Luca Muleo
LUCA MULEO
GIANLUCA DI MEO SENZA SCORCIATOIE Prefazione di Enrico Ghidoni
«C’è un momento esatto in cui ho sentito di morire e subito rinascere. Immagino che nell’arco di una vita accada spesso. A me è capitato molte altre volte. Non me ne sono accorto oppure ci ho fatto caso col tempo. È stata l’avventura a dirmi chi ero, altrimenti non ne sarei uscito fuori. Sì, direi che mi sento proprio così, un avventuriero.»
GIANLUCA DI MEO
Luca Muleo, è calabrese, di Catanzaro, classe ’79; si è laureato in Giurisprudenza a Bologna dove vive dal 1997, e intanto ha iniziato l’attività di giornalista collaborando con il quotidiano “Il Domani di Bologna”. Professionista dal 2008, nel tempo si è occupato di sport e vari aspetti di cronaca diventando redattore nel 2006 di “Epolis”, “Il Bologna” e curando le pagine sportive del quotidiano. Podista amatoriale, appassionato di camminate in montagna, ha collaborato con diverse testate e attualmente si occupa delle cronache giornaliere per il “Corriere di Bologna”, il “Corriere dello Sport - Stadio” e l’emittente televisiva Trc tv per la quale è anche la voce delle telecronache per le partite della Virtus Bologna nelle gare disputate dal club bianconero nel campionato della Serie A italiana di basket. Nel 2019 ha partecipato alla scrittura di Bolognesi in 110 personaggi (+1), volume che celebra i 110 anni di storia del Bologna Football Club.
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MINERVA
Gianluca Di Meo ha vinto nel 2017 Rovaniemi 150, intesi come chilometri, massacrante corsa sulla neve in autosufficienza. Il successo in Lapponia, a casa di Babbo Natale, è arrivato tra aurore boreali e crisi di pianto, gioia e fatica. Dietro al racconto dell’impresa però c’è soprattutto il cammino di un piccolo scalatore di pianura che ha sempre sentito il richiamo della montagna e della natura, ma ci è arrivato solo dopo un percorso di vita e sport accidentato, iniziato nel ciclismo e accompagnato da un rapporto difficile con la famiglia, disturbi alimentari, il rischio di cadere una volta per tutte dentro l’ossessione di diventare un professionista. Il suo è il viaggio di un avventuriero che trova la felicità e può raccontare una storia di corsa diversa: correre non serve a fuggire dai guai; i fantasmi bisogna avere il coraggio di guardarli in faccia. Anche da soli, in esilio con una chitarra sul litorale romano, suonando davanti ai bomboloni di un forno chiuso dopo la scomparsa del proprietario in fuga dalla malavita. Trovando la forza di accettarsi, farsi capire, e non avere paura di fronte all’amore riconosciuto mentre si sale sulle vette più alte del mondo. Cercando nella fatica il senso di tutto. Puntando in alto, fosse anche sul balcone di casa per 100 km. E sempre senza scorciatoie.
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A mia madre.
C’è un solo modo per raggiungere la vetta, le scorciatoie non sono ammesse.
