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Storia e politica

Storia e politica

Breve evoluzione storica dei diritti

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Giovan Giuseppe MENNELLA

In età medievale e moderna, fino a un’epoca non molto lontana da quella contemporanea, alla stragrande parte della popolazione non erano riconosciuti significativi diritti individuali e collettivi, almeno non quelli che sono garantiti oggi nelle società democratiche di massa.

Nell’Ancien Regime i Sovrani godevano di un’autorità assoluta, soprattutto nei confronti della gente comune, in quanto considerati rappresentanti di Dio in Terra. Agivano sciolti da freni materiali e soprattutto da leggi codificate, non trovando opposizione se non in pretese dinastiche e di potenza dei più grandi feudatari dei Regni, ma soprattutto nell’autorità del Papa di Roma che si considerava sovraordinato a tutti.

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I primi soggetti che pretesero il riconoscimento di precisi diritti, nell’ambito di una certa autonomia, furono i Feudatari e i Baroni di più alto lignaggio. Il basso Medioevo fu caratterizzato, soprattutto in Francia e in Inghilterra dove nascevano embrioni di Stato Nazionale, dal contrasto di lunga data tra i Sovrani assoluti e i Feudatari circa i reciproci poteri e diritti.

Il 15 giugno 1215 fu accettata dal Re inglese Giovanni Senza Terra la Magna Carta Libertatum, un Patto che, rispetto al Sovrano, garantiva i diritti della Chiesa, la protezione dei civili dalla detenzione ingiustificata (Habeas corpus), una giustizia rapida e la limitazione sui tributi feudali alla Corona.

Più che una concessione strappata all’autorità del Sovrano, la Carta fu un riconoscimento di diritti reciproci. Con le successive, molteplici, modifiche e con la Petition of Right e il Bill of Rights è durata a lungo nei secoli, nel mondo anglosassone e americano, arrivando a influenzare anche la Costituzione degli Stati Uniti del 1787.

Sicuramente, specialmente all’inizio, contemplava il rapporto medievale tra il Monarca e i Baroni piuttosto che i veri e propri diritti della gente comune. Tuttavia, è rimasto un potente, iconico monumento alla libertà, anche dopo che la quasi totalità del suo contenuto e delle principali successive modifiche è stato abrogato dai libri statutari del XIX e XX secolo. Costituisce ancora un importante simbolo delle libertà e dei diritti di oggi, nel mondo anglosassone e statunitense. È stata definita da qualcuno in Gran Bretagna “il più grande documento costituzionale di tutti i tempi, il fondamento della libertà dell’individuo contro l’autorità arbitraria del despota”.

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Nel Continente europeo, in epoca basso-medievale, a partire dall’anno 1000 dell’Era volgare, il popolo, un tempo sottoposto all’autorità dei Feudatari, acquisì libertà e qualche diritto trasferendosi dal contado nelle città. Nella realtà urbana si era al riparo dai soprusi e dagli ordini dei Baroni feudali. Gli Statuti comunali riconobbero ai soggetti alcuni diritti, soprattutto quello di non sottostare più al lavoro obbligatorio a favore dei Signori (le corveè) e quello di esercitare arti e mestieri, come operai o artigiani o commercianti. È stato detto che l’aria delle città rendeva di fatto liberi.

A partire dal XVI secolo, dall’epoca delle scoperte geografiche e delle esplorazioni e migrazioni degli europei in altri Continenti, la saggistica giuridica elaborò e codificò il diritto dei popoli all’emigrazione. Diritto del tutto eurocentrico, se mai ce ne fu uno, dato che codificò più che altro il diritto di masse di avventurieri del Vecchio Continente a trasferirsi nelle Americhe, in Asia, in Africa per sottomettere quelle popolazioni, per sete di dominio e di ricchezze, stuprando, rubando e distruggendo. Appare quindi piuttosto sorprendente che oggi quegli stessi Stati europei, che in passato avevano sempre riconosciuto il diritto all’emigrazione, lo neghino oggi, erigendo barriere di ogni tipo, ai discendenti di quelle stesse popolazioni extraeuropee che vivono in condizioni precarie proprio perché i loro Paesi sono stati sfruttati dagli avventurieri europei di un tempo. E forse non solo di un tempo, ma anche di oggi, ma questa è proprio un’altra storia.

