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Un altro mondo
from Tempo lontano
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necessitava abilità ed esperienza togliendo o mettendo piastre, posando i tegami al centro o ai margini per regolare la temperatura ed evitare che il cibo ciapa§e el brustolin, sapesse di bruciato.
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La stua era un bidone con sotto uno sportello e sopra cerchi di ferro come quelli della cucina economica: si toglievano i cerchi e si estraeva un bidone leggermente più piccolo. Sopra era aperto e sotto aveva un buco in centro: si metteva nel buco al centro un palo (la mescoℓa, il lungo mattarello usato per tirare la sfoglia) e si riempiva di segatura, pressandola con i piedi tutta attorno al palo che doveva rimanere in centro. Una volta ben pressata la segatura, si rimetteva il bidone dentro dov’era prima e si toglieva il palo lasciando un foro al centro. Il bidone interno poggiava su mattoni e il portello su quello esterno permetteva di mettere un fuoco sotto, la fiamma saliva lungo il foro e la segatura attorno bruciava. Faceva un bel caldo e durava piuttosto a lungo. Man mano che bruciava il buco diventava sempre più grande e il calore più forte, ma non si poteva regolare se non un poco agendo sulla manetta che regolava l’apertura del canon de‘a stua, il canale da fumo che collegava la stufa al camino. Era allora che si apriva la porta della stanza contigua, così il caldo diveniva tollerabile in cucina e il freddo accettabile nell’altra stanza. L’operazione di caricamento della stufa era piuttosto lungo e solitamente si faceva una volta al giorno, non di primo mattino, e a volte prima che bruciasse tutta la segatura vi si aggiungeva un pezzo di caxata.
Le caxate erano vinacce pressate, quello che restava dopo la spremitura dell’uva nel torchio e dopo averne
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ricavato la grappa: scuri dischi di circa due spanne di diametro e 5 cm di spessore, se ben ricordo. Bruciavano meravigliosamente con fiamma costante, tutto il contrario della segatura dalle fiammate esagerate.
Al culmine della sua attività la stufa era caldissima, bisognava starne alla larga. L’ultimo dei miei fratelli era molto piccolo allora e mentre mia madre si preparava per sostituire il pannolino appena tolto lui girava per la casa col sederino scoperto: si avvicinò alla stufa, si girò, si piegò per raccogliere non so cosa e cominciò ad urlare e mia madre ad agitarsi, a controllare l’effetto del caloroso contatto, a mandarci di corsa alla vicina farmacia: fu quella volta che scopersi la Vegetallumina.
Venezia
Mio padre mi aveva promesso che se fossi stato promosso mi avrebbe comprato la bicicletta ed ero stato promosso. Davanti casa nostra vendevano biciclette e mi conoscevano: prima di andare a casa passai per quel negozio, scelsi la bicicletta, la presi e andai a dirlo a mio padre. Era una Dei, col cambio a tre velocità … e costava più di uno o forse due mesi di paga: mio padre si congratulò per la promozione, la bici l’avrebbe pagata a rate.
Così facevo giri in bici, secondo le mie possibilità che non erano gran che: non ero veloce ma testardo sì e con pazienza andavo qua e là, quasi sempre da solo. Andavo dai nonni abbastanza spesso, una quindicina di Km andare e altrettanti tornare: tutti in piano tranne un cavalcavia (quello dove ci avevano fatti scendere dalla vacamora perché lo superasse) e un ponte. Ogni tanto – negli anni - qualche
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giro più impegnativo: Padova, Asiago, Lavarone, Arcugnano, Montebelluna, Valsugana e altri.
L’impresa più memorabile è stata andare da Vicenza a Merano, presentarmi a casa di un omonimo e amico di gioventù di mio padre che molto gentilmente mi ha ospitato quantunque fossi arrivato senza preavviso, avesse la moglie (amica di gioventù di mia madre) impegnata non so più dove e lui dovesse ogni giorno recarsi al lavoro. Vi sono rimasto quasi una settimana: un giorno da lì sono salito verso lo Stelvio (gran caldo a Merano, calzoncini e camicia leggera, inizia la salita, strada sterrata, sale la quota: ad un certo punto non ce la faccio più per il freddo e giro la bici), un altro giorno su a Passo Giovo, giù a Vipiteno e poi Bolzano, un altro Passo delle Palade e Bolzano, un altro in giro per Merano e alla fine ritorno a Vicenza: ero andato per il Passo della Fricca, tornavo per la Valsugana. A pensarci ora fu poco meno di una pazzia.
Ma quello che ancora ricordo per la sofferenza è la mia prima visita a Venezia, quando avevo da poco la bici. Non è lontana da Vicenza, pensavo: una trentina di Km e sono a Padova, più o meno altrettanti e sono a Venezia. Semplicissimo.
Allora non c’erano contachilometri elettronici, non avevo idea della mia velocità di crociera, non sapevo quanta strada potevo fare e in quanto tempo: un’occhiata alla carta stradale di mio padre, un calcolo approssimativo della distanza e considerato che i corridori ciclisti facevano molta più strada in tempi ragionevoli ho pensato che se per loro era facilissimo per me non doveva essere impossibile.
Salito in bici e via, calzoncini corti e maglietta di tutti i
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giorni, cento lire in tasca. Arrivo a Venezia nel tempo che mi è voluto e comincio a girare per la città, in bici (non sapevo che fosse vietato). Forse non siamo in molti ad averlo fatto, escludendo i ciclisti che vi sono giunti in un giro d’Italia. Dopo avere girato un bel po’ per Venezia penso sia ora di tornare a casa. Ovviamente non sapevo quale strada avevo fatto e non avevo cartina, così un po’ a naso prendevo una via, poi un’altra e poi mi trovavo davanti un canale: frenata, dietro front e di nuovo strada, stradina, canale. Finalmente mi decido di chiedere a qualcuno la via per andare a Padova, per tornare a Vicenza: e mi dicono che devo andare a Piazzale Roma, passare il ponte e seguire le indicazioni. Piazzale Roma! Avevo visto diverse indicazioni per Piazzale Roma, ma non sapevo che fosse quello dove finiva il ponte dalla terraferma! Fatta la scoperta, sempre in bici sul piano e con la bici in spalla sui ponti, seguendo le indicazioni sono arrivato a Piazzale Roma, al ponte, alla terraferma, alla strada per Padova (e per Vicenza).
Non avevo mangiato nulla, avevo bevuto acqua alle fontanelle, non avevo borraccia: poco prima di Padova ero sfinito, avevo 100 lire, sapevo che un Mottarello ne costava 80, comprai il gelato e mi restavano 20 lire. Fu l’unica fonte energetica della giornata e mancavano parecchi km a Vicenza. Soffrendo non poco giunsi a Torri di Quartesolo che era buio, ma ormai – pensavo – sono arrivato, ancora pochi Km e sono a casa. Dal ponte sul Tesina a casa mia sono davvero pochi Km, forse 6: sono stati i chilometri più faticosi della mia vita ciclistica. Non arrivavo mai alla Stanga, andavo lentissimo, faticavo moltissimo, non