LUCA MULEO
GIANLUCA DI MEO SENZA SCORCIATOIE Prefazione di
Enrico Ghidoni
MINERVA
Indice
Prefazione di Enrico Ghidoni
p. 7
Rovaniemi Arriverà l’aurora Un giorno al Corno La mia strada Dai Tori al Tor Tutti con me Vorrei volare Figlio delle stelle Torneremo a salire
p. 15 p. 21 p. 26 p. 35 p. 47 p. 61 p. 85 p. 91 p. 103
Ringraziamenti
p. 125
Galleria immagini
p. 127
Prefazione di Enrico Ghidoni
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hi affronta tanti chilometri ne ha fatti molti di più dentro di sé. È un’introspezione incredibile che ti porta a rintracciare energie impensabili, altrimenti nascoste nel nostro quotidiano. Io Gianluca lo conoscevo, ma poco. Sapevo cosa aveva fatto, sapevo di Rovaniemi e di quel ghiaccio che mi ricordava lo Yukon, ma non sapevo neanche tutto. Si può dire che siamo amici? Come si fa? È la fatica, la sofferenza, il disagio che ci rende amici, ci avvicina. Siamo stati distanti migliaia di chilometri ma abbiamo provato le stesse cose e adesso sono orgogliosissimo di stare qui accanto a lui, tenere in mano queste pagine e condividerne il viaggio senza fine. Più si vive in difficoltà e più ci si conosce. Se dovessi raccontare la mia storia ci vorrebbero almeno 8 giorni e 21 ore, il tempo in cui ho percorso e vinto la Yukon Arctic. Non mi sarebbe possibile riassumere quello che ho fatto, non potrei lasciar fuori dal racconto neanche un solo minuto perché non ce n’è stato uno inutile. Quando vivi nell’estremo non ce ne sono mai. Ogni azione, giusta o sbagliata che sia, può avere conseguenze enormi, decisive. Se apro la giacca a vento, se tolgo un guantone, se faccio cadere una goccia di sudore che gelando sulla cerniera non mi consente più di aprirla, sto mettendo a rischio
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tutto. Lo so io e lo sa Gianluca. Tra me e lui però c’è una differenza, soprattutto. Ho iniziato tardissimo, a 48 anni ho comprato un paio di scarpe da corsa e di pantaloncini per correre le prime gare. Lui invece ha fatto molto presto, era uno che i numeri li aveva, voleva vivere di quello. La sua sofferenza mi ha impressionato, in quell’esasperazione non so come ci si trovi. Lo Yukon per me è stata una liberazione, ha significato trovare la strada. Provavo il disagio di vivere la normalità, ammesso che ne esista una, ho avuto bisogno di cercare una via svincolata da tutto e senza il condizionamento degli uomini. Là al centro c’è una sola giuria e sta al piano di sopra, non gliene frega niente del portafoglio che hai, di come vuoi apparire tutti i giorni quando vai in ufficio o a fare la spesa. Ci siamo arrivati da indirizzi diversi, ma ora siamo allo stesso punto. Non é una scelta, solo pura esigenza che a molti suona male. Io ho corso assieme ad atleti, dovessi fare mille gare “normali” contro di loro ne perderei mille e una. Chi veniva da un mondo perfetto, addestrato alla perfezione, tra 700 chilometri di ghiaccio si è ritrovato d’improvviso in mezzo alla vita, che perfetta non lo è, anzi. Immaginate la loro frustrazione mentale, nessun piano d’allenamento ti fa essere pronto alla vita. Io che sono storto da sempre, di perfetto non c’è mai stato nulla, ho dovuto trovare l’equilibrio in condizioni disastrose. In Canada come in un incanto anima, corpo e mente hanno iniziato improvvisamente a correre uno vicino all’altro e non saprei esattamente spiegare come e perché sia accaduto. Ho gareggiato con atleti
