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moraro, un gelso dalle tenere foglie che servivano anche a sfamare i voraci rumorosi vermetti sulle arelle stese sopra cavalletti nel granaio, fino a quando, silenziosi, si rinchiudevano nei loro bozzoli dorati: calava il silenzio in granaio e cominciava il ciacoℓare delle zie in cucina, intente a bollire i bozzoli e a trarne la seta. Qualcuno ci veniva lasciato, ne usciva la farfalla. Le arelle tornavano sul soppalco. Altri ricordi mi fanno dubitare d’avere sempre dormito nella stanza al pianterreno. Oltre la porta del granaio c’era il sacco con le ciope de pan biscoto, il pane biscottato a lunga conservazione: ricordo che ne prendevo e, scendendo al mattino, con quello rubavo un po’ della panna formatasi sopra il latte nel bacile (piana) che la nonna metteva alla sera sul davanzale della finestra a tramontana, a metà scala, per fare burro. La finestra a tramontana era il frigo di mia nonna e il burro lo faceva sbattendo la panna in un fiasco spagliato. Frutta e verdura si prendevano nell’orto, quand’era la stagione. Cominciava presto la giornata: governare la stalla, mungere le vacche, raccogliere uova e verdure, preparare il mangiare. Si andava nei campi a volte in bicicletta, più spesso sul carro a quattro ruote tirato dall’asino, al passo o al piccolo trotto. Anche a far pasquetta si andava così, tranquillamente. Invece quanto correva el mu§eto (l’asinello) sotto un cielo nero, minacciante acqua e grandine, per portare al sicuro un carico di fieno! Il nonno aveva lavorato uno o due giorni di falce e poi, per alcuni giorni, tutti con forche e rastrelli per spargerlo al mattino e riunirlo in marèi alla sera.