23 minute read

Venezia

Next Article
Scuole

Scuole

44

idea delle distanze e delle difficoltà, pensavo fosse a una cinquantina di chilometri. Faceva caldo e io ero vestito di conseguenza: calzoncini corti e camicia leggera con manica corta. Solitamente non avevo né cibo, né borraccia, né borse, né zainetto. A quel tempo nessuno portava lo zaino se non per andare in montagna, di sicuro nessuno a Vicenza. Ma qualche anno dopo a Brunico ho constatato che lo usavano in molti, sicuramente i ragazzi che si servivano anche di slitte d’inverno e carrettini d’estate. È vero che lì è montagna o quasi, ma allora ho pensato che erano molto più pragmatici dei miei concittadini che solo molto più tardi hanno adottato quel pratico uso.

Advertisement

Mangiavo quando tornavo e bevevo alle fontanelle. Penso che anche quella volta fosse così. Dopo qualche ora ho visto che ero a una cinquantina di chilometri da Merano ma non avevo ancora iniziato a salire. La meta era più lontano di quanto pensassi, ma sullo Stelvio volevo andare. Comincia la salita e la strada sterrata. Se ben ricordo la stavano asfaltando allora, un po’ alla volta, non velocemente come succede oggi. Continuo a salire e comincio a patire freddo. Un freddo davvero insopportabile, non ricordo la stanchezza che pur non doveva essere poca ma ricordo il freddo. Arrivato ad un tornante dove c’era una sorta di bar mi sono fermato, ho comprato una bandierina souvenir a testimonianza della mia impresa, ho inforcato la bici, cambiato direzione e giù fino a Prato allo Stelvio e avanti fino a Merano senza più patire freddo.

Un altro giorno sono andato nella direzione opposta: non la val Venosta ma la val Passiria, da Merano a Vipiteno passando per Passo Giovo. Allora non sapevo bene quanta

45

strada fosse e non avevo contachilometri sulla bici, si era negli anni ’50. Ma ero giovane e avevo tanta imprudenza o balordaggine e voglia di girare. Così, seguendo le indicazioni, mi avvio verso il Giovo. Ricordo di essermi fermato dopo un po’ di salita per raccogliere fragole. Tutti vedono le fragole perché sono rosse in mezzo al verde io invece le vedo solo per la forma e non ne trovo moltissime. Ma quella volta le ho viste e ne ho mangiate.

Pedalando del mio passo alla fine sono giunto al Passo del Giovo, che ora vedo essere a 2094 m.s.l.. Da lì tutta discesa fino a Vipiteno/Sterzing, nella valle dell’Isarco. Avevo fame e qualche soldo in tasca, sono entrato in un negozio per comprare pane e asiago, il formaggio. Dato che l’acqua scende penso che non ho faticato moltissimo per arrivare a Bolzano ma da lì a Merano non poteva esserci discesa. Scesa la valle dell’Isarco e risalita la valle dell’Adige alla fine sono arrivato a Meran Untermais. Stanco e affamato. E nella casa del generoso Giuseppe P. ho mangiato con appetito e dormito come un sasso. Ora trovo che sono 58 km fino a Vipiteno e altri 100 km il ritorno passando per Bolzano per non rifare il Passo.

Credo sia stato il giorno dopo che ho pensato di fare una giornata di riposo: niente faticosi giri nei “dintorni”, ma riposo a Merano. E così quando il mio anfitrione è andato a lavorare ho preso la bici per una ricognizione del luogo: centro della cittadina, passeggiata d’inverno, passeggiata d’estate, Maia Alta (volevo vedere la zona dove abitava “die alte Suzanne”, l’insegnante di tedesco), ritorno a Maia Bassa. Lì vicino c’era il famoso Ippodromo di Merano e vi sono andato. Poi gironzolavo per la zona, un po’ in bici e un

46

po’ camminando.

Probabilmente per la strada fatta nei giorni precedenti e il caldo sentivo un grande non so che nelle gambe. So solo che per avere un po’ di sollievo ebbi una geniale idea: lungo il bordo della strada fra le case scorreva nel fosso un’invitante limpida acqua. Un refrigerio, pensai, e misi i piedi nella fresca acqua. Per essere fresca era fredda davvero e come le immersi sentii nelle gambe un lancinante dolore.