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da 2h08’ in maratona, io che debuttavo a 53 anni. Dove sarei dovuto andare a nascondermi di fronte a loro? Qual è il segreto? Mi chiedono ossessivamente e me lo chiedo spesso anch’io. La verità è che ho vissuto questa cosa da innamorato. Per Gianluca è stato lo stesso, è andata proprio così. Non ho mai sentito disagio, né sfiorato dall’idea che la natura fosse cattiva. Semplicemente è imparziale, ciò che non avevo nel quotidiano. A centinaia di chilometri da forme di vita organizzate ho potuto esprimermi anche se ero l’ultima ruota del carro. A differenza del trascinarmi in mezzo a tutti i giorni, quando ogni volta che decidevo di parlare, di ribellarmi o di aprire il cuore ricevevo solo bastonate in cambio. Là, dentro quel nulla che è tutto, ho detto stavolta parlo io e sono rimasti ad ascoltarmi. Un miracolo. Anche se le nostre sofferenze suonano così diverse, alla fine si rivelano uguali. Il rapporto con la famiglia, la determinazione verso un obiettivo che si trasforma in ossessione, lo straordinario racconto che mi stordisce per quanto sappia arrivare in profondità all’interno delle pagine, non è stato parte della mia storia. Soffrivo per le piccolezze degli uomini, le meschinità, qualcosa che ormai era diventato insopportabile. Ho cambiato cento posti di lavoro nel mio calvario. Avevo bisogno di esorcizzare tutto questo, di rendermi libero su un pezzo di strada non battuto, mai calpestato. Nessuna meta, nessun traguardo vale come la propria strada. Con la fisicità ho trovato un modo per scoprire di avere risorse ed energie che non immaginavo, rimuovere col bisturi quella massa dentro che
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non capivo cosa fosse. Sentirmi parte della natura sotto un abete, mentre i lupi ululano e fuori dalla tuta ci sono -50 gradi. Provare felicità nelle stesse situazioni in cui gli altri andavano in difficoltà, questo non è allenabile e ha fatto la differenza. Una cosa che viene fuori così e non capisci neanche il perché, è una sensazione imparziale e giusta, roba che nel mondo normale non esiste. C’è sempre una prima volta. È arrivata dopo aver guardato mio fratello negli occhi, era appena tornato dall’Iditarod. Quando si dice avere una luce diversa, esattamente così. Ho pensato che l’Alaska avesse qualcosa di magico e mi ci sono tuffato dentro senza sapere cosa mi aspettasse. All’inizio di una gara, il pettorale resta intrigante e c’è poco da dire. Ma una volta immerso in quella fatica indicibile ho perso di vista tutto il resto, dimenticato i problemi, caduto in amore, come dicono loro. E c’è un momento in cui ti appare finalmente ben chiaro. Se a 20 km dall’arrivo oramai dell’atleta non è rimasto più nulla, sei sopraffatto dalla disperazione di arrivare, sognando una cioccolata calda, una doccia, chiamare casa, sedersi, dormire, cioè l’essenziale che ti fa sentire un fantasma sulla neve, e allo stesso tempo provi il sentimento opposto, ti giri indietro e non sai come farai fuori di qui, al culmine dell’emozione tanto da averle lasciate tutte sul ghiaccio, ecco che la riconosci la strada. Non la strada maestra, una strada, la tua. Per molti altri è un calvario, ho visto autentici mostri nelle loro discipline distrutti e mai più tornati. Non so come l’abbiano vissuta loro, so come mi sono sentito io. Non ho mai pensato alla classifica, a chi avessi avanti da inseguire e dietro
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da allontanare. Capivo di essere primo se non c’erano più impronte nella neve e certo non mi cambiava la prospettiva. Quando nello Yukon hanno raccontato le mie vittorie dicevano tutti la stessa cosa: «L’ho visto sempre felice». Non mi hanno chiamato “The legend” perché primo, ma per come sono arrivato a esserlo. Il modo. Ho rotto la bici dopo 600 km e non ho fatto una piega andando a riprendere il ragazzo, con l’età dei miei figli, che pedalava in testa. Nella prima edizione sono arrivato al traguardo con una babbuccia prestata perché a un certo punto il piede gonfio non stava più nella scarpa. L’intensità con la quale ho creduto nel sogno, nel progetto, è l’unica risposta possibile. Mia, di Gianluca e di tutti quelli che hanno imboccato una via. Mi colpisce come lui sia riuscito a dire tutto, a tirare fuori questa ulteriore