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La vaca mora
from Tempo lontano
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doio e camera nostra, di noi maschietti più giovani. Un lato del cortile quadrato coincideva con i primi tre vani. Dall'altra parte al corridoio corrispondeva il vano scale. Entrati dalla strada, subito a destra la porta della Cal**** (poi del signor Mi****) e a sinistra la porta della signora Bo*** e la prima rampa delle scale a destra di essa, sotto la seconda rampa un corridoio andava dalla porta sulla strada diritto alla porta sul cortile: con entrambe le porte aperte potevamo soffiare con la cerbottana i nostri proiettili di carta (piro·e) contro la vaca mora ed eclissarci immediatamente.
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Le finestre delle camere erano di normale grandezza, con gli scuri che scorrevano su rotaia dentro il muro. Quelle di cucina e corridoio erano molto grandi, ognuna munita di avvolgibile di stecche di legno che si srotolava allungando la corda di sostegno; barre di ferro sagomato reggevano all’esterno fili per stendere e tavole di legno con sopra innumerevoli vasi di fiori: tanti gerani, tanti colori , tante qualità, primo e ultimo pensiero della giornata materna.
Al centro del cortile una piccola aiuola rotonda con una bassa palma; piccoli orticelli di guerra occupavano qualche metro dal muro su tre lati. Sul lato Sud-Ovest, all’ombra del fabbricato confinante, c’era solo una piccola pianta dalla bianche tenere bacche. Da quella parte un po’ del nostro orto per qualche tempo divenne recinto per poche galline.
Il terreno non coltivato del cortile era coperto di ghiaia e lì giocavamo. Da lì chiamavamo ripetutamente a gran voce “mama” fino a quando lei non si affacciava fra i gerani al secondo piano. Poteva essere per un fazzoletto, un
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gioco, una protesta, una lamentela, la merenda. Altre volte era lei a chiamarci per la merenda, quasi sempre volevamo fosse pan, buro e sucaro e che ci venisse gettata per non interrompere i giochi: ci arrivava bene avvolta nella carta.
A Nord-Est un muro, alto meno di due metri e scalabile, ci separava dal grande ciliegio e dall’altro cortile senza bimbi e senza orti, un nobile giardino. La mia finestra era sopra quel cortile. Non avevo perso il vizio di sfidare la sorte e gli urli materni sedendomi sul davanzale, con la schiena poggiata a uno stipite e i piedi contro l’altro: ora mi tremano le gambe solo a pensarci. A Sud-Est un muro alto come l’altro ci divideva da un grande orto, ma non ci impediva di beneficiare dell’alloro e di alberi fruttiferi posti sul confine. Gli orticelli di guerra finirono con essa: prima divennero giardini fioriti e poi sparirono del tutto.
Ora che eravamo più grandicelli spesso venivano amici dei dintorni, spesso alcuni inquilini (specialmente la siora Cal****) protestavano per la nostra esuberanza, spesso andavamo nel cortile di amici vicini dove poteva succedere la stessa cosa. Tra di noi si usava quasi sempre il cognome, con qualcuno il nome, parlando di amici nome e cognome. No******* (Ico) aveva un lunga corte: cominciava dalle cantine di un alto palazzo affacciato su Porta Padova, passava sotto le basse case sopra i garage e al successivo muretto (mureta) affacciati su Via Legione Gallieno, salendo fino al cancello quasi sempre aperto.
Tante volte ci si sedeva sulla mureta, all’ombra delle case d’estate o al sole d’inverno. As****** (Adriano) aveva la corte al di là della strada, poco prima, ma era inutilizzabile: vi lavorava il maniscalco ed era ingombra di