Un anno importante per la storia del riconoscimento dei diritti fu quel 1648 in cui, con la Pace di Westfalia, nacque l’Europa moderna. Con quel Trattato, che sancì la fine della Guerra dei Trent’anni e delle Guerre di Religione, l’Imperatore del Sacro Romano Impero della Nazione germanica rinunciò definitivamente ai tentativi di imporre con la violenza la propria confessione religiosa cattolica ai Principi prote-

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stanti tedeschi. Dal canto loro, anche tutti i Principi dell’Impero rinunciarono all’imposizione violenta di qualsivoglia confessione religiosa ai sudditi. Fu il primo, decisivo, passo per il riconoscimento del diritto della gente comune di professare liberamente ogni fede religiosa e per l’instaurazione del principio di tolleranza.

In quel medesimo periodo, anche in Inghilterra, con le Guerre Civili e le Rivoluzioni del 1649 e del 1688, si affermò il principio della Monarchia costituzionale e poi parlamentare. Per la prima volta furono imposti limiti giuridici all’esercizio del potere della Monarchia, la quale, da allora in poi, fu obbligata a rispettare le decisioni di un Parlamento e quindi riconoscere, a monte, diritti politici quantomeno alle categorie più abbienti e istruite della popolazione comune che li esercitavano con l’elezione dei loro rappresentanti al Parlamento di Westminster.

Nel XVIII secolo, il pensiero illuministico sviluppò in via teorica e scientifica il concetto della separazione tra potere esecutivo, legislativo e giudiziario. Fu aperta allora, anche nell’Europa Continentale, la strada per una futura limitazione per via di legge lo strapotere dei Sovrani assoluti di Antico Regime, riconoscendo agli strati più evoluti della popolazione comune i diritti politici. Ma, come in Inghilterra nel secolo precedente, anche qui, a cominciare dalla Francia nel 1789, il cammino per ottenere questi diritti non doveva essere pacifico, tra sommosse, repressioni, congiure e rivoluzioni.

In Italia, sull’argomento dei diritti, l’Illuminismo produsse a Milano il pensiero di Pietro Verri e Cesare Beccaria e a Napoli quello di Antonio Genovesi.

Pietro Verri e Cesare Beccaria impegnarono il loro pensiero per il diritto dei cittadini a non subire più la tortura giudiziaria e le pene infamanti. Antonio Genovesi

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tenne le sue lezioni di Economia civile, gettando le basi per un’azione sociale solidaristica dell’Economia, che potesse assicurare ai soggetti non solo miglioramenti materiali, ma anche morali, in una parola, il diritto alla felicità. L’insegnamento di Genovesi fu ripreso dai Padri fondatori degli Stati Uniti che, nelle dichiarazioni preliminari inserirono un richiamo al diritto alla felicità, in quanto Thomas Jefferson e Benjamin Franklin, soprattutto il secondo, avevano conosciuto il pensiero dell’economista napoletano.

Tutto il lavorio del ‘700 Riformatore e Illuminista sfociò nei documenti giuridici che sancirono le Rivoluzioni d’America e di Francia.

La Dichiarazione di Indipendenza delle Colonie americane del 4 luglio 1776 nella prima parte espresse alcuni principi generali, richiamando scritti giusnaturalistici e illuministi, come il diritto di uguaglianza e quello di ribellione all’autorità (diritto alla Rivoluzione).

La Costituzione degli Stati Uniti del 1787 fu perfezionata, dopo pochi anni, con i primi emendamenti che presero forma di una Carta dove furono previsti una serie diritti, concernenti la libertà di culto, di parola, di stampa, di riunione e petizione, quella di portare armi, oggi contestata, il divieto di arresti, perquisizioni, confische irragionevoli (con evidente ispirazione all’habeas corpus medievale inglese), il divieto di processi che comportassero la pena capitale o pene molto gravi senza la costituzione di un Grand Jury, il diritto a un processo penale rapido e pubblico.

Tutti diritti destinati a una sfera di cittadini omologhi a quelli della democrazia ateniese del V secolo avanti cristo, cioè con esclusione degli stranieri, delle donne e degli schiavi. Una democrazia “alla greca”.

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La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 dell’Assemblea Nazionale Francese sancì i diritti di libertà e di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte allo Stato, quello di essere ammessi a tutte le dignità, posti e impieghi pubblici, di non essere accusati, arrestati e detenuti se non nei casi previsti dalla legge, di essere sottoposti solo a pene necessarie e non puniti se non in base a una legge, la presunzione di innocenza fino a quando non dichiarati colpevoli, non essere molestati per le opinioni, anche religiose, a meno che non sia turbato l’ordine pubblico, il diritto di parola, scrittura e stampa, il diritto di proprietà, limitabile solo per necessità pubblica e con giusto e previo indennizzo.