liberazione, il bisogno di raccontarsi per davvero e fino in fondo. Mi sono emozionato leggendo dell’incontro con i genitori al traguardo. Ho ripensato a Hanno Heiss, il mio amico per sempre dal 2015, da quando abbiamo condiviso una notte terribile, sfocata dalle allucinazioni e dai micro sonni. «Hanno, entra nel sacco a pelo» lo supplicai non appena mi disse che aveva visto un’aquila spargere polvere d’oro dalle ali e capii che stava andando in ipotermia. Da quel giorno non ce n’è stato uno che non ci siamo sentiti al telefono anche più volte. Ecco, magari lavori vent’anni a stretto contatto con la gente e non scatta niente, poi all’improvviso la sorpresa, la comunione. Le difficoltà smascherano le persone. Lì abbiamo capito di essere fratelli, di avere tante cose in comune. Cosa può unire di più che risolvere insieme quel piccolo problema
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di continuare a vivere? Io avevo la bicicletta rotta, lui una tromboflebite dopo 300 km, una gamba che era diventata un pilone, tutto fasciato è andato a vincere. Cosa che io feci in bici nonostante mille altre disgrazie. Ma alla fine forse è quello che vai a cercare, non per follia sia chiaro. È che a tavolino l’introspezione non riesce, questa credo sia la verità. Sì, Hanno, Gianluca e io siamo fratelli, identici nella nostra qualità dei sentimenti che non si misura col cronometro o il dislivello. La mia felicità nello Yukon è pari alla loro, o a quella di un ragazzo che vince una disabilità e sale in vetta. Mi chiedono sempre qual è stato il momento più duro di una gara e io rispondo: «Il giorno dopo». Vivo a Bovegno, con i suoi 27 abitanti e a dire il vero anche un po’ lontano da loro, nel bosco. Devo fare 4 km per andare a comprare il pane. Sono immerso nella natura eppure non è lo Yukon, non è come stare a 250 km dal primo paese abitato. Ci penso ogni tanto, per non dire spesso, che sarebbe bello togliere il pettorale, la gara, quelle che una volta chiamavano le sovrastrutture, in una parola togliere tutto e andarsene per sempre dall’altra parte del mondo, in un altro mondo. Lo Yukon è una volta e mezzo l’Italia ma c’è una sola strada e quattro villaggi indiani per appena 31mila abitanti. Bisogna chiedersi perché e la risposta è che la natura ti respinge. Allora tengo tutto nel cuore, dove solo chi ti ama sa leggere davvero. Mia moglie per esempio, mi dice sempre che sono tornato da lì e però non del tutto. L’armonia di anima, corpo e mente non è matematica, anzi penso sia l’esatto contrario. Quando il fisico
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stava cedendo era allora che subentrava l’euforia, la felicità, la stessa aurora boreale mia e di Gianluca. Finito in un branco di lupi trovavo il coraggio e sentivo la fortuna dentro un’alba che mi faceva credere di essere stato simpatico a qualcuno lassù. Intanto mi chiedevo se avessi barattato la zuppa per un rolex, rispondendo di no. Ecco cos’è che ci tocca per sempre. Io la chiamo la conquista dell’inutile. Cosa vuoi dimostrare, Enrico? Che sei fortunato? Che non sei dentro la corsia di un ospedale? Che i tuoi stanno bene e tu sei libero di andare dove vuoi? «Perché lo fai?» chiede la gente. Una risposta sincera, vera, ce l’ho. Per il diritto-dovere di essere felici. La felicità è un dovere. Se il quotidiano non va e lo porti a casa fai stare male tutti quelli che hai intorno. Bisogna trovare la propria strada, a ogni costo. E costa sempre la stessa cosa: l’idea di essere un disadattato agli occhi degli altri. Perché vai oltre le certezze, oltre la macchina e la casa, la carriera e il confronto continuo con le persone. Viaggi controcorrente e rompi le scatole. E lì inizia l’avventura. Quando accetti con serenità il giudizio degli altri, che non significa fregarsene, semmai il contrario, metterlo finalmente in conto. Io sono stato felice. Gianluca anche.
