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Il latte

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Il latte ci voleva, a casa nostra: il latte e il pane. Non ricordo problemi per il pane, che compravamo a credito (mio padre lavorava, ma solo di tanto in tanto la ditta poteva dargli i soldi che gli doveva). Per comprare il latte si andava dalla latara. Bisognava andarci presto, con le bottiglie: finché non c’era molta gente si poteva aspettare sul muretto, poi fare la fila e attendere.

La fila di due o tre persone affiancate a volte finiva oltre la confinante macelleria e si aspettava. Si aspettava l’arrivo della lattaia, che apriva la porta. I primi entravano facendo la fila a destra, lungo la vetrina, il muro, il bancone; poi si aspettava che arrivasse il latte.

Arrivava un camioncino, prendevano alcuni bidoni (zare) e li portavano dentro. Qualche manovra per versare il latte nel bidone fornito di rubinetto che veniva posto sul bancone e poi cominciava la vendita: la lattaia riempiva di latte il misurino (¼, ½, 1 litro) e lo versava con l’imbuto

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nella bottiglia del cliente, si pagava con AMlire quadrate e avanti un altro.

Spesso capitava che il latte finiva, ma la coda no: molti rimanevano senza, noi non potevamo permettercelo* e facevamo le lunghe attese. Ma anche così poteva capitare di rimanere senza latte. Soluzione: latte in polvere o latte condensato. Così mi avviavo verso Levà degli Angeli per comprare l’uno o l’altro, mai che ce ne fosse una scorta in casa.

Il latte condensato era dolce, appiccicoso e si poteva mangiarlo usando un dito o un cucchiaio; il latte in polvere mangiato così si ingrumava in bocca, allungato con l’acqua sapeva più di acqua che di latte, il latte fresco si doveva bollire. Quando cominciò a essere più abbondante, pastorizzato, venduto in bottiglie di vetro dalla larga bocca tappata con l’alluminio (vuoto a rendere) e la lattaia averne per tutti, in casa non arrivava mai tutto quello comprato: due buchetti sull’ alluminio e succhiavo camminando. Camminavo piano, ma abitavo molto vicino.

(*) A fine guerra noi bimbi avevamo 11, 9, 7 e meno di 1 anno, ovviamente non c’era frigorifero e il latte andava sempre bollito.

La vaca mora

Proprio sotto casa passava la vaca mora. Così erano detti la locomotiva nera e fumosa e il treno delle ferrovie locali che da Vicenza andava a “Recoaro, Arzignano, Chiampo (a Montecchio si cambia)”, “Marostica-Bassano” (la prendevamo per andare dai nonni: capitava di dover

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scendere per permetterle di superare un cavalcavia), “Noventa, Montagnana“.

Quest'ultima linea andava dalla stazione a Porta Monte passando per S. Croce, S. Bortolo, S. Lucia, Porta Padova e Viale Margherita: un cerchio quasi completo attorno alla città, all'esterno delle antiche mura con fermata ad ogni loro Porta. Quando arrivava la casa tremava e si dovevano chiudere le finestre per non riempirci di fumo. Sferragliava e fischiava; anche il capotreno fischiava, perché davanti casa c’era la fermata.

Fino a Porta Padova il binario era sul lato destro della strada, ma lì passava a sinistra tagliando in diagonale il crocevia. I più fortunati allora avevano la bicicletta, ma quasi tutti in famiglia ne avevano almeno una e la usavano a turno. Andando da Porta Monte a S. Bortolo, in Viale Margherita le rotaie erano a destra e subito dopo l’incrocio a sinistra: i ciclisti nell’incrocio dovevano sterzare a destra e tagliare le doppie rotaie per non infilare una ruota in mezzo e cadere. Erano tutti esperti, quasi nessuno cadeva e quelli che cadevano più che farsi male facevano una figuraccia.

Nonostante il fumo il rumore e le doppie rotaie lazzarone, la vaca mora – locomotiva e vagoni – mi era simpatica e utile: vedevo un sacco di gente alla fermata, salivo sui respingenti dell’ultimo vagone per un passaggio fino al non lontano ricreatorio, i finestrini aperti erano bersagli dei cartacei proiettili (pìro·e) della cerbottana, sulle rotaie facevo schiacciare barattoli o altri contenitori quasi sempre vuoti. Più birichinate che cattiverie.

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