Capii allora di avere fatto una grandissima fesseria: stetti zitto e feci una faccia sorridente temendo che qualcuno vedendomi quasi lacrimante avrebbe pensato quanto ero stato stupido. E me ne stetti lì seduto in terra, apparentemente tranquillo fino a che finalmente il dolore divenne più sopportabile. Di quei giorni la giornata di “riposo” è stato il giorno peggiore, quello per me più doloroso.

Il giorno dopo avevo un’altra meta: il passo delle Palade. Un piccolo Passo a soli 1518 m.s.l.m. partendo dai 325 di Merano. Ricordo quel giro come il meno faticoso: dalle Palade alla Mendola (1352 m slm), una lunghissima piacevole discesa fino a Bolzano (262 m slm) per finire con la trentina di km verso Merano (325 m slm), forse quelli più faticosi.

Poi il ritorno a casa: tutta la Valsugana e nella valle del Brenta fino a Bassano. La strada era più tortuosa di come l’ho vista anni dopo ma complessivamente piuttosto pianeggiante, considerato che seguiva il corso del Brenta, tendente a scendere. Molto probabilmente poi mi sono fermato a Sandrigo, dai nonni materni, come spesso facevo

47

ma alla fine sono arrivato a Vicenza (39 m slm). Forse ero stanco ma sicuramente soddisfatto.

Pensandoci adesso, credo che mia madre non sia stata molto felice per questa mia avventura, ma che sia stata in apprensione durante tutti quei giorni. Non ricordo se l'ho lasciata senza mie notizie per tutto il tempo. Allora mi meravigliavo se la sentivo urlare dallo spavento vedendomi seduto sul davanzale della finestra al 2° piano con la schiena contro uno stipite e i piedi contro l’altro come abitualmente facevo. Magari non ero mato patoco ma strambo forse sì.

Il ricreatorio

Di giorno era sicuramente molto di più il tempo che passavo al Ricreatorio di quello che passavo in casa. Per qualche tempo è stato troppo, se alle quattro del mattino mi dovevo alzare dal letto per studiare un po’, non avendo trovato il tempo di farlo il giorno prima. Ma normalmente, se non era tempo di vacanza, un po’ di tempo per studiare lo trovavo anche di giorno, senza esagerare. Il restante o ero sulla mureta (muretto) o al Ricreatorio.

La mureta si trovava appena finito il primo caseggiato a sinistra di Via Legione Gallieno ed era la parte terminale del muro di sostegno del cortile di Ico No*******, qualche metro sottostante. Dalla parte della strada era quasi davanti al cortile di Adriano As******. e l’altezza era giusta per sedercisi sopra. Era il punto di ritrovo di quattro o cinque amici abitanti non lontano dal crocevia tra Porta Padova, Corso Padova, Viale Margherita e Via Legione Gallieno. Un tempo tra la mureta e la strada passavano le rotaie della linea per Noventa. Nelle mappe trovo Contra' Porta Padova

48

fino all’incrocio e Corso Porta Padova dopo: per me il tutto era Porta Padova.

Per molti anni in quell’incrocio le rotaie della vacamora (il treno delle Ferrovie Tramvie Vicentine) passavano da destra in Via Legione Gallieno a sinistra in Viale Margheri-ta ed erano il terrore dei ciclisti che dovevano andare dall’una all’altra strada. Ovviamente nell’attraversare la strada le rotaie erano “doppie” e se non si tagliavano correttamente c’era il rischio d’infilarvi la ruota e cadere. A quel tempo molti andavano in bicicletta, ma tutti sapevano come comportarsi e non ricordo d’avere visto cadute.

Nel primo pomeriggio (o anche al mattino se eravamo in vacanza) restavamo seduti sulla mureta a chiacchierare, giocare con le carte da briscola e con le figurine. Quando era l’ora che aprivano il Ricreatorio, normalmente si lasciava la mureta e proseguendo per via Legione Gallieno si arrivava in Via San Domenico. Per tutto il breve percorso (nei primi anni lungo le rotaie) si vedeva a sinistra, al di là dei campi, la Scuola “Giacomo Zanella”.