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Rovaniemi
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è un momento esatto in cui ho sentito di morire e subito rinascere. Immagino che nell’arco di una vita accada spesso. A me è capitato molte altre volte. Non me ne sono accorto oppure ci ho fatto caso col tempo. Tanto comodo è il senno di poi. Quella volta di comodo però non c’era nulla anche se ero stato bene fino a poco prima. Forse era scritto nel mio destino già in partenza eppure ci sono voluti centoquaranta chilometri per realizzarlo, conosco vie più brevi in effetti. Ne mancavano una decina al traguardo, mi girai e ancora adesso non mi è chiaro perché l’abbia fatto. A ripensarci una fortuna ma in quell’istante non mi sembrò così per niente. Erano dieci ore che non vedevo nessuno a piedi e non sono mica tanto sicuro di averlo visto davvero. Magari un’allucinazione, non troppo vicino eppure nella mia testa già davanti. Come si chiamava non me lo ricordavo in quel momento e faccio fatica a mettermelo in testa anche ora, però sapevo benissimo chi fosse. Spagnolo, aveva corso la Maratona des Sables e perciò a differenza mia era cosciente di cosa stesse facendo, i suoi fantasmi li aveva inseguiti e battuti così come, ne ero certo, avrebbe fatto anche col sottoscritto. D’accordo, quello marocchino era il deserto e questa lappone è tutta una lastra di ghiaccio, che a rifletterci però hanno l’identica sospensione in equilibrio tra inferno e paradiso nel loro concetto monocolore di distesa.
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Mi sono sentito senza forze, svuotato, morto. Ricoperto dalla valanga di ghiaccio della Lapponia, che se avessi potuto avrei dato fuoco al villaggio di Santa Claus. Ci avevo sorriso quasi per centoquaranta mila metri sull’oleografia di Babbo Natale, adesso non ci riuscivo. Il fanciullo aveva finito i suoi giochi e s’era levato di torno, voglio mangiare e scaldarmi, sciogliere la neve e bere, in poche parole non ce la faccio più e non sono capricci ma adulte sofferenze. Perché non mi sono fermato al ristoro del 140esimo km è la domanda che mi precedeva ossessiva a ogni passo trascinato, nemmeno somigliante alla scivolata armoniosa di prima. Disidratato e con lo stomaco vuoto non dormivo da un giorno e mi sembrava una vita. Avevo già urlato con un metro di neve fino alla cintura, dopo essermi perso venti chilometri prima. Le avevo seguite bene le bandierine catarifrangenti. Amo la neve e amo i laghi ghiacciati ma erano già passati 120 km e le bandierine non erano più quelle del percorso, io non ero più quello della partenza, allegro e lucido. Qua sotto tutto l’ammasso di neve, due secoli fa c’era stata la corsa all’oro. Adesso solo ghiaccio e la mia necessità di ritrovare la traccia Gps. Decisi allora di deviare e in un attimo mi trovai nelle sabbie mobili bianche. Distrutto, per la prima volta con l’ansia e gli attacchi di panico. Non riuscivo a tirare la slitta. Eccomi di nuovo nudo dopo quarant’anni di lotta per capire e capirmi, la leggerezza conquistata s’era trasformata per l’ennesima volta in un peso insostenibile. Diciassette chili a essere precisi, quando gli altri al massimo ne avevano caricati dodici. E chi ci pensava alla classifica quindici ore fa? Io volevo
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solo arrivare. Grido dalla rabbia senza che nessuno possa sentirmi, un pensiero angosciante e consolante come se le due cose potessero stare insieme. Ci perdo quaranta minuti a ritrovare il percorso, non sapevo nemmeno se fossi primo, secondo o terzo. Quando venti chilometri dopo ho visto Canet, ecco come si chiamava, ho realizzato la mia condanna. Ho pensato: “È finita”. Poi invece che non è finita mai, come un giorno di sole in autunno nella mia Sabaudia, capace di scaldare il cuore anche al Circolo polare. Stavo facendo una cosa fantastica e dovevo stare concentrato. Il significato della distrazione, anche solo quella