RITRATTI Collana
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Massimo Iondini
DICE CHE ERA UN BELL’UOMO… Il genio di Dalla e Pallottino
Prefazione di Pupi Avati Introduzione di Gianni Morandi
MINERVA
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INDICE
Prefazione di Pupi Avati............................................. 11 Introduzione di Gianni Morandi................................ 15 Paola e Lucio.............................................................. 25 Orfeo Bianco.............................................................. 35 Africa......................................................................... 45 Gesubambino (4/3/1943)........................................... 61 Il gigante e la bambina............................................... 99 Un uomo come me.................................................. 113 Il bambino di fumo.................................................. 121 Convento di pianura................................................ 129 Anna Bellanna.......................................................... 139 La ragazza e l’eremita................................................ 147 Io, Tobia, quel padre che Lucio non ebbe................. 157 La gara è fra chi sa e vuol raccontare......................... 171
PREFAZIONE
L’
ho detto più volte, ma giova ricordarlo per chi non lo sapesse ancora, e qui in queste pagine dopo aver letto il libro dedicato alla collaborazione artistica tra Dalla e Paola Pallottino: Lucio è stato la causa principale del mio “fallimento musicale”. Il confronto con quel “mostro” di bravura che è stato, ha portato alla mia irrevocabile decisione di chiudere anzitempo con la musica. Ma un momento, la mia storia con Lucio è cominciata tanti anni prima di quel “trauma” mai sanato. La prima volta che l’ho visto era un bambino di 8 anni ed era già una stella delle sale parrocchiali di Bologna, dove si esibiva sul palcoscenico. Saliva su elegantissimo, vestito con un frac e si accompagnava con una piccola fisarmonica. Non ci crederete, ma Lucio Dalla era un bambino bellissimo, che sapeva cantare, recitare, ballare e suonare benissimo. Era uno di quei bambini prodigio del cinema americano, uno Shirley Temple al maschile. 11
Poi lo persi di vista per anni… Lo rividi molto dopo quando ero entrato fisso nella mitica Rheno Jazz Band. Una formazione talmente affermata che a volte, per divertimento, andavamo ad ascoltare quelle “bande” di ragazzini che ci facevano il verso provando a imitarci. In una di queste c’era Lucio che, come me, suonava il clarinetto. Ma la cosa che mi colpì nel rivederlo, non era per come suonava – allora a dire il vero con una certa approssimazione –, ma il suo incredibile cambiamento fisico: non era più quel bel bambino di un tempo, non era cresciuto in altezza ed era piuttosto grassottello. Insomma da cigno si era trasformato in un brutto anatroccolo. Quando il nostro capo orchestra, per simpatia o per chissà quale ragione, lo ingaggiò per entrare nella nostra band, la cosa non mi preoccupò affatto. Il jazz, si sa, è molto competitivo, ogni jam-session è come un incontro di boxe in cui nessuno ci sta a perdere, e io in quel momento mi sentivo un peso massimo rispetto a quel nanerottolo sgraziato. Potevo mandarlo ko quando volevo. Partimmo per la tournée con due clarinetti, il mio e il suo, che era diligente e rispettoso nel suo ruolo di “secondo”. Poi, improvvisamente, a Francoforte, le cose cambiarono, e per me in peggio. Lucio fece il suo primo assolo e in un attimo ho provato i brividi gelidi del pericolo mortale, impossibile da evitare. Lo rifece ancora, quell’assolo, e fu ancora più bravo. Il bello era che ogni sera Lucio migliorava sempre più. Piccolo com’era, suscitava simpatia in tutti, sapeva ingraziarsi il pubblico da artista consumato, così che alla fine di ogni concerto poteva bearsi del suo successo personale. In me montava un’invidia pari a quella che deve aver provato 12
