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Divagazioni

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Scuole

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arrivavo mai alle Casermette, non arrivavo mai al cavalcavia e a Viale della Pace, a Villa Berica, a San Giuliano, al crocevia di Porta Padova. Ma alla fine vi arrivo, giro in Viale Margherita, sono davanti alla porta di casa e sono esausto morto ma non è finita: devo mettermi la bici in spalla e portarla al secondo piano. Suono il campanello, mi aprono (non esisteva citofono), entro, faccio la prima rampa di scale e la seconda, sono al primo piano, prendo fiato, faccio la terza e vedo l’agognato pianerottolo di casa, faccio l’ultima rampa e arrivo davanti alla porta di casa mia, poggio la bici, entro, vado in camera e mi butto sul letto del tutto esausto. Finalmente salvo e affidato alle cure di mamma: una giornata indimenticabile.

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Cren

Riporto da “il Giornale di Vicenza” . “Come il crepitìo degli sci sulla pista ghiacciata o il rumore gracchiante del gesso sulla lavagna. Cren: l’onomatopeico apostrofo acidulo tra le parole “carne” e “lessata” era accompagnamento irrinunciabile di certi secondi, soprattutto degli ossi de màscio o del cotechino. Una sferzata di sgrassante ottimismo iniettata nei solchi pastosi delle pietanze principali.

Ma quanta fatica per arrivare a metterlo in tavola! Tra gli ortaggi di casa non mancavano mai le piante di cren (rafano o barbaforte, secondo l’accezione italiana) e vari erano i modi per coltivarlo. Il più diffuso nel Vicentino era quello di scavare in profondità un solco e di sistemarvi pezzi di radice di circa 5 centimetri; trascorso il tempo necessario, le radici si sviluppavano e, nei mesi con la “r” -

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preferibilmente però tra novembre e febbraio – si levavano, pulivano e grattugiavano. E qui veniva il bello: chi non è più giovanissimo ricorderà i volti sdruciti e rigati di lacrime della mamma o del babbo di turno sul quale ricadeva l’ingrato compito di passare la radice su e giù per la grattugia, dando il la a un persistente stato di agitazione oftalmica.

Terminata, con spreco di fazzoletti e ferme rassicurazioni (“Cosa galo Menego? Ghe xe morto el gato? No, el gà ‘pena finìo de gratare el cren”) la seconda, delicata fase, il cren veniva posto in vasetti di vetro, in compagnia di aceto e sale. Talvolta se ne consumava anche la radice sminuzzata, sempre condita con aceto. Non solo: la medicina popolare lo includeva anche tra i rimedi prêt-àporter per dolori muscolari, sciatica e lombalgie varie.

Che ne è oggi del cren? Sopravvive in piccole produzioni industriali che tuttavia col sapore del prodotto di una volta poco hanno a che fare, mentre sempre più rare sono le coltivazioni artigianali o casalinghe. Un po’ perché i tempi cambiano e anche il cren subisce il declassamento nel reparto antiquariato, un po’ perché soppiantato da parenti che rispondono al nome molto più cool di mostarda, senape o vinaigrette. Ma qualche ristorante di ampie vedute ancora si fila questo saporito accompagnamento il cui nome, diffuso in tutte le Tre Venezie, giunge nel nostro vocabolario attraverso il germanico Kren, termine a sua volta derivato dal ceco (probabile patria d’origine anche della pianta).

Lontano dalle dolci acidità della mostarda, dalla cremosa quanto aspra texture della senape e diverso

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nello spirito dalla transalpina sofisticatezza della vinaigrette, il cren rivendica la sua ruvida autonomia di genuino prodotto della terra e come tale andrebbe riscoperto. Pochi sono ancora disposti a piangere per lui, ma nel suo piccolo è un pezzo della nostra storia contadina: perché dimenticarlo?”

Di solito ero io a usare la grataroℓa, la grattugia. Lo grattugiavo poco prima di pranzo, davanti alla finestra aperta (così non lacrimavo, se non un poco), lo mettevo nel vasetto, lo coprivo d’aceto e nel giro di mezz’ora era in tavola, terribilmente piccante. A me piaceva così, col lesso; se c’era la polenta ne attutiva la potenza, ma capitava anche che ne prendessi più del necessario .. e lacrimando giravo attorno alla tavola finché finiva di becare , di pungere, di irritare: era magnifico.

Merano

Non è che ricordi molto dell’altra per me memorabile impresa ciclistica, ma cerco di ricordare. Devo essere partito di mattina presto se fu quella volta che arrivato all’inizio della Valdastico avevo freddo ai piedi. Molto freddo ed ebbi la pensata di prendere non so dove del fieno e con quello foderare le scarpe. E deve essere stata quella volta che un camionista impietosito mi ha dato un passaggio per un tratto di strada. Poi Passo della Fricca e giù a Trento, da Trento a Bolzano e da Bolzano a Merano.

Probabilmente ero stanco ma non ricordo di avere sofferto per la stanchezza, probabilmente il pur lungo viaggio l’avevo fatto senza fretta impiegandoci il tempo che per me ci voleva, con la mia bicicletta sportiva con cambio

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a tre ingranaggi. Non so nemmeno in base a quale informazioni ho saputo arrivare dove volevo. Ovviamente non avevo il telefonino con me, ma forse nemmeno il telefono a casa. Un indirizzo penso me l’avesse dato mia madre, ma nessun appuntamento o preavviso. So che sapevo di dovere andare a Merano, Maia Bassa. E lì sono andato, ho trovato la casa dove abitavano due compaesani dei miei genitori, lui amico di mio padre e lei amica di mia madre.

Ricordo benissimo che mi pareva di essere a casa mia: la targhetta sulla porta era uguale, stesso cognome e nome di mio padre. Non ricordo se quell’amico era in casa o se ho dovuto aspettare che tornasse dal lavoro, so solo che l’ho trovato, mi sono presentato e m’ha accolto generosamente in casa sua. Mi pareva normale, in nome dell’antica amicizia paterna, ma a pensarci ora mi sembra piuttosto eccezionale. La moglie non c’era, era andata non so dove per qualche impegno che non so. Ma probabilmente anche lei mi avrebbe accolto in nome dell’amicizia materna. Forse oggi non sarebbe più così. Lui doveva andare al lavoro e io dovevo fare i miei giri in bici, così ci si vedeva solo alla sera a cena. Magari non era una gran cena, ma c’era una gran fame e ottimi pomidoro dell’orto accompagnati da formaggio, carne in scatola e altro compatibile con l’assenza della padrona di casa. E poi dormivo magnificamente.

E da quella casa di Maia Bassa/Untermais partivo e in quella ritornavo. Ricordo tre giri nei “dintorni”, un giorno di riposo e il ritorno a Vicenza.

Primo obiettivo Passo dello Stelvio. Avevo una vaga

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