di un attimo, l’avevo compreso bene in un giorno al Corno alle Scale, scivolato per 50 metri, morto e rinato già allora mentre stavo preparando la corsa in Lapponia. Lo sapevo che questo non era il dormiveglia del Passatore, quando spegni il cervello e trovi la pace dentro alla lotta infinita di 100 chilometri segnati uno dopo l’altro sulla strada leggendaria da Firenze a Faenza. Qui non c’è nemmeno l’ombra di un cartello, solo bandierine messe a cazzo, diciamocelo francamente. Se ti stai giocando la pelle devi ragionare, reagire. Trovare un senso nella tua angoscia. Rinascere, che significa sentire dentro un’energia inarrestabile. Mi ritrovai a correre a 6 minuti al km dopo averne fatti centoquaranta, una cosa pazzesca. Trascinando una slitta da diciassette chili che sembrava un emporio pieno di cose, alcune portate sapendo che non mi sarebbero servite se non a sentirmi tranquillo, rassicurato. Come un armadio pieno di camicie tutte uguali, la scarpiera riempita da una quantità di scarpe che non basterebbe una vita a indos-
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sarle tutte, intanto ti serve sapere che ce l’hai per essere appagato. Ormai però mi trovo fuori dal caldo della mia camera, gli armadi non ci sono, lo spagnolo sì. Perlomeno io lo vedo ancora. Quattro, cinque volte, non riesco a evitare di girarmi ogni due o tre minuti ma non ho nemmeno la forza di farmi coraggio pensando a un’allucinazione. A mettermi il dubbio è l’organizzatore. A tre chilometri dalla fine, seduto sulla sua motoslitta mi urla che sto vincendo. «Guarda che c’è lo spagnolo» gli dico con la bava alla bocca e il contegno minimo trovato chissà dove per non mandarlo a quel paese. Invece poverino si stava preoccupando per me, pensava fossi posseduto. Pare che dietro non ci fosse nessuno, vai a saperlo se era quella la verità. In un momento così conta zero la verità. So solo che io continuavo a vederlo Canet, mentre pensavo che certi arrivi sono come una felicità inseguita giorno dopo giorno e perciò non li prendi mai. Da venti chilometri scorgevo il ponte della partenza, il lago dell’inizio. Ecco, il traguardo dev’essere lì, cercavo di pacificarmi con brividi d’emozione. Col cavolo, l’arrivo s’avvicinava inafferrabile. Ho iniziato a fare ripetute mentali. Un chilometro ogni sei minuti, poi tre minuti di camminata e quindi altri tre di corsa. Un’ora e mezza sono durati gli ultimi diecimila metri, se fossero mai davvero finiti sentendo di continuare a correrli oggi e per sempre. Arrivo sul ponte ma il traguardo non c’è, le bandierine vanno di nuovo in una direzione immaginifica. Ho fatto quindici ore di volo, da solo, ho corso tirandomi dietro un negozio di attrezzatura per la sopravvivenza e voi non avete pensato di mettermi un pallone all’arrivo?
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Uno straccio di striscione da tagliare? Le bandierine mi riportano sulla strada, ora sì che inizio ad agitarmi. S’intravede qualche persona, chiedo dov’è l’arrivo e mi guardano come un matto. «Vai dritto» mi urlano. Continuo ad andar dritto, ma dove, per la miseria? A un certo punto compare l’hotel del briefing il giorno precedente la partenza, si apre la porta scorrevole e dentro trovo l’organizzatore. Con gli occhi di fuori gli chiedo: «E allora, sto traguardo?» «È questo, hai vinto.» Non lo sapevo, molte indicazioni tecniche non le avevo capite e poi non sono mai stato uno bravo con le tattiche. Quelle poche informazioni nascoste in qualche parte della mia testa se n’erano già andate assieme a tutto il resto, il cervello aveva fatto in tempo a liberarsi un istante dopo da ogni pensiero. La sensazione che avevo sognato per mesi, anni, da sempre. Inseguivo questo, altro che il traguardo; a vincere non ci pensavo proprio quando mi arrampicavo sulle salite del Corno alle Scale. Era la vita che volevo capire di poter fare, a meno 30 gradi, capace di cambiare un guanto al momento giusto, senza un movimento in più o in meno di quelli necessari. Tornare a vivere scoprendo l’essenza. Invece in quel momento stava succedendo anche altro. Salto, ballo, sento energie insospettabili. Mi portano in una stanza, premiazione all’istante, foto e io ancora non ho realizzato per bene. Mi danno la coppa, la medaglia di finisher e quella da primo classificato. Avevo studiato questa corsa mentre la sognavo. Pensavo di non finirla nemmeno. E invece mi ritrovo l’assegno virtuale con l’iscrizione pagata per due edizioni. Poi arriva lui, quando si dice