Salieri al cospetto del genio di Mozart. Lo ammetto: sì, io sono invidioso per natura, soprattutto nei confronti di quelli che fanno cose grandi e migliori delle mie. E Lucio con il clarinetto faceva cose che io non sapevo e non avrei mai saputo fare. Gli veniva naturale, come ad ogni talento che si rispetti: senza aver studiato, avendo ascoltato pochi dischi jazz rispetto al sottoscritto e suonando uno strumento di qualità nettamente inferiore al mio. La fine, per me, e il grande inizio per Dalla, fu quando una sera al Whisky a Go Go venne ad ascoltarci Gino Paoli, che era già una star. Gino si sedette in fondo al locale e, tra una sigaretta e l’altra, seguì con molta attenzione il concerto. Noi alla fine eravamo eccitatissimi e quando avanzò verso il palco per venirci a salutare… Rivedo quella scena come se fosse ora. Paoli si avvicina e va diretto verso Lucio, per congratularsi per come aveva suonato ma, soprattutto, per come aveva cantato lo scat. Lo avrebbe portato a Roma (a suonare con i Flippers di Edoardo Vianello) e lui stesso avrebbe prodotto il suo primo disco. La notizia che Lucio Dalla si buttava nella musica pop e lasciava il jazz avrei potuto leggerla come la mia salvezza. Ma io il mio match contro di lui l’avevo perso e non mi restava che il ritiro, dal jazz. Per questo l’ho odiato per anni, pur seguendolo a distanza e informandomi sui suoi successi e gli insuccessi, che ci sono stati. Qui, nel libro di Massimo Iondini, ritrovo quella stagione ancora incerta ma molto creativa con Paola Pallottino, che non ho mai avuto la fortuna di conoscere. Lucio si è servito al meglio della Pallottino, ci sono dei testi poetici straordinari all’interno della loro collaborazione. E poi, insieme, hanno creato il 13
suo primo capolavoro, 4/3/1943. Anche se all’epoca il mio snobismo jazzistico non lo salutò affatto come un capolavoro… io la grandezza di Lucio l’ho capita molto dopo. È stato quando feci per la Rai il programma Hamburger Serenade dalla discoteca Bandiera Gialla di Rimini. Nei provini arrivavano cantanti che eseguivano L’anno che verrà e, riascoltando più volte quel testo e quella musica, mi resi conto che Lucio si meritava tutto il successo che aveva avuto. Lo chiamai per dirglielo e gli chiesi scusa per averlo invidiato e odiato per così tanti anni. Tornammo ad essere amici e, infatti, le due ultime colonne sonore le compose per i miei due film Gli amici del bar Margherita e Il cuore grande delle ragazze. Non dimenticherò mai il giorno della sua morte. Stavo girando la serie tv Un matrimonio quando ricevo la telefonata che mi annuncia: «Hai visto Lucio? È morto». Rimango per un attimo senza fiato, smarrito. Mi ridesto quando sento che i cellulari di tutta la troupe trillano simultaneamente perché anche loro ricevono la notizia. Mi affaccio alla finestra e vedo che le macchine che passano per via Veneto, di colpo, rallentano. Qualcuno si ferma e c’è gente che scende e commenta: «Oh, è morto Lucio Dalla». È stato un momento di incredibile dolore collettivo, come avevo provato già il giorno dell’attentato a Kennedy, il giorno della strage alla stazione di Bologna e l’11 settembre per le Torri Gemelle. E questo dà l’esatta percezione del valore profondo che ha avuto Lucio Dalla nella nostra vita… A cominciare dalla mia.
Pupi Avati 14
INTRODUZIONE
A
ll’inizio andavo davvero a cento all’ora, fin dalla partenza della mia carriera. Proprio come diceva la canzone d’esordio, in quel lontano 1962. Due anni dopo esordiva come cantante anche Lucio Dalla, che aveva un anno più di me e veniva dal jazz. Noi due bolognesi ci eravamo trovati per la prima volta insieme a un Cantagiro, nel 1964. Lucio, scoperto e prodotto da Gino Paoli, debuttava con Lei (non è per me), il suo primo 45 giri, la cover di un brano soul-blues americano. Era arrivato quasi ultimo nel girone B, mentre io ero primo nel girone A con In ginocchio da te. Eravamo già molto amici. Ogni giorno aveva qualcosa da farsi prestare, una volta non sapeva cosa mettersi e gli avevo dato una mia camicia. Poi non sapeva mai come presentarsi al pubblico. Durante una tappa aveva deciso di tagliarsi la barba e non sembrava più lui. Aveva metà 15
faccia bianca e metà nera perché eravamo in estate ed era abbronzato. Scriveva tante canzoni, ma non riusciva a sfondare. Quando buttava giù qualcosa me lo faceva ascoltare e la sua prima canzone cantata da me è stata Occhi di ragazza, nel 1970. Al mio produttore, Franco Migliacci, però non piaceva: diceva che era troppo popolare e che sembrava uno stornello. Invece quella canzone era solare e autentica, bellissima. È nel mio repertorio da cinquant’anni ed è una delle più amate. Io, allora, ero al culmine del successo, Lucio invece arrancava, ma aveva la stima di tutto l’ambiente. I discografici e la critica sapevano riconoscere il suo talento. Aveva delle intuizioni musicali straordinarie, ma era troppo avanti per il pubblico. Anche per quel modo di cantare troppo originale, che gli derivava dal jazz. Lucio era anzitutto un grande musicista e io gli invidiavo questa sua straordinaria capacità di suonare. Poi, come capita spesso nella vita, le cose si sono capovolte. Nei primi anni Settanta aveva cominciato a circolare un’aria nuova: i gruppi e la musica internazionale, i cantautori, la canzone impegnata. Io, però, tutto questo non lo stavo capendo. Mi sono poi reso conto che quello che facevamo noi cantanti in voga negli anni Sessanta non era più in sintonia con i tempi che stavano cambiando. Anche Lucio era fuori tempo all’inizio, ma lui era in anticipo e, in ogni caso, era un talento a sé, trasversale, al di là dei generi. Poi finalmente fece l’incontro giusto, con una signora che illustrava libri per bambini e scriveva originalissimi testi. E proprio con un testo di Paola Pallottino fece 16
