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Io ho il diritto di essere felice

Politica e Società

Io ho il diritto di essere felice

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Rosanna Marina RUSSO

“Sei felice?”. Quando lo chiediamo, non è raro che l’altro ci guardi smarrito e poi risponda: “Non so. E poi, cos’è la felicità?”.

Già, cos’è. A guardare i dizionari sarebbe uno stato d’animo positivo di chi ritiene soddisfatti tutti i desideri o la compiuta esperienza di ogni appagamento o un insieme di emozioni e sensazioni del corpo e dell’intelletto in grado di procurare uno stato di gioia per un periodo di tempo particolarmente lungo.

Ma possiamo smentirci subito. Umberto Eco, nell’articolo “Il diritto alla felicità” pubblicato su L’Espresso il 26 marzo 2014, scrisse che se per felicità “si intende

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uno stato permanente, l’idea di una persona che è felice per tutta la vita, senza dubbi, dolori, crisi, questa vita sembra corrispondere a quella di un idiota – o al massimo a quella di un personaggio che viva isolato dal mondo senza aspirazioni che vadano al di là di una esistenza senza scosse (...)”. Quindi, la felicità “è situazione molto transitoria, episodica e di breve durata…”

Complicata appare una definizione certa e univoca. Ma, al di là di fugacità o permanenza, è lecito chiedersi se questo appagamento vada perseguito soltanto individualmente o se, invece, necessita di una funzione sociale e politica che lo sostenga per compiersi appieno e anche, in questa doppia prospettiva, se è un diritto inviolabile tanto da dover essere tutelato persino nelle carte costituzionali.

Quest’ultima domanda ha forse la risposta più immediata: è la Dichiarazione d’Indipendenza americana, 1776, che viene subito alla mente. Il riferimento lì è e- splicito: “A tutti gli uomini è riconosciuto il diritto alla felicità. “

Assertivo. Eppure, Benjamin Franklin aveva scritto “diritto alla proprietà”. Fu Gaetano Filangieri, a cui fu inviata la bozza, che modificò l’espressione proposta con quella accettata del “diritto alla felicità “. Concetto che chiarì successivamente, nel 1780, con l’opera La Scienza della Legislazione: “Nel progresso concreto del sistema di leggi sta il progredire della Felicità nazionale, il cui conseguimento è il vero fine del Governo, che lo consegue non genericamente ma come somma di Felicità dei singoli individui”

Ma, al di là della primogenitura della parola “felicità”, se poi quell’impegno, “quella promessa al mondo di abbracciare popoli e civiltà in una visione ampia e dialettica” sia stata mantenuta, è cosa diversa. Forse potremmo dire con Howard Manford Jobes: “lo sgradevole privilegio d’inseguire un fantasma e di abbraccia-

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re una delusione”. Probabilmente fu per non abbracciare una delusione che nella Carta costituzionale gli americani hanno lasciato cadere l’argomento. Non ve n’è traccia.

Ma se quella Dichiarazione ha fatto da apripista, oggi più che mai tutti gli Stati, per lo meno quelli democratici, cercano di soddisfare quell’aspirazione universale. Anche la nostra Costituzione, seppure sia stato cancellato dai Padri Costituenti ogni riferimento alla “Nazione (...) felice” contenuto nello Statuto Albertino, ne contempla in filigrana la tutela, con gli artt. 2 e 3. Nel primo dispone che “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle funzioni sociali ove si svolge la personalità…”, mentre nel secondo stabilisce che “È compito della Repubblica rimuovere gli “ostacoli…che impediscono il pieno sviluppo della persona umana…”. Come dire che sviluppare appieno la propria personalità vuol dire essere felici e che lo Stato ne è corresponsabile.

Ma anche l’ONU indica questo come un tema fondamentale. Difatti con la Risoluzione A/RES/66/281, ha istituito la “Giornata Internazionale della felicità” che si celebra il 20 marzo di ogni anno, perché “(...) consapevole che la ricerca della felicità è uno scopo fondamentale dell’umanità(...)”. E così molti leader, che lo hanno inserito nell’agenda politica. Dal piccolo comune di Ceregnano, centro del Polesine nella provincia di Rovigo, in cui è stato creato “l’Assessorato alla Felicità” alla nazione europea tra le più grandi, la Francia, in cui è stata costituita una commissione di esperti col compito di studiare e “confezionare” il “PIL del benessere”.