Entrati nel secolo XIX, tutte le lotte e i rivolgimenti per l’ottenimento dei diritti contro i moltissimi Regimi assoluti che imperversavano ancora, furono ispirati dai due documenti americano e francese.

In Europa Continentale ci furono lotte e Rivoluzioni di tre tipi.

Le Rivoluzioni liberali, per ottenere i diritti politici di rappresentanza, con la promulgazione di Costituzioni e l’istituzione di Parlamenti rappresentativi. In Italia la Rivoluzione liberale per l’ottenimento dei diritti politici si intrecciò con la Rivoluzione nazionale per l’ottenimento del diritto all’indipendenza nazionale e all’autogoverno. Il cardine delle lotte italiane fu lo Statuto Albertino, riconosciuto nel 1848 nel Regno di Sardegna. Questo Statuto, di fatto un embrione di Costituzione, fondò diritti politici, ma non sociali, e ispirò la lotta per l’indipendenza e l’unità nazionale, divenendo poi la legge fondamentale anche dello Sto unitario dal 1861 al 1948.

In Francia i diritti politici e, più tardi, quelli sociali sono stati riconosciuti dalle Costituzioni che hanno accompagnato, tra Rivoluzioni e guerre vinte e perdute, il

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cambio di cinque successivi Regimi, nel 1791, nel 1848, nel 1871, nel 1945 e nel 1958.

In Germania, fino alla Costituzione della Repubblica di Weimar, lotte, guerre e rivoluzioni non riuscirono a instaurare neanche molti diritti politici, forse qualche diritto sociale per una forma di paternalismo tecnicistico tipicamente teutonico. Lo Stato, almeno fino alla Costituzione della Repubblica di Weimar, fu sempre autoritario, rigidamente gerarchico, militarista e caratterizzato dalla sopravvivenza di strutture politiche arcaiche quali Principati, Regni e Città-Stato.

Le Rivoluzioni Nazionali mirarono a ottenere il diritto alla libertà e all’indipendenza di nazionalità oppresse da Imperi autoritari plurinazionali, plurilinguistici e plurietnici, come furono nell’800 l’impero russo e quello austriaco. Emblematiche le lotte nazionali in Italia, in Ungheria, in Polonia.

Le Rivoluzioni sociali, per ottenere il miglioramento dei diritti concernenti le condizioni di lavoro e di salario della classe lavoratrice, scoppiarono già nel periodo della Rivoluzione francese con le rivolte dei lavoratori di Parigi e con l’incitamento alla lotta di rivoluzionari e pensatori come Babeuf e Filippo Buonarroti. Poi con la sanguinosa rivolta degli operai di Parigi nelle giornate sanguinose del giugno 1848. Dopo la metà del secolo e dopo la pubblicazione del Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels le Rivoluzioni per l’ottenimento di diritti sociali non perseguirono solo l’obiettivo di miglioramenti normativi ed economici, ma anche quello della presa del potere politico da parte del proletariato, per l’edificazione di uno Stato socialista. Il paradigma e l’esempio più sanguinoso fu il rivolgimento della Comune di Parigi nel 1871.

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Due esperimenti costituzionali interessanti, per certi versi in anticipo sui tempi per molti loro aspetti moderni e libertari ma presto abortiti, furono la Costituzione della Repubblica Romana del 1849 e la cosiddetta Carta del Quarnaro, scritta per la maggior parte da Alceste De Ambris, per l’autogoverno della città di Fiume occupata nel 1919 dai legionari guidati da Gabriele D’Annunzio. La prima durò un solo giorno, il primo luglio 1849, la seconda pochi mesi, stracciate rispettivamente dall’esercito francese e dalle cannonate sparate per ordine del Governo Giolitti.

Nel XX secolo, dopo la tempesta dell’annullamento dei diritti e delle libertà da parte dei regimi totalitari, la coalizione delle Nazioni Unite che aveva vinto la Seconda Guerra Mondiale si fece promotrice di un riconoscimento universale dei diritti delle popolazioni. L’impulso iniziale fu dato dal discorso sullo stato dell’Unione pronunciato da Roosevelt il 6 gennaio 1941 sulle cinque libertà e i cinque diritti fondamentali. Diritto alla libertà di espressione, alla libertà religiosa, alla libertà dal bisogno e alla libertà dalla paura. Le prime due libertà erano già previste dal primo emendamento della Costituzione americana, le altre erano innovative, oltre i tradizionali valori costituzionali. Nella seconda parte del discorso elencò i benefici della democrazia, come opportunità economiche, occupazione, sicurezza sociale e la promessa di un adeguato sistema sanitario. Ovviamente, la pratica degli anni a venire e la storia del mondo come si è evoluta fino ai nostri giorni ha fatto capire che tutte queste belle cose sono assai difficili in determinate zone del mondo che risentono sia del passato di sfruttamento coloniale sia, soprattutto delle ruberie e della feroce repressione delle dittature autoctone.

La Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948 dell’O.N.U., sorta di logico seguito del discorso di Roosevelt, ha rappresentato una summa di tutte le dichiarazioni e carte dei diritti precedenti, ampliandole molto dal punto di vista dei diritti indivi-

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duali e sociali, come il diritto al riconoscimento della personalità giuridica, di non essere sottoposto a interferenze arbitrarie nella vita familiare e privata, la libertà di movimento e residenza, il diritto di asilo in altri paesi, il diritto di lasciare il proprio paese ed eventualmente di ritornarci, di non essere privato della cittadinanza e di poter acquisire la cittadinanza di un altro paese, il diritto all’istruzione etc.

In Italia, nel dopoguerra, la Carta fondamentale dei diritti dei cittadini fu la nuova Costituzione della neonata Repubblica, promulgata il primo gennaio 1948. Diversamente dallo Statuto Albertino, nella nuova legge fondamentale furono riconosciuti, oltre ai diritti politici, sostanziali diritti sociali ed economici, frutto del lavoro degli esponenti intellettuali delle due componenti su cui era stata fondata la Repubblica, cioè i cattolici e i socialisti. Però, quell’Italia degli anni ’40, appena uscita dal disastro della guerra perduta, risentiva ancora in larga parte dei costumi di una civiltà contadina, caratterizzata dal massimo di solidarietà reciproca tra le persone e le famiglie, ma dal minimo di libertà individuale, soprattutto per i giovani e le donne. Una società ancora in larga misura patriarcale e dalla moralità repressiva. Quindi, soprattutto dopo il boom economico e il passaggio da una società contadina a una industriale, apparve evidente l’indispensabilità di integrare la legislazione dei diritti di libertà individuale, concernenti soprattutto i rapporti interpersonali, familiari e il miglioramento della condizione della donna. Iniziò così la stagione delle lotte per questo tipo di riforme. Un nuovo diritto di famiglia, il diritto al divorzio, il diritto all’interruzione volontaria della gravidanza e, nel campo sociale, un allargamento dei diritti dei lavoratori, soprattutto nella vita di fabbrica. Una stagione che vide all’avanguardia il Movimento dei Radicali, con in testa Marco Pannella, le Associazione delle donne e i partiti socialista e comunista. Tutto questo sfociò nella legislazione degli anni ’70 concernente i diritti al divorzio,

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all’interruzione volontaria di gravidanza, a nuovi e più moderni rapporti giuridici nella famiglia, ai diritti dei i lavoratori con lo Statuto del 1970, ai diritti degli ammalati con il Servizio Sanitario Nazionale nel 1978, a una nuova sistemazione migliorativa delle condizioni di cura delle persone affette da problemi mentali, grazie al vero e proprio apostolato di Franco Basaglia e dei suoi colleghi e allievi di Psichiatria democratica.

Oggi c’è ancora molto da fare, sia per difendere i diritti già acquisiti, sia per ampliarne e perfezionarne il contenuto.

In molte Nazioni non occidentali vigono ancora feroci dittature che calpestano, oltre ai diritti politici, anche quelli umani, soprattutto in Africa e in Asia, mentre in America Latina sembra per fortuna allentata la morsa dei Regimi militari.

In Italia sono da ampliare i diritti degli omosessuali, delle famiglie arcobaleno, delle famiglie che vorrebbero procreare artificialmente, dei ragazzi di famiglie straniere nati in Italia e di cultura e lingua italiane che non riescono ad ottenere la cittadinanza per lo jus soli.

In Italia, come nel Mondo, andrebbe meglio tutelato il diritto di non subire l’utilizzo scorretto dei propri dati in rete da parte delle aziende, il diritto dei lavoratori che, nonostante le dichiarazioni ufficiali di principio, continuano a restare senza tutele o con poche tutele, sfruttati dalle grandi imprese operanti in rete.

In conclusione, le lotte per la difesa e l’ampliamento dei diritti della gente comune sono come gli esami di Eduardo De Filippo, non finiscono mai.

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