centro, a Sanremo. Lui nel 1971 esplodeva e io, invece, cominciavo il mio declino. Sembravamo in altalena, io e Lucio. Mentre saliva lui, scendevo io. Poi però Lucio ha un po’ allungato i tempi del successo. Non si decideva a fare il passo che doveva fare. Ennio Melis, il grande capo della Rca, glielo continuava a dire. Ma lui, per tutta risposta, si mise a fare tre dischi con Roberto Roversi prima di capire e decidersi ad abbracciare il suo vero destino: fare tutto da solo. Era come se non volesse mai credere in sé stesso fino in fondo. Ma è chiaro che delle esperienze con Paola Pallottino e Roberto Roversi ha fatto immensamente tesoro. Quando Lucio spicca il volo nel ’77, e nell’80 diventa il numero uno, io sono ormai quasi sparito nel nulla, sono finito nel dimenticatoio discografico e dei programmi della televisione. I nostri destini si erano completamente rivoltati. Ma non avevamo mai perso i contatti, i nostri rapporti non si erano mai interrotti. Io mi ero messo a studiare contrabbasso al conservatorio e Lucio continuava a dirmi che dovevo rimettermi in pista. Era sempre pronto a difendere gli amici. Facemmo anche un tentativo al Festival di Sanremo del 1980 con la canzone Mariù, scritta con Ron e De Gregori, ma non erano i tempi giusti per me. Io, di fatto, ho avuto due carriere diverse: una dal 1962 al 1971-72 e l’altra dall’81-82 in poi. Quegli otto anni in totale silenzio sono stati, comunque, una fortuna, perché sono cresciuto, ho riflettuto e ho reimparato a cantare al conservatorio con una insegnante di canto corale che con Bach e tutti i grandi della musica mi ha aperto un nuovo mondo. 17
Sotto la cenere covava però il mio ritorno. E ci è voluto proprio un pezzo come Uno su mille nell’85 per poter ripartire. Poi, due anni dopo, sono tornato a Sanremo con Ruggeri e Tozzi ed è arrivata la definitiva svolta. Ad aspettarmi non poteva che esserci Lucio, che mi disse: «Ecco, è arrivato il momento di fare una cosa insieme». Quel tour meraviglioso nell’88-89 resterà sempre una pietra miliare della mia e nostra carriera. Un segno del destino, un nostro ideale “Cantagiro” in cui io non ero primo e lui non era ultimo, né viceversa. E Occhi di ragazza potevamo cantarla insieme. Il nostro sodalizio è durato fino a quando lo obbligai a venire al Festival di Sanremo nel 2012, che io conducevo. Lui però non ne aveva nessuna voglia e si inventò, allora, di fare il direttore di orchestra per la canzone di Pierdavide Carone. Poi ci siamo visti a fine febbraio, allo stadio Dall’Ara, ma non stava molto bene. Il Bologna perse con l’Udinese e Lucio se ne andò via prima della fine, mi disse di andarlo a trovare a una data del tour europeo che stava per cominciare. Mi propose Francoforte, dove avevamo suonato anche nel nostro tour. Arrivò invece quella telefonata di Bibi Ballandi, che la mattina del 1° marzo era appena stato chiamato da Marco Alemanno da Montreux, la patria del suo amato jazz. Lucio nell’ultimo periodo aveva una travolgente inquietudine che lo ha accompagnato fino alla fine. Faceva tutto, non riusciva a dire di no a niente e a nessuno. Sembrava presagire, sembrava voler abbracciare tutto insieme. Forse anche per il fatto di non avere avuto una famiglia 18
propria, una famiglia vera. Come quel Gesubambino senza padre di Paola Pallottino, a cui il destino ha voluto mettere la sua data di nascita. Gianni Morandi
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PAOLA E LUCIO
F
igli della guerra, Paola Pallottino e Lucio Dalla. Infanzie lontane, eppure vicine. Lei a Roma, lui a Bologna. Paola è figlia di un archeologo, il più importante storico dell’antica civiltà etrusca, padre fondatore della moderna Etruscologia. Lucio è figlio di un rappresentante di commercio e di una modista. All’età di sette anni rimane orfano di padre. Paola fa parte di una numerosa famiglia della borghesia romana e casa sua è frequentata da notabili e intellettuali. Lucio è figlio unico. Ma è intriso del dono divino della musica. Gli basta mettere le dita su uno strumento per saperlo subito suonare. Così fa con la fisarmonica a cinque anni e, poco più grande, con il clarinetto regalatogli da uno zio. A tre anni, passando davanti a un caffè concerto, a Bologna, era sfuggito di mano a mamma Iole per correre sul palco, mettersi a cantare una filastrocca e prender25