E al Ricreatorio ci si ricreava. Arrivava il don pro tempore, apriva la porta del cinema e poi il portone del cortile dove solitamente si giocava a calcio. Io non amavo quel gioco ma ricordo che il terreno era terra battuta dove era bello e sassi dov’era brutto. Nessuno si sognava di farvi esultanti scivolate quando segnava goal.

Le squadre erano a formazione variabile, dipendeva da quanti volevano giocare. Le porte erano sotto i tabelloni dei canestri, approssimativamente segnate, senza pali né traversa: una dalla parte della sala cinematografica e una

49

dalla parte della scuola Zanella. Dalla parte del cinema per quanto alto si tirasse il pallone tornava sempre in campo. Dall’altra parte poteva superare il muro e finire tra scuola e ricreatorio. Qualche volenteroso doveva allora salire sul muro, scendere dall’altra parte in una pericolosa e selvatica terra di nessuno, trovare e recuperare il pallone, rinviarlo in campo.

Entrando, il lato sinistro del campetto era delimitato dal nuovo fabbricato e quello destro da una fila di alberelli oltre la quale d'estate si facevano giochi da tavolo. Sul lato sinistro il pallone non “usciva” mai, si faceva rimbalzare sul muro e si proseguiva l’azione. Dall’altra parte qualche volta poteva esserci rimessa laterale, se si concordava. E su quel campetto capitava di vedere giocare anche giovanotti come Mirko Pavinato e Gigi Menti che fino a mezz’ora prima si allenavano sul campo del Vicenza.

Non ricordo bene cosa ci fosse sul lato sinistro prima della costruzione del nuovo edificio. Forse un’immobile con un portico al centro e dei locali usati anche per le domenicali lezioni di catechismo. E sì: alla domenica si andava alla messa del fanciullo alle 10 e poi a “dottrina”. Una lunga fila di ragazzi dalla chiesa di San Pietro percorreva Stradella San Pietro, attraversava Contra' Porta Padova, girava per Contra' San Domenico e arrivava al Ricreatorio dove c’erano i locali per “la dottrina”. Ma non solo lì: sono stato “a dottrina” anche nell’Oratorio dei Boccalotti e nell’orfanotrofio di Via San Domenico.

Alla domenica mattina messa e catechismo, al pomeriggio sante funzioni e cinema. Nei giorni festivi si andava al ricreatorio di mattino per il catechismo e al

50

pomeriggio per il cinema a poco prezzo, tutti i giorni per giocare.

Sempre in quel cortile c’erano le settimanali riunioni e esercitazioni dei lupetti, sotto la Guida di Akela, un tipo piuttosto logorroico, uno dei figli del caxo·in (pizzicagnolo) di inizio Corso Padova. Non so molto di quelle riunioni perché, contrariamente ai miei fratelli minori e sorella, non sono mai stato scout. Però facevano gran scena.

Nel campetto si giocava talvolta anche a pallacanestro ma non praticavo né questo sport né calcio. Però al coperto c’erano uno o due tavoli da ping pong: le racchette (spato·e) erano fornite dalla parrocchia, le palline no e quando si rompevano (capitava abbastanza spesso) si dovevano comprare. I più fortunati avevano spatole personali ricoperte di gomma, gli altri si accontentavano di quelle in semplice compensato.

A me piaceva giocare a ping pong, ma c’era la regola che chi vinceva continuava a giocare e ad affrontare nuovi sfidanti. I meno bravi dovevano solo sperare che non ci fossero molti giocatori e che non ci fossero i più bravi. Nell’attesa si poteva giocare a calcio balilla o a biliardino, ma valeva la stessa regola. Spesso dovevo attendere, ma non sempre.

Quando eravamo in molti ad aspettare di giocare a ping-pong una buona soluzione era di giocare in coppia per accontentarne di più e dimezzare i tempi d’attesa. Ma solitamente c’era anche la consuetudine che giocando singolo si andava agli 11 punti e in coppia ai 21, annullando il vantaggio nei tempi . Se si era in pochi si poteva andare ai 21 anche nel singolo.

