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arrivavo mai alle Casermette, non arrivavo mai al cavalcavia e a Viale della Pace, a Villa Berica, a San Giuliano, al crocevia di Porta Padova. Ma alla fine vi arrivo, giro in Viale Margherita, sono davanti alla porta di casa e sono esausto morto ma non è finita: devo mettermi la bici in spalla e portarla al secondo piano. Suono il campanello, mi aprono (non esisteva citofono), entro, faccio la prima rampa di scale e la seconda, sono al primo piano, prendo fiato, faccio la terza e vedo l’agognato pianerottolo di casa, faccio l’ultima rampa e arrivo davanti alla porta di casa mia, poggio la bici, entro, vado in camera e mi butto sul letto del tutto esausto. Finalmente salvo e affidato alle cure di mamma: una giornata indimenticabile. Cren Riporto da “il Giornale di Vicenza” . “Come il crepitìo degli sci sulla pista ghiacciata o il rumore gracchiante del gesso sulla lavagna. Cren: l’onomatopeico apostrofo acidulo tra le parole “carne” e “lessata” era accompagnamento irrinunciabile di certi secondi, soprattutto degli ossi de màscio o del cotechino. Una sferzata di sgrassante ottimismo iniettata nei solchi pastosi delle pietanze principali. Ma quanta fatica per arrivare a metterlo in tavola! Tra gli ortaggi di casa non mancavano mai le piante di cren (rafano o barbaforte, secondo l’accezione italiana) e vari erano i modi per coltivarlo. Il più diffuso nel Vicentino era quello di scavare in profondità un solco e di sistemarvi pezzi di radice di circa 5 centimetri; trascorso il tempo necessario, le radici si sviluppavano e, nei mesi con la “r” -