si i primi applausi della sua vita. Gliel’aveva insegnata suo padre Giuseppe. E quella filastrocca alla fine è stata forse uno dei pochissimi ricordi che Lucio ha avuto di quel babbo «grande cacciatore di quaglie e di fagiani», direttore del tiro a volo di Bologna. Il massimo di cui poter favoleggiare, come ha fatto in Come è profondo il mare. È Paola un giorno, sul finire degli anni Sessanta, a bussare alla porta di Lucio. Fa l’illustratrice di fiabe per bambini, è sposata, ha due figli piccoli e scrive testi. Le avevano appena consigliato di farli leggere a Dalla, dandole il suo numero. Una breve telefonata e qualche giorno dopo era da lui con dei fogli in mano. Lucio, che tutti sanno quando è nato, ha quattro anni in meno di Paola. Tutti e due figli della guerra, appunto. Ed entrambi vittime anche di una lontana e primordiale orfanezza. Una condizione e un sentimento che sotterraneamente li accomuna. Siamo nel 1970. In estate, racconta Lucio. In autunno, puntualizza Paola. In ogni caso, una sottile e inconfessata condivisione di infantili e antichi destini all’improvviso prende forma traducendosi in una delle più famose canzoni italiane di sempre: Gesubambino, che poi diventerà 4/3/1943. Con quel celeberrimo testo, Paola voleva risarcire Lucio della mancanza del padre. Ma alla fine è diventata una canzone sulla madre. E anche un doppio risarcimento. Paola, che aveva un padre importante, viveva quasi una sorta di imbarazzo di fronte a quell’omino piccolo così, barbuto e peloso che non aveva avuto il supporto e il conforto della presenza paterna. Un’assenza di cui Lucio non ha mai 26
desiderato parlare. Un vuoto esistenziale mai colmato, un tabù assoluto. Violato soltanto nelle canzoni, veicolo privilegiato per consegnare a sé e al mondo argomenti e intime vicende altrimenti difficili da affrontare e svelare. «Siamo dèi, figli del sole / invece tu chi sei / tuo padre è stato il dolore», cantava nel 1980. «Cosa fa tuo padre / è morto, non ce l’ho», ribadiva quasi vent’anni dopo nella disperante Born to be alone che chiude l’album Ciao. Nato per essere solo: questo era l’assioma esistenziale di Lucio. Paola, invece, per suo padre ha sempre potuto manifestare una devozione assoluta. Sfociata anche ora, a più di centodieci anni dalla nascita di Massimo Pallottino, nell’allestimento di un accuratissimo sito Internet per ricordarne e celebrarne la statura umana e accademica. Un padre, però, che per la piccola Paola è stato, per otto lunghi e cruciali anni dell’infanzia e della prima adolescenza, anche l’unica figura genitoriale realmente presente. «Sono stata di fatto orfana di madre dall’età di quattro anni fino ai dodici», svela. Una orfanezza per certi versi persino più lacerante, trattandosi di una presenzaassenza. Perché la mamma si era ammalata e la famiglia fu divisa. Nella vita della piccola Paola, in quella nuova immensa casa di tre piani, irrompe imponente la figura della nonna paterna, che prende sempre più il posto della mamma. Al punto che Paola finisce col considerarsi di fatto figlia di nonna Margherita, verso la quale, col tempo, matura una vera e propria venerazione. Cattolicissima e sempre presente, nonna Margherita era il motore di quella nuova organizzazione familiare. In quella casa piena di stanze e colma di libri, accanto 27
al gioco Paola comincia ad affiancare la passione per la lettura. Possedeva un libro di poesie per l’infanzia con la storia di una bambina orfana di madre. Paola continuava a leggerla e rileggerla e a guardarne le illustrazioni. «Quella povera bambina aveva uno spillone e con questo “scavava e scavava, ma la sua mamma non ritrovava”. Ecco, io leggevo quella storia e rivivevo la lontananza da mia madre malata.» Se la precoce Paola si tuffava nella lettura e si immergeva in un mondo di immagini, Lucio acquietava i suoi tormenti affettivi ed esistenziali con la musica. Tra gli amici era un fenomeno, ma con l’adolescenza tutti crescevano di statura e lui no. Se la futura storica dell’arte e dell’illustrazione da giovane studentessa frequentava accademie, assisteva alle lezioni di Mino Maccari, faceva leggere le sue poesie ricevendo i complimenti di Aldo Palazzeschi e coltivava una sfrenata passione per le arti figurative, Lucio saltava senza profitto da una scuola all’altra, collegio compreso, fino a dover rinunciare a qualsiasi futuro pezzo di carta. Padre Pio, da cui sua madre (devotissima) si recava ogni estate quando andava in Puglia a vendere i suoi capi di abbigliamento, gli aveva oltretutto intimato di rinunciare a esibirsi e di stare alla larga dal mondo dello spettacolo. Ma a Lucio non restava che disobbedirgli e darsi ancor più alla sua più grande fonte di consolazione e di gratificazione: il jazz. A Bologna entra nella Rheno Dixieland Jazz Band dove, dopo un po’, scalza il clarinettista Pupi Avati, realizzatosi meglio come regista. Ancora minorenne, Lucio 28