Ma, allora, se le istituzioni se ne preoccupano, è evidente che la felicità non può essere inseguita solo individualmente. Se da una parte dipende dalle nostre scelte, dall’altra queste devono ancorarsi a libere opportunità. C’è un significato sociale e

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politico ampio: l’uomo può realizzare la sua felicità solo se esiste una realtà sociale attenta alla qualità di vita. Lo Stato deve garantire la possibilità di tale realizzazione, ma senza interferenze, riconoscendo l’autonomia dell’individuo nella determinazione della propria esistenza. Per dirla con Kant: “Nessuno mi può costringere ad essere felice a suo modo, ma ognuno può ricercare la sua felicità per la via che a lui sembra buona, purché non rechi pregiudizio alla libertà degli altri di tendere allo stesso scopo” .

E, molto concretamente, quando fu chiesto a James Madison, uno dei padri costituenti americani, come lui intendesse realizzare la propria felicità, egli rispose: “nel grembo e nell’amore della famiglia, nella compagnia dei miei vicini e dei miei libri, nelle salutari occupazioni delle mie fattorie e dei miei affari” Quindi in un luogo quanto più remoto dal Congresso e in una vita su cui la sfera pubblica non poteva rivendicare alcun diritto. In definitiva Madison riconosceva nella libertà di agire la vera forma di felicità.

Perciò lo Stato può contribuire alla realizzazione della felicità individuale, fornendo le risorse giuridiche, finanziarie ed istituzionali che consentano o rendano più agevole il raggiungimento di questo obiettivo da parte dei singoli, così come non deve porre in essere norme o provvedimenti che precludano, senza ragione giustificatrice, il compimento della felicità individuale, ma non può e non deve determinare in che cosa debba consistere, in concreto, la felicità individuale e come conseguirla. Non è suo compito. Lo è, invece, investire sulla qualità di vita di tutte le componenti della popolazione: esercizio dei diritti civili, giustizia sociale, parità delle opportunità, consistenza e qualità delle relazioni tra le persone. Parlare di felicità, infatti, significa parlare di bisogni materiali e immateriali da soddisfare o almeno di una progettazione sociale che promuova la massima diminuzione

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dell’infelicità. E torniamo a Eco: “Felicità e quotidianità e vivere nel tempo e nello spazio dell’oggi e del qui e ora”.

Ma noi ci siamo chiesti, inizialmente, come accostare la parola “felicità” alla parola “diritto”.

Ebbene, diritto vuol dire relazione.

L’idea che la felicità possa essere solo quella personale, di ciascun essere umano, perseguita solo per i propri fini, senza pensare e senza preoccuparsi di quella degli altri, se non addirittura ricercata a scapito di quella degli altri, appare fuorviante ed erronea.

Se diamo valore agli altri, lo diamo a noi stessi, e questo reciproco riconoscimento, questo incontro, questa “relazione” è ciò che ci dà veramente pienezza e che appaga ogni nostro bisogno ed esigenza.

Il riconoscere questo vincolo solidale ci completa e ci consente di raggiungere quella felicità individuale che porta alla felicità collettiva di cui parlava Filangieri, indicandola come “scopo delle leggi e dei governi”.

Che è, in definitiva, anche la riflessione della Arendt quando parlava di “felicità pubblica” come esperienza soggettiva e intersoggettiva legata all’esercizio della libertà politica.

Una felicità, dunque, che non assume solo i connotati di un diritto ma anche quelli di un dovere verso noi stessi e verso gli altri.

Ma se non possiamo sapere, com’è ovvio, quanti esseri umani sono felici, possiamo conoscere quali paesi, quali stati nel mondo posseggono o mirano a possedere quella “felicità collettiva”?

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La risposta è sì. C’è Il Word Happiness Report.

È un’indagine eseguita ogni anno con l’obiettivo di stilare una classifica dei 156 paesi presi in esame, sulla base della felicità dei propri cittadini, analizzando e contestualizzando scientificamente 6 parametri ben precisi: reddito, speranza di vita in buona salute, sostegno sociale, libertà, fiducia e generosità dei propri abitanti.

Bene.

Al centro dell’Europa c’è una nazione che non manca mai di essere tra le prime posizioni di questa classifica: la Danimarca.

Volendo cercare di capire: un governo stabile con un bassissimo tasso di corruzione, sanità e istruzione di altissima qualità, tasse molto alte, ma con servizi di prim’ordine, e un equilibrio più sano tra lavoro e tempo libero, il Work Life Balance.

Certo, scorrendo gli occhi su queste caratteristiche e rapportandole all’Italia, si è portati a pensare, con dolorosa rassegnazione, che una vera felicità collettiva forse noi non la raggiungeremo mai e che l’unica felicità possibile da ottenere è solo quella individuale, in un modo o nell’altro.

Se ci va bene.

Però un dubbio è legittimo: e se è proprio perché la pensiamo in questo modo, perché siamo rassegnati e viviamo senza pretendere e controllare che lo Stato agisca che non riusciamo a raggiungere quella benedetta felicità collettiva?

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