle retribuzioni del 10% ai cardinali, dell’8% ai capi dicastero e ai segretari e del 3% a sacerdoti, religiosi e religiose in servizio presso la Santa Sede. E tutti i dipendenti, eccetto i laici, vedranno bloccati gli scatti

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di anzianità fino al 2023. Ma, come spiega Vatican news, “Questo blocco riguarderà i dipendenti dal quarto livello in su e dunque non toccherà gli stipendi più bassi”. In più nella lettera è specificato che questi tagli non sono applicati “qualora l’interessato documenti che gli sia impossibile far fronte a spese fisse connesse allo stato di salute proprio o di parenti entro il secondo grado”. Le categorie meno fortunate sono perciò salvaguardate. Sarebbe interessante capire se in uno Stato diverso dal nostro i controlli vengono attivati.

Ma, potremmo chiederci, era necessario arrivare a questo? La Chiesa non è ricchissima di suo? In un certo senso sì. Ma quasi tutto ciò che possiede non può essere spendibile. Se da una parte è vero che nei suoi musei ci sono alcuni dei più grandi tesori artistici del mondo, accumulati in 2000 anni di storia della cristianità, è altrettanto vero che non possono essere venduti. Nel 2015 chiesero a papa Francesco se non sentisse talvolta la necessità di vendere i tanti tesori per aiutare gli altri. La sua risposta fu chiara: “Questa è una domanda facile. Non sono tesori della Chiesa, sono tesori dell’umanità”.

La stessa impossibilità di fruizione, anche se per ragioni diverse, esiste per edifici e terreni: sebbene la Chiesa sia presente in tutto il mondo, questi non appartengono al Vaticano. Le diocesi e i 296 ordini religiosi diffusi ovunque sono i proprietari di questi beni immobili e li amministrano per conto loro. Ciascuna “succursale”, circa 2800 diocesi, è un’entità separata, amministrativamente indipendente, con il suo proprio bilancio. La Chiesa è decentralizzata da un punto di vista economico; si può di fatto dire che il Vaticano sta per conto proprio. Ovviamente queste diocesi mandano ogni anno denaro al Vaticano, destinato, in maggioranza, alle attività missionarie o attività meritorie sostenute dal Papa, ma questa somma è meno del 4,5% delle entrate totali.

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Persino i regali che riceve in gran quantità, il papa preferisce usarli per finanziare le sue opere di carità. Per esempio, nel 2014 l’azienda americana Harley-Davidson gli regalò una motocicletta. Papa Francesco firmò il serbatoio del carburante e la regalò alla Caritas romana. La moto fu venduta all’asta per 210.000 euro e il denaro usato per restaurare un asilo per senza tetto e una mensa.

Ci sono poi molte spese che producono poco o niente: la Radio Vaticana che, per mantenersi operativa, conta su 330 impiegati e spende 37 milioni all’anno, raccogliendo in cambio meno di un milione in pubblicità; le Nunziature Apostoliche, ambasciate in 113 nazioni, che per funzionare hanno bisogno di oltre 30 milioni di dollari all’anno; le circa 2000 abitazioni affittate a gente che lavora in Vaticano a prezzi inferiori a quelli di mercato.

Insomma, Il Vaticano è una città che deve avere entrate congrue non solo per sopravvivere, ma per avere la possibilità di donare e queste provengono dagli ingressi di turisti e pellegrini ai musei, per circa 130 milioni di dollari l’anno, da donazioni per circa 85 milioni di dollari l’anno e da investimenti in azioni, obbligazioni e oro, per 920 milioni, che fruttano tra i 15 e i 25 milioni di dollari. Tutto relativamente poco per pagare i debiti.

Il Papa però ha chiaro il suo progetto e reputa la missione della Chiesa prioritaria, a costo di qualsiasi sacrificio, perché è lungimirante e guarda in prospettiva, inquadrando la problematica nell’ambito di “una sostenibilità economica”.

“Un futuro sostenibile economicamente”, scrive nella lettera apostolica, “richiede oggi, fra altre decisioni, di adottare anche misure riguardanti le retribuzioni del personale”.

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In un momento di difficoltà il Papa chiama tutti a raccolta e impone una forma di tassazione di solidarietà a tempo indeterminato.

Ma perché il Papa ha agito proprio sugli stipendi? Semplice: quasi i 2/3 delle spese sono per gli stipendi di circa 4000 persone e tra queste figurano, come abbiamo visto, anche cardinali, arcivescovi, capi di dicastero o di pontifici consigli. Salari che vengono distribuiti grazie al fondo del Clero istituito all'Inps.

Ma noi, maliziosamente, potremmo chiederci se il Papa si è escluso da questa operazione tagli, se ha agito sul suo stipendio.

E magari sapere quest’ultimo a quanto ammonta e, in definitiva, quanto guadagnano i papi.

In realtà non c’è una retribuzione fissa: Joseph Ratzinger percepiva una rendita di 2.500 euro, cifra che, volendo, poteva integrare con i diritti dei tanti libri pubblicati come teologo.

Francesco, invece, non riceve alcuno stipendio perché così ha voluto: in un certo senso si è autotassato prima di tassare gli altri.

Ha dato l’esempio “come un buon padre di famiglia”, si direbbe nel nostro ordinamento.

Certo ha la facoltà di attingere liberamente all'Obolo di San Pietro, un fondo istituito presso lo Ior, l’Istituto per le Opere di Religione, che raccoglie le donazioni in arrivo nella data del 29 giugno, ma sempre con lo scopo di sponsorizzare tutti i progetti benefici a lui più cari.

Niente da fare o da dire: ha scelto di essere e non solo di chiamarsi Francesco. Nomen omen, ma non come destino: come scelta.

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