viene arruolato, con il permesso di mamma Iole, nella Second Roman New Orleans Jazz Band. Mentre con il suo clarinetto fa la spola tra Roma e Bologna e suona in jam session con le più grandi star del jazz, Paola vola invece in Tunisia con il consorte Stefano, architetto e figlio dello scrittore Mario Pompei. Nel 1964, il Bologna vince il suo settimo e ultimo scudetto, Paola torna dalla Tunisia, e Lucio, convinto da Gino Paoli ad accantonare il jazz per diventare cantante, pubblica il suo 45 giri di esordio, con il relativo primo flop di una lunga serie. Paola intanto a Bologna fa la mamma, progetta e realizza affascinanti libri circolari e compone testi. Lucio non sa ancora che sarà lui il primo a intercettarli. Ma soprattutto ignora che proprio a uno di quei testi legherà, con la sua data di nascita che ne diventa il titolo, il vero inizio della sua carriera, la consacrazione ufficiale. A Paola, paroliera per caso o forse per destino, Lucio deve la sua grande vittoria morale dopo anni di cocenti sconfitte e umiliazioni che lo avevano più volte portato sul punto di mollare tutto. Non ci sarebbe stata la collaborazione con Roberto Roversi, se Lucio non avesse imparato a calibrare e cesellare la propria musicalità e la propria dirompente vena melodica attraverso la temperatura dei versi potentemente immaginifici e metaforici di Paola Pallottino. E, soprattutto, non ci sarebbe stato l’esplosivo Dalla cantautore senza queste due illuminanti collaborazioni di assoluta e originale qualità artistica e letteraria. Sono state soltanto otto le canzoni pubblicate da Paola e Lucio, da 29
Orfeo bianco (uscita su 45 giri nell’aprile del 1970) a Un uomo come me, da 4/3/1943 a Il gigante e la bambina. Le ultime due, Convento di pianura e Anna Bellanna, sono invece uscite, per così dire, postume. Cioè dopo la repentina interruzione della loro collaborazione, durata alla fine meno di due anni. Tra Paola e Lucio c’è stata una sorta di colpo di fulmine artistico e insieme hanno realizzato l’equivalente di un album. Di questo ideale long playing il pubblico conosce però soltanto otto brani, che andremo a riscoprire a uno a uno in queste pagine, anche attraverso le testimonianze esclusive di chi ha condiviso questo straordinario viaggio artistico. Da Gino Paoli a Renzo Arbore, da Angelo Branduardi a Ron, da Vince Tempera a Maurizio Vandelli, da Maurizio De Angelis al maestro Armando Franceschini, fino a fra’ Bernardo Boschi, il domenicano padre spirituale di Lucio, e a Umberto “Tobia” Righi, per quasi mezzo secolo suo storico collaboratore, uomo di fiducia e factotum. Il nono brano invece, l’anello mancante, viene qui svelato e raccontato per la prima volta in assoluto. Da cinquant’anni è impresso, solitario, sul nastro magnetico di una comune e anonima audiocassetta. Quando Paola portava a Lucio un nuovo testo, erano soliti leggerlo subito insieme. Poi Lucio si lasciava cullare e provocare da quei versi, si sedeva al pianoforte e provando e riprovando cercava di trarne ispirazione. Non tutti i testi che Paola gli ha sottoposto sono stati musicati, ma la maggior parte sì. Tra questi, uno è stato registrato, dimenticato e poi ritrovato. Si intitola La ragazza e l’eremita. Un testo di vibrante drammaticità, poetico e cruento nel contempo. 30
Forse Lucio l’avrebbe voluto utilizzare insieme agli altri testi di Paola, in uno dei loro due album del 1970 e del 1971: Terra di Gaibola e Storie di casa mia. O forse ne avrebbe ricavato un singolo. Nell’ultimo capitolo sveliamo e raccontiamo l’inedito ritrovato, avendo potuto ascoltarlo e riascoltarlo con stupore e gratitudine. Assaporando l’impareggiabile voce di Dalla che si accompagna al pianoforte, in un ispirato ed emozionante provino registrato tra le pareti di casa. A catturarlo con un semplice registratore c’era Paola, in un giorno di mezzo secolo fa in cui le loro due misteriose e lontane orfanezze si univano per diventare una canzone.