51

C’era anche un biliardo regolare, nella stanza a destra prima della sala cinematografica, ma non mi ricordo fosse molto usato. In quella stanza c’era anche lo schermo che il giovedì sera veniva portato nella sala del cinema per far vedere Lascia o Raddoppia a un pubblico numeroso: quasi nessuno aveva la tv in casa.

Se non si voleva o non si poteva giocare altro c’erano sempre la scacchiera per giocare a dama o trea (tria), le carte venete per partite a briscola, tressette, ecc. e anche quelle francesi per altri giochi. D’estate, quando faceva troppo caldo per i giochi di movimento, ho passato ore all’ombra degli alberelli a giocare a canasta, gioco che non finiva mai e che non ricordo più com’era. Si giocava anche a poker puntando figurine.

Come se non fosse tanto il tempo che vi passavo a giocare, al ricreatorio andavo anche per “lavorare”, fare volontariato per la parrocchia: vendere i biglietti del cinema, compilare il borderò per la SIAE, vendere granatine d’estate. Tra la sala del cinema e i gabinetti c’era una stanza con porta che dava sul campetto che d’estate diventava cinema all’aperto. Affacciati a quella porta si vendevano granatine agli spettatori. Prima però bisognava rifornirsi del ghiaccio: un parallelepipedo di ghiaccio di circa 30x30x100 centimetri. Lo si andava a comprare a Porta Monte, lo si avvolgeva in panni per evitare che si sciogliesse e lo si portava al Ricreatorio usando un carrettino a due ruote trainato con la bicicletta. Con una specie di pialla da quel pezzo di ghiaccio si ricavava il ghiaccio minuto, lo si metteva nel bicchiere e si aggiungeva lo sciroppo per dargli gusto. Di sicuro c’era menta e

52

granatina ma forse anche altri gusti. Non c'erano bicchieri di carta e cucchiaini di plastica ma non ricordo come avveniva il riciclo. Settimanalmente nella sala al primo piano c’erano le adunanze degli “aspiranti” e anche in quell’ambito collaboravo in vari modi.

I cavalieri

Chi sa più cosa sono i cavalieri. Un tempo erano in tutte le case di campagna. In tutte quelle che avevano un gelso. E tutte avevano un gelso. Il gelso non serviva per avere le more per fare marmellata. Anche per quello, ma sopratutto per dare da mangiare ai cavalieri, ai bachi da seta. Non ricordo la stagione, ma penso a primavera quando il gelso aveva le foglie, mio nonno mi mandava in farmacia a comprare non so quante once di semensa de cavaliere, piccolissimi ovetti dai quali sarebbero nati i bachi. Su nel granaio aveva già messo le arelle con sopra una strato di foglie di gelso e sopra queste metteva con cura le semense che avevo comprato.

All’inizio in granaio c’era un gran silenzio e nessun movimento, Dopo qualche giorno c’era invece un gran brusio, una specie di chiacchierio a bassa voce e le arelle erano coperte da piccoli vermetti che giravano la testa e mangiavano le foglie di gelso. Si aggiungevano altre foglie e quelli continuavano a mangiarsele e a diventare sempre più grossi. Ancora qualche tempo e i vermetti un po’ alla volta sparivano dentro il bozzolo che si facevano attorno.

Bisognava che finissero di farlo, ma non si doveva aspettare troppo altrimenti il baco faceva un buco e veniva fuori una farfalla. E se il bozzolo era bucato non serviva più

53

per quello cui doveva servire. Posso anche sbagliarmi, ma penso fosse proprio così. E i bozzoli belli gialli servivano a fare la seta.

Le mie zie andavano su in granaio, portavano giù tutti i bozzoli, li buttavano nell’acqua bollente. Così il bruco moriva e si poteva filare la seta. Qualche bozzolo non lo mettevano a bollire, lo davano a noi bambini perché vedessimo uscire la farfalla. Due o tre ciascuno. Non ricordo bene, ma mi pare che da alcuni bozzoli nel catino si tirasse su il filo con un qualche macchinario. Non so cosa si facesse quando uno o più bozzoli non avevano più filo e il bruco morto restava nel catino e nemmeno cosa si facesse dopo. Ma ci saranno molti che sanno o ricordano più di me.