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l’oggetto del desiderio. Un coltellino svizzero, di legno e penso del materiale estratto dalle corna di qualche animale, lo guardo e piango; ricordo quando credevo che mai l’avrei avuto e tanto lo desideravo. «Hai fatto il record, ventiquattro ore e poco meno di due minuti.» Decido di sedermi, forse me lo sono meritato. Mi portano un panino e una bottiglia d’acqua, il conto delle ore a digiuno ormai era perso. Non riesco nemmeno a masticare e ci metto un’ora a finirlo. Sono quasi all’ultimo morso quando arriva lo spagnolo. Ci abbracciamo, avevamo abbandonato i nostri fantasmi sperduti attorno al lago ghiacciato, qualche centinaio di chilometri più in là. Guardo un’altra volta il coltellino e piango di nuovo. Solo l’aurora boreale una decina di ore prima mi aveva commosso così tanto.
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Arriverà l’aurora
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ntrare nella hall non liberò solamente la mia testa da tutti i pensieri. In un’ora mi chiamarono quelli che sapevano, anche loro piuttosto sollevati. Grazie al tracciatore Gps che avevo appresso erano stati con me tutta la notte svegli dall’Italia e io me li ero sentiti vicini, con il loro affetto e la preoccupazione. Anche perché mentre stavo con la neve fin sopra i calzoni si era scaricata la batteria e mi avevano perso, come io avevo fatto col percorso. Trovai i loro messaggi e capii che condividemmo l’angoscia di quei momenti. «Stai andando troppo forte, fermati.» Ci aspettavamo tutti che finissi in quaranta ore almeno e così per cento chilometri mi era sembrato di sentire mia mamma gridare: «Vai piano, dove stai andando?» E copriti, naturalmente. Le telefonate più care arrivarono subito, una delle cose che mi porto nel cuore. Intanto però cominciavo a rivedermi la corsa in testa. In uno stato semi incosciente avevo chiare solamente due cose. Ritrovarmi campione senza averci mai pensato, felice non di aver vinto ma di essere lì integro, non solo e non tanto fisicamente quanto per aver messo insieme i pezzi della mia anima. Ricostruito tutto intero dopo gli anni della bici, le cadute, le chitarre, le montagne. Il ghiaccio della Lapponia mi aveva compattato e mai più sarei tornato indietro disunito. Perciò, ed era la seconda certezza, io Rovaniemi
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l’avrei portata fino alla fine, per sempre. Battesimo, comunione, maturazione, morte e rinascita. Un film che rivedrò tutti i giorni, mangiando in cucina o cercando il cielo su un’altra salita innevata, quei 150 chilometri busseranno di continuo pure sul balcone di casa e quella follia di andarci avanti e indietro per sentirmi libero una volta di più al tempo del Covid-19 e dell’isolamento forzato. È lì in Finlandia che ho davvero imparato a vivere e a morire, che le due cose non possono andare separate. Passando dentro a quelle cazzate, che tanto le fai anche se sei pronto a non farle e te lo sei ripetuto per settimane e mesi quanto sia meglio evitarle. La prima e decisiva tra i chilometri 83 e 85. Stavo volando e continuavo a non farci troppo caso, ero ancora nella mia vacanza avventurosa. Dopo due chilometri ci sarebbe stato il ristoro al chiuso, l’occasione unica di fermarsi, bere e mangiare al caldo, sistemarsi, prepararsi a ripartire. Secondo voi quante di queste cose ho fatto? Avete capito, nessuna. Come se tutta la neve della Lapponia e del Circolo polare stesse bollendo dentro al petto e allo stomaco, decido di fuggire via come in autostrada davanti a un autogrill di scarsa qualità. Incurante della segnalazione del ristoro successivo, a 36 km più in là, troppi per un’urgenza al volante di un Suv figurarsi su questa neve su cui tra qualche ora mi muoverò come uno che ha consumato tutta la sciolina. E fermala ‘sta macchina, mettila ‘sta freccia, riposati, mangia e bevi, mi ripeto più volte sapendo che non avrei ascoltato. Lo spagnolo è là e lo vedo come mai era successo dalla partenza. Penso che non può essere, lui è il primo e io sono solo un quaran-
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tenne in cerca di se stesso, uno che va forte non fortissimo, che la passione è tutto ma non abbastanza per mettersi uno specialista alle spalle. Però nel dubbio mi dico che è meglio passarlo e poi vediamo. Gli tendo la mano e non so se sentirmi più commosso, partecipe della sua fatica che è anche la mia o un pizzico ipocrita perché sto cercando di levarmelo di torno. Egoista, voglio restare da solo su questo manto come se 150 chilometri fossero un buon motivo per pensare solamente al proprio ego. Però mi viene così, quel gesto, senza filosofeggiare, un attimo prima di ragionare sul fatto che questa è la mia vita e tu caro mio Canet, che in quel momento sei solo l’esperto spagnolo in testa alla corsa, puoi entrarci un istante appena. Fattelo bastare, stanco come sembri. Raggomitolo tutti gli altri pensieri, tanto adesso non mi servono. Li lascio squartati sotto le lame della slitta e faccio come se dovessi sbrigare una formalità in ufficio atteso da un appuntamento importante. Sentendomi in ritardo, io che invece sono molto più avanti della tabella di marcia, se mai ne avessi avuta una. Saluto sciatori e ciclisti, firmo il passaggio all’interno del ristoro, mi dicono che sono primo. No, amici miei, sono in trance. Non mangio, prendo l’acqua come se fossi al supermercato e stessi cercando la macchina nel parcheggio. Dove l’ho messa? Apro il bagagliaio e ce la butto dentro, distrattamente, che tanto oggi è sabato, andiamo fuori a cena e magari mi ricordo di portarla su a casa il giorno dopo. Invece non c’è nessuna cena e soprattutto non funziona così a -30 gradi e lo so benissimo. Ma se sono venuto qui con l’intento di vivere per davvero non posso pensare di ambire
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alla perfezione, perché la vita perfetta non lo è. L’improvvisazione è un dono, purché non sconfini in una cavolata. Quella di infilare l’acqua tra i vestiti senza metterla al sicuro mi sembrò esserlo, in effetti. Non subito ovviamente, esattamente quando, dal -15 del giorno, la temperatura si abbassò in modo drastico. Il tappo ghiacciato, all’interno l’acqua era diventata un inutile solido. Ma non c’era altro in quel momento che mi interessasse come far vedere a quel Canet che stavo bene, meglio di lui seduto a mangiare come fosse in trattoria. Vecchio mio, è la solita storia. Se sei tu che non hai capito lo spirito o se sono stato imprudente io resterà una sfumatura impercettibile. Decisiva. «Non mangi?» mi chiede preoccupato sia per me sia per il suo primo posto. «No, non ho fame.» Ce l’ho, eccome. Ma cosa c’entra la fame in tutto questo? Adesso conta solo che tu sei vestito pesante, hai freddo, non riesci a resistere con lo stomaco vuoto. Io invece ho abbandonato in partenza tutti i miei bisogni, le debolezze. Non ho nemmeno il piumino pesante, solo il pile a riscaldarmi. Sto pattinando leggiadro con i miei 17 chili di sogni appresso. Lo lascio lì col suo piatto caldo pieno di dubbi, adesso sono il primo e non mi fermo più. Mancano ancora 65 chilometri, è come non essere nemmeno partiti in una gara. Appunto, questa per me non è una gara e quindi non posso perderla, al limite l’ho già vinta. Ho scelto la Lapponia perché pensavo di trovarci il senso di tutto, perché ho sempre creduto