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ORFEO BIANCO
Orfeo scende all’inferno: la fabbrica o la banca, Orfeo cerca l’estate sulla tua pelle bianca. La tredicesima ora, l’ora della libertà non c’è orologio ancora che la suonerà… Orfeo non ti voltare, non avere pietà se ti fermi hai già perduto, un amico ti tradirà. La tredicesima ora, l’ora della libertà non c’è orologio ancora che la suonerà… Orfeo scorda il tuo nome e guardati allo specchio fuori la gente canta, dentro il tuo cuore è vecchio. La tredicesima ora, l’ora della libertà non c’è orologio ancora che la suonerà…
N
ei negozi di dischi giace da qualche giorno il nuovo singolo di Lucio Dalla Per fare un uomo basta una ragazza, quando gli si presenta la trentenne illustratrice romana aspirante paroliera, da poco sentita al telefono. A Paola Pallottino il contatto con il promettente, ma ancora inconcludente, cantante bolognese, l’aveva dato l’amico Umberto Santucci, fotografo e critico jazz, ex allievo di suo padre e marito della cantante Gianfranca 35
Montedoro (che avrà poi modo di collaborare con Paola qualche anno dopo). L’incontro tra i due, nella casa atelier di piazza Cavour dove Lucio viveva con la madre Iole, si presenta subito molto cordiale e Dalla non si dimostra affatto perplesso che per la prima volta una donna provasse a entrare nel suo mondo musicale. Oltretutto proponendogli di primo acchito degli insoliti testi e mettendosi di fatto in concorrenza con la sua già collaudata coppia di autori: l’amico di una vita Gianfranco Baldazzi e il direttore artistico della etichetta Arc (costola della Rca), Sergio Bardotti. «Paola Pallottino non aveva mai fatto questo lavoro – ebbe poi a raccontare –, quindi viveva una situazione simile alla mia. Cioè non aveva esperienza. Era la classica ex bambina prodigio, figlia di un grande etruscologo, madre precoce, piena di istinti creativi e narrativi. Mi portava dei testi che all’inizio erano irrealizzabili, però a forza di guardarli e di leggerli fungevano da provocazione». Nel suo atelier la vedova Dalla era la regina assoluta, anche se, come diceva Lucio, non sapeva cucire nemmeno un bottone. Un posto sempre frequentato da signore della Bologna bene che andavano a provare le nuove creazioni, tutte realizzate però dalle sue lavoranti. Un viavai che intrigava moltissimo Lucio e i suoi amici, da Baldazzi ai fratelli Stefano e Giorgio Bonaga e a quel Paolo Bonetti a cui Lucio nel ’68 aveva dedicato il brano scat Cos’è Bonetti?. Per poi evocarlo, nove anni 36
dopo, insieme a zonzo nella Berlino del muro in Disperato erotico stomp. La casa di piazza Cavour era il luogo dove, fin da ragazzini, Lucio e i suoi amici si rintanavano ad ascoltare dischi, a sognare a occhi aperti e a sbirciare le signore e signorine in lingerie. «Cominciai gioco forza a frequentare la madre di Lucio. – racconta Paola – Era una donna certamente molto creativa, ma anche un po’ invadente. E soprattutto molto possessiva nei confronti di quel figlio che considerava prodigioso e che era il suo fine ultimo.» Passano i mesi e, sul finire del ’69, Paola comincia ad andare sempre più assiduamente a casa Dalla. Lucio aveva il vezzo di sparire ogni tanto, abbandonando gli ospiti. Soffriva d’insonnia e di notte spesso stava sveglio per ore, così durante il giorno sentiva l’insopprimibile bisogno di andarsi a coricare. «Si doveva sottostare ai capricci di Lucio, – ricorda Paola – quando si assentava capitava che tornasse a farsi vivo dopo ore. Io, più di una volta, a un certo punto me ne andavo scocciata. Ricordo che ogni tanto la signora Iole per intrattenerci veniva a portarci dei dolcetti ghiacciati al cioccolato che preparava lei stessa.» Paola non aveva ancora piena contezza di cosa significasse fare la paroliera. Vantava però un naturale e spiccato senso della metrica che le permetteva di parlare tranquillamente in endecasillabi o in martelliano. Testi metaforici, i suoi. Visivamente potenti, evocativi, talvolta ermetici o sfumati. Testi spesso abbaglianti e 37
suggestivi come se fossero folgoranti illustrazioni, il suo innato terreno artistico. Testi poetici, memori anche degli apprezzamenti di Aldo Palazzeschi, l’illustre letterato e poeta vicino di casa dei Pallottino in quel grande palazzo romano che il marchese Giuliano Capranica del Grillo aveva regalato alla moglie – l’attrice drammatica Adelaide Ristori – che vi aveva abitato fino al 1906, anno della sua morte. Un giorno Paola lascia davanti alla porta di Palazzeschi un rotolino di carta pieno di poesie e, il 18 aprile del 1955, prima di una sua temporanea assenza, lui manda alla sedicenne aspirante poetessa una toccante lettera. «Gentile Signorina, Le lascio un saluto in fretta e furia prima di partire, giacché il mio inverno romano, di solito abbastanza tranquillo, è stato quest’anno particolarmente laborioso da non lasciarmi un’ora di riposo. Le sue poesie mi hanno fatto buona compagnia, e con un certo stupore data la sua età. Sono una testimonianza così precoce, dalla quale io deduco senz’altro che lei è un’artista. Di questo sono sicuro, anche se, come mi accennò un giorno, i suoi studi la portano su un altro piano. Alla base di ogni arte è la poesia, e da qualunque parte Ella possa in avvenire dirigersi, la poesia sarà ad animare ogni sua attività, non escluso il fatto di divenire una vera e propria poetessa. Non ho bisogno di incoraggiarla a lavorare e a pensare giacché capisco troppo bene che ogni sua aspirazione è rivolta in questo senso, e ogni suo pensiero. La vita degli artisti è dura, travagliatissima, ma è una fatalità alla quale non si sfugge, se questo è il suo destino nulla varrà a farle cambiare strada; fra tanti affanni che l’artista incontra sulla sua via ci sono dei momenti capaci di far38
glieli dimenticare, momenti che possono provare soltanto i Santi e gli eroi. Arrivederci questo autunno, allorquando, magari durante la salita dell’ascensore, mi parlerà del suo lavoro. Voglia presentare i miei devoti saluti al Papà e gradire un pensiero affettuoso da parte del suo vecchio amico. Aldo Palazzeschi.» Sul finire degli anni Sessanta, Lucio stava vivendo uno dei periodi più bui della sua vita e della sua carriera artistica. La Arc, diretta da Sergio Bardotti, che aveva il compito di lanciare nuove “frecce” nel panorama della canzone italiana e di cui Lucio era una delle promesse, era ormai agli sgoccioli. E alla fine del ’69, con una ventina di ultime uscite, chiude i battenti. In quel periodo, Lucio vivacchia, con la pubblicazione di alcuni 45 giri in cui a emergere sono soprattutto le sue straordinarie doti vocali, che raccolgono l’apprezzamento più che altro degli addetti ai lavori e della critica. Su tutti Renzo Arbore, con Gianni Boncompagni in radio alla conduzione di Bandiera gialla e di Per voi giovani. A Lucio il grande pubblico continua invece a girare le spalle. Il beat, che aveva dominato la scena musicale dall’inizio del decennio e a cui Lucio aveva strizzato l’occhio impastandolo con la sua naturale vena soul alla James Brown, sta ormai mostrando la corda. Dalla non sa più a che santo votarsi. Gli insuccessi si susseguono. E, dopo i due Festival di Sanremo del ’66 (con Paff… bum) e del ’67 (con Bisogna saper perdere), nonché l’effimero parziale riscontro nello stesso anno con Il cielo (novantamila copie vendute e il primo premio del39
la critica al romano Festival delle Rose), all’infuriare della contestazione giovanile del ’68 Lucio non batte un colpo. La politica e le istanze giovanili non lo infatuano, anzi lo lasciano a dir poco indifferente. Non crede alle rivoluzioni studentesche e non cede alle lusinghe dei miraggi sovversivi. E poi lui era già stato sovversivo l’anno prima, nel ’67, con i fratelli Taviani, nel terzo film della loro carriera, il primo a firma Paolo e Vittorio dopo i due girati insieme a Valentino Orsini. «Nel film facevo il contestatore – raccontò Lucio –, ma magari i miei guai fossero dipesi dalla politica.» Ambientato nell’agosto del 1964, I sovversivi racconta le vicende di alcuni militanti del Partito comunista italiano che si recano a Roma per partecipare ai funerali di Palmiro Togliatti. Tra questi, il neolaureato in Filosofia Ermanno, ventitreenne irrequieto, anticonformista e contraddittorio, già con un fallito matrimonio alle spalle. Nel ruolo c’è Dalla: un’interpretazione per cui viene persino candidato al Leone d’Oro come migliore attore non protagonista alla Mostra del Cinema di Venezia. Ma non vincerà. Così ebbe a raccontare Paolo Taviani alla giornalista Dina Luce sul settimanale “Gioia” il 17 agosto 1972: «Lucio Dalla è cantante e attore, ma è anche un po’ mago. Riesce a capire i pensieri della gente che vede magari per la prima volta. Per me Dalla resta una faccia, una grande faccia nera e pelosissima, che suggerisce malinconia e tenerezza. Forse Lucio non sapeva recitare, ma era sufficiente la sua apparizione sullo schermo per suscitare emozione». 40
Del resto non è certo il cinema la strada che vuole, nonostante altre apprezzate interpretazioni come nel film drammatico del ’69 Amarsi male di Fernando Di Leo e in alcuni cosiddetti musicarelli: da Altissima pressione di Enzo Trapani e Questo pazzo, pazzo mondo della canzone di Bruno Corbucci e Giovanni Grimaldi entrambi del ’65, fino a Little Rita nel West con Rita Pavone e Terence Hill e I ragazzi di Bandiera gialla del ’67. I problemi di Dalla in quel momento sono altri. Sono personali ed esistenziali e si potrebbero sintetizzare con il titolo di un suo brano dell’anno prima, Lucio dove vai?. «Lucio chi sei tu / un vestito diverso non ti cambierà / Lucio chi sei tu / perché hai coperto col berretto rosso / il grigio che c’è in te.» Superati i severi test d’ingresso a casa Dalla, Paola comincia intanto a entrare sempre più in sintonia con il mondo musicale di Lucio e, dopo alcuni iniziali tentativi, ecco arrivare i primi risultati. Così, ad aprile del 1970, il nuovo decennio del cantante bolognese comincia proprio in coppia con l’unica donna di tutta la sua carriera artistica. E l’apprendista “paroliera” della musica leggera italiana firma la sua prima canzone. S’intitola Orfeo bianco ed esce come lato B del singolo Sylvie, brano tra i più belli del primo Dalla (con il testo dei soliti Bardotti e Baldazzi). Si tratta, tra l’altro, del primo disco di Dalla a essere pubblicato direttamente dalla Rca, dopo la chiusura della Arc diretta da Bardotti. 41
Con questo singolo, che anticipa di due mesi il 33 giri Terra di Gaibola (il secondo della carriera dalliana), Lucio taglia definitivamente i ponti con il decennio precedente in cui aveva sperimentato tutto il possibile: dal jazz al beat, dal soul al pop. Orfeo bianco è dunque l’insospettabile debutto discografico di Paola Pallottino. Un testo il cui titolo colpisce subito per quel richiamo alla mitologia. Anche la musica di Dalla (con gli arrangiamenti di Armando Franceschini) presenta novità e suggestioni, pur mantenendo echi vagamente beat. Il testo è costituito di strofe brevi e incisive che raccontano di un ipotetico Orfeo d’oggi, uomo comune il cui inferno è rappresentato dal quotidiano lavoro da operaio o da impiegato e dall’attesa illusoria e falsamente liberatoria dell’estate. Un’alienante, quotidiana ripetitività che ha come unico effimero obiettivo una marittima oasi di felicità («Orfeo cerca l’estate sulla tua pelle bianca»), mentre il cuore fatalmente è destinato a invecchiare e rinsecchire. Il ritornello irrompe potente invocando invano lo scoccare della tredicesima ora, quella della chimerica libertà. Un’ora che però nessun orologio terreno può contemplare. Ci vuole forse un altro utopistico tempo, al di fuori della moderna società del consumo. Nella parte centrale del brano Dalla scatena vocalmente il suo scat con una suggestiva sovrapposizione di voci che crea un effetto quasi ipnotico, caratteristica dell’intero pezzo. Un piccolo gioiello, perlopiù dimenticato.
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«Nella stesura del testo – spiega Paola – non mi ero realmente ispirata al mito di Orfeo o alla vicenda di Orfeo ed Euridice. Il titolo Orfeo bianco è nato semmai come una sorta di gioco di parole, partendo dal successo che aveva avuto dieci anni prima il film franco-brasiliano Orfeo negro, tratto da una pièce teatrale di Vinícius de Moraes. Un film che mi aveva colpita molto.» La pellicola di Marcel Camus, una trasposizione in chiave moderna del mito di Orfeo attraverso la vicenda di un tranviere di Rio de Janeiro, fece incetta di premi, conquistando la Palma d’Oro al Festival di Cannes nel ’59 e, l’anno dopo, il Golden Globe e l’Oscar come miglior film straniero. Un elemento importante del film furono le canzoni di Antônio Carlos Jobim e Vinícius de Moraes, di Luiz Bonfá e Antônio Maria. Il film fece conoscere ancor più i ritmi del samba e della bossa nova, portando alla ribalta brani diventati grandi classici del genere come Samba de Orfeu, Manha de Carnaval e A Felicidade. Nessuna notorietà, invece, per l’Orfeo bianco di Pallottino e Dalla, ma il trampolino di lancio per un successo che non tarderà molto ad arrivare.
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