Canpo de Nane

Ma qualcuno si ricorda di com’era il Canpo de Nane? Forse non c’è nessuno che l’ha visto com’era, al massimo ne avrà sentito parlare da qualcuno più vecchio. Parlo del Canpo de Nane prima che facessero nei pressi case e strade, quand’era quasi la fine del mio mondo: terra selvaggia appena oltre Borgo Casale. Ci si passava davanti per andare allo Stadio o a Monte Berico o sugli argini di Retrone e Bacchiglione. Magari si passava davanti anche per andare al macello o all’asilo (vicino, non dentro) e da lì in qualsiasi altro posto. Ma solo per fare una camminata: di solito per andare in centro si prendeva Porta Padova e su. Anche per andare a scuola in Piarda Fanton non si passava davanti perché c’era il ponte sul Bacchiglione appena dopo Campo de Nane ma quello sul Retrone era solo in fondo a Porta Monte.

54

Al Canpo de Nane andavamo per giocare. Terreno pericoloso era, pieno di buche, sassi, spighe di graminacee selvatiche, ru§e e ru§ari (rovi), barbadochi (bardane, lappole). Prendevamo i barbadochi e ne facevamo una palla, ce la tiravamo contro. Prendevamo le spighe, le infilavamo sotto il polsino della maglia affinché muovendoci salissero fino alla spalla.

Non ho mai saputo se Nane (Giovanni) era il nome di un antico padrone del campo o si diceva Nane così per dire, come Pici del can de Pici, un campo di nessuno. Noi si andava per giocare e si giocavano i giochi di una volta: rincorrersi, nascondino e non so che altri e nessuno si lamentava se gridavamo. E nemmeno che rompessimo i calzoni si potevano lamentare: qualche graffio sui ginocchi o sulle gambe, una crosta per pochi giorni e poi più niente. Non avevamo calzoni lunghi.

Per andare al Ricreatorio, dall’altra parte, c’era un pezzettino di terreno come il Campo de Nane, prima di arrivare a Via San Domenico. Aveva buche, sassi, spighe, rovi, bardane ma era piccolissimo, solo pochi passi giù e su. Tutti e due erano a sinistra, arrivando da casa, al di là delle rotaie del treno locale, quando c'erano.

La discesa

La sgaruia non l’avevo sentita nominare a Vicenza: forse la chiamavamo slitta, forse non si usava perché le strade restavano poco tempo innevate o ghiacciate. Restavano però poco trafficate e così si usava el carete·o a cusineti a sfera (il carrettino con i cuscinetti a sfera).

Si costruiva con un’asse e due travetti di legno, tre o

55

quattro cuscinetti a sfera, un bullone con relative rondelle e dadi, un pezzo di spago. Materiale che non ricordo come ci procuravamo. I cuscinetti a sfera si inserivano ai lati dei travetti, un travetto con chiodi o viti si fissava trasversale alla tavola dietro, usando il bullone l’altro s’imperniava davanti e alle sue estremità si fissava lo spago per guidarlo: un carrettino alto mezza spanna, largo due e lungo il doppio. Con 4 cuscinetti mi pare sia il modo più semplice per fare un carrettino. In realtà quelli che si usavano credo fossero un po più sofisticati. Al centro del travetto anteriore si faceva un incavo. Si diminuiva così lo spessore dove poi passava il bullone che faceva da perno e si aveva lo spazio per il terzo cuscinetto, infilato su un pezzo di legno che veniva fissato al travetto. Il carrettino risultava così con due cuscinetti laterali posteriori e uno centrale sul travetto di guida.

Con un veicolo del genere una volta mi è venuta la grande idea di scendere da Monte Berico. Così, col carete·o sotto braccio, io e un amico siamo saliti alla Basilica della Madonna, passando per i 192 gradini de·e sca·ete de Monte (la scalinata per Monte Berico) .

Abbiamo posizionato il veicolo sulla strada e ci siamo sistemati per scendere, io davanti a guidare e lui dietro in piedi. Appena partiti il carete·o ha cominciato a prendere velocità ed io a spaventarmi: non saremmo stati capaci di rallentare e magari al Cristo anche tirando dritto saremmo giunti alle scalette e finiti in fondo a Porta Monte. Per evitare questo possibile disastro, spaventatissimo mi sono spostato a destra sul margine sterrato della discesa. Geniale idea, solo che fuori dall’asfalto il carete·o si è bloccato di

56

colpo: per me nessun problema, ma l’amico che era dietro in piedi mi ha sorvolato ed è finito malamente a terra. Niente di grave, per fortuna.

Io non ricordo chi era né se era con me per sua o mia richiesta, ma credo che lui sicuramente si sarà ricordato di quel volo maledicendomi. Col carete·o sottobraccio siamo tornati a casa. Non sono stato più tentato di riprovare l’esperienza ma magari qualcuno più bravo e coraggioso di me è riuscito nell’impresa. ——–Con 4 cuscinetti mi pare sia il modo più semplice per fare un carrettino. In realtà quelli che si usavano credo fossero un po più sofisticati. Al centro del travetto anteriore si faceva un incavo. Si diminuiva così lo spessore dove poi passva il bullone che faceva da perno e si aveva lo spazio per il terzo cuscinetto, infilato su un pezzo di legno che veniva fissato al travetto. Il carrettino risultava così con due cuscinetti laterali posteriori e uno centrale sul travetto di guida. .

Ricordi

Chi si ricorda di quando sulle banconote era scritto Lire e in Veneto leggevamo Franchi?

Chi si ricorda di quando per le strade di Vicenza gli uomini di colore erano solo militari USA ed erano chiaramente detti negri?

Chi si ricorda di quando ASL o ASSL o USL o altro era “La Mutua”?

Chi si ricorda di quando i non vedenti erano ciechi, i non udenti sordi, i non parlanti muti e magari i non

57

intelligenti stupidi?

Chi si ricorda di quando si parlava in dialetto e ci si capiva benissimo o si parlava in italiano e ci si capiva lo stesso?

Chi si ricorda di quando lockdown era confinamento e le parole inglesi usate erano rare e pronunciate come erano scritte?

Chi si ricorda di quando si pregava in latino (magari maccheronico) ma nessuno se era scritto Jesus avrebbe letto Gisas o plas se era scritto plus?

Chi si ricorda di quando c’era la naja?

Chi si ricorda di quando passava la “Mille Miglia” con le vetture numerate con l’ora di partenza da Brescia?

Chi si ricorda di quando ci si tappava in casa per paura di Pippo e non di Covid-19?

Acqua

Magari era solo una mia impressione, ma nell’alto vicentino non c’era carenza d’acqua. Non ci sono grossi fiumi: escluso il Brenta che diventa presto padovano, le sponde degli altri fiumi non distano tra loro più di un tiro di sasso, compresi Bacchiglione e Retrone nonostante l’accrescitivo del nome.

Nel paese dei miei nonni tutte le case avevano una pompa a mano per tirar su l’acqua da falde non molto profonde. Dicevano che era acqua de l’Astego (Astico) che in pianura era sì piuttosto largo ma quasi sempre asciutto. Lo si guadava verso Montecchio Precalcino e Lupiola, rispettivamente a monte e a valle del ponte per Vicenza. Quel ponte era stato distrutto verso la fine della guerra e per qualche tempo anche li si passava sul greto del torrente.

58

L'Astico era quasi sempre senza acqua, ma quella che aveva più a monte in qualche posto doveva pur essere finita ed era quella che usciva dalle pompe a mano. Poi c’erano fossi con acqua e marsoni un po’ dovunque e qualche corso d'acqua era detto Asteghe·o, piccolo Astico. A circa metà strada verso Vicenza ricordo un grosso tubo metallico dal quale usciva abbondante acqua freschissima e d’estate lì c’era una me·onara.

Abbondante acqua usciva anche dalla fontana al centro di Lupia, tra Astico e Tesina. D’altronde è zona di risorgive e un po’ ovunque c’erano fontanelle. A proposito di acqua si citava un detto: “Valdagno, Recoaro e Schio orinal de Dio”, per dire che in quei posti pioveva sempre o quasi. Non so di Schio, ma forse un motivo ci sarà se l’acqua del Bacchiglione proviene anche da quelle parti. So però che a Valdagno quasi ogni giorno a mezzogiorno arrivava un temporale. Dicevano che veniva dal Garda, impiegando giusto il tempo per essere a Valdagno quando la gente usciva dalle fabbriche per la pausa pranzo. E se arrivava a Valdagno probabilmente arrivava anche a Recoaro e sui suoi monti.

Oltre a quei tre posti per me avevano relazione con l’acqua anche i nomi di altri due: Tonezza (VI) ho sempre pensato avesse a che fare con i tuoni e Lavarone (TN) con slavaiare (piovere a dirotto). E dove ci sono tuoni o slavaia solitamente c’è pioggia e tanta acqua.

Radici

Di ciascuno di noi conoscevamo padre e madre, i loro genitori, i loro fratelli e i figli di questi per tutti noi fratelli i

59

parenti erano gli stessi, come si usava a quel tempo. Incontravamo i cugini in casa nostra o loro, ma più spesso in quelle dei nonni comuni, che erano state anche dei genitori e di zii e zie. Fra noi c'era chi preferiva i nonni con orto e animali, chi quelli nella piazza del paese; le loro case per noi non avevano segreti, erano casa nostra. In quel piccolo paese c’erano – vivi o morti – i nonni e le zie nubili di tutti noi cugini, conoscevamo i parenti dei nonni, gli amici dei genitori e alcuni loro parenti; di tutti sapevamo nome e soprannome e perfino anche il cognome ed essi ci conoscevano.

Noi cugini e le nostre famiglie vivevamo un po’ sparpagliati ma non molto lontano e per noi tutti in quel piccolo paese erano le nostre radici, quelle più profonde. Ma c’erano radici più recenti e non meno importanti nella città dov’ero nato e vivevo. Conoscevo compagni di scuola e di gioco – miei o dei miei fratelli – e di molti anche i genitori; da anni si frequentava la stessa chiesa, lo stesso ricreatorio, lo stesso bar; si affondavano le nostre radici, se non nello stesso paese, nella stessa cultura, nella stessa storia, nella stessa lingua, più o meno negli stessi valori; si parlava con e delle stesse persone nello stesso dialetto, ci si capiva al volo quasi con tutti. Parlare italiano era un’eccezione che finiva ben presto: qualche raro figlio unico che non aveva avuto modo d’imparare dai fratelli la lingua comune, prima dell’età scolare.

Si conoscevano tutti gli abitanti del fabbricato, ci si incontrava sulle scale o nel cortile, si parlava da un piano all’altro, giovani e vecchi. Di giorno nessuno chiudeva la porta a chiave e non mancava mai niente: si bussava e si

60

entrava, da quelli di sopra o da quelli di sotto. Foresti non ce n’erano e se capitavano non gli si era ostili, ma diffidenti sì: bisognava prima conoscerli e poi erano come tutti gli altri.

Magari si spettegolava, si tajava tabari, si malignava ma si conviveva, si aiutava, talvolta di controvoglia ma senza darlo a vedere perché – non si sa mai – domani si poteva necessitare d’aiuto. Violare le "regole" comuni comportava subirne le conseguenze, sradicarsi dalla comunità: quasi nessuno lo voleva e pochi le violavano.

Oggi non conosco nemmeno l’inquilino della porta accanto, nessuno usa le scale, talvolta ci si trova nell’ascensore – che non fa fermate intermedie – e più di buon giorno/buona sera non si dice. Sono tutti foresti e qualcuno lo è di più, perché non solo non si sa chi lui sia ma nemmeno come sia la sua gente, se le nostre regole siano da essa condivise, se quello che per i nostri nonni e padri era l’immancabile eccezione lo era anche per i suoi antenati. E talvolta sappiamo che non lo era.

Si diceva un tempo "ragazzo di buona famiglia": poteva essere uno scavezzacollo, ma la famiglia in qualche modo garantiva la qualità del prodotto; non in modo assoluto, ma si poteva sperare che la buona pianta desse buoni frutti, che però potevano marcire.

Ora sempre più spesso i fratelli non hanno gli stessi genitori, né gli stessi nonni, zii o cugini; non hanno le stesse radici, la stessa origine culturale. Ancor più chi viene da altri paesi può sentirsi e volere restare estraneo dove vive: senza radici, tradizioni, regole, doveri, lingua comuni.

E fin da piccoli ci insegnano a non fidarsi degli

This article is from: