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Vita rusticana
from Tempo lontano
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rinchiudevano nei loro bozzoli dorati: calava il silenzio in granaio e cominciava il ciacoℓare delle zie in cucina, intente a bollire i bozzoli e a trarne la seta. Qualcuno ci veniva lasciato, ne usciva la farfalla. Le arelle tornavano sul soppalco.
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Altri ricordi mi fanno dubitare d’avere sempre dormito nella stanza al pianterreno. Oltre la porta del granaio c’era il sacco con le ciope de pan biscoto, il pane biscottato a lunga conservazione: ricordo che ne prendevo e, scendendo al mattino, con quello rubavo un po’ della panna formatasi sopra il latte nel bacile (piana) che la nonna metteva alla sera sul davanzale della finestra a tramontana, a metà scala, per fare burro. La finestra a tramontana era il frigo di mia nonna e il burro lo faceva sbattendo la panna in un fiasco spagliato.
Frutta e verdura si prendevano nell’orto, quand’era la stagione. Cominciava presto la giornata: governare la stalla, mungere le vacche, raccogliere uova e verdure, preparare il mangiare. Si andava nei campi a volte in bicicletta, più spesso sul carro a quattro ruote tirato dall’asino, al passo o al piccolo trotto. Anche a far pasquetta si andava così, tranquillamente.
Invece quanto correva el mu§eto (l’asinello) sotto un cielo nero, minacciante acqua e grandine, per portare al sicuro un carico di fieno! Il nonno aveva lavorato uno o due giorni di falce e poi, per alcuni giorni, tutti con forche e rastrelli per spargerlo al mattino e riunirlo in marèi alla sera. C'era il sole, il fieno doveva essere bello asciutto, pronto per essere messo nel fienile, dopo la siesta. E arriva quel tempaccio; il nonno attacca l’asino al carro e di corsa ai
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campi (1 o 1,5 Km da casa) e tutti, in bicicletta o sul carro andiamo là per raccoglierlo velocemente, prendere fiato guardando il cielo e riprendere ancora più alacremente a metterlo sul carro, sempre più in alto, forcata dopo forcata: è tutto, altissimo, legato, bloccato sotto una lunga pertica.
Svelto sul carro, sopra il fieno, col nonno: “iii” e l’asino parte, corre il poverino, schiocca la frusta, lo colpisce e corre, guardiamo il cielo, forse ce la farà, arriviamo, il cancello è aperto, c’infiliamo nel portico. “Ooo”, l’asino si ferma, il fieno è salvo, fuori inizia il diluvio.
Anche i nonni materni abitavano in quel paese, nella piazza, un 300 metri dagli altri ed io ero spesso da loro, nipote preferito o quasi. Tre cugini doppi (figli di sorella di mio padre e fratello di mia madre) avevano gli stessi nostri nonni, zii e cinque cugini, che si adeguavano considerando
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loro parenti anche quelli che erano solo nostri.Pianta approssimativa della casa dei nonni paterni
El seciaro
Nell’angolo nord-ovest della casa dei nonni paterni, nel sottoscala, c’era il seciaro, una vasca di pietra di grande superficie e piccola profondità sopra la quale erano appesi quattro secchi e la ca§a, il mestolo dalla tazza capace e quasi cilindrica.
Seci e ca§a (secchi e mestolo) erano di rame: l’acqua presa e bevuta direttamente con la ca§a era fresca e di sapore speciale. L’acqua veniva messa nei seci direttamente dalla pompa a mano e i seci portati nel seciaro. La pompa era nell’angolo SE della casa, nel portico. Praticamente nell'angolo opposto al seciaro, piuttosto lontana ma sempre a pianterreno. I nonni materni invece avevano il seciaro al primo piano e la pompa al pianterreno: bisognava portare i secchi pieni d’acqua per una rampa di scale. In tutti i casi arrivati al seciaro bisognava sollevare i pesanti secchi per appenderli agli appositi ganci in alto sopra la vasca di pietra.
Anche a casa mia c’era el seciaro, in tutto simile a quelli dei nonni tranne che non c’erano i secchi pieni d’acqua ma il rubinetto dell’acqua corrente, ovviamente solo fredda (ma d’estate non lo era abbastanza). A destra del seciaro c'era la sgio§arola, un piano inclinato dello stesso materiale sul quale, dopo averle lavate, si mettevano le stoviglie in modo che l'acqua della sgocciolatura finisse nella grande bassa vasca.
Sopra seciaro e sgio§arola c'era una lunga mensola,
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sulla mensola c'erano sempre dei capaci vasi di vetro, contenitori per cipolline e peperoncini sotto aceto. Nella giusta stagione noi fratelli aiutavamo la mamma a sbucciare le cipolline e a mondare i peperoncini. La famiglia era numerosa (7 persone), i vasi erano tanti e grandi (4~5 litri) e grande era la quantità di cipolline o peperoncini. Non ricordo confetture, marmellate o altre verdure. Ma peperoncini e cipolline non mancavano mai. Quando a carnevale mi rimpinzavo di grusto·i o frito·e immancabilmente finivo col smorbarmi la bocca con sio·ete o, preferibilmente, pevaroni. La casa in città era vecchia e non aveva le comodità moderne ma a differenza di quella dei nonni aveva acqua corrente e il cesso non in cortile.
Di rame era anche il caliero (paiolo) appeso alla catena sul focolare. Vi si cuoceva la polenta, rimestandola per lungo tempo con la mescoℓa di legno, badando che non facesse i munari (grumi) e non prendesse el brusto·in (sapore di bruciato). Una volta cotta veniva subito versate sul panaro, il grande tagliere circolare con annodato un tratto di gaveta (spago sottile) per affettarla.
Di ottone erano invece i bossoli di proiettili d’artiglieria, decorati e non, usati a ornamento del focolare o come soprammobili, vasi da fiori, fermaporte e altro. Ne avevano in tutte le case, ricordo della Grande Guerra. Tutto quello che era di rame o di ottone veniva lucidato col soldame (pomice); i pavimenti (portico compreso) lavati con acqua, varechina, segatura; si broava su (si lavavano le stoviglie) nel seciaro e per la biancheria si faceva la broa , acqua bollente e cenere, la li§ia; per certe pulizie si adoperava con grande attenzione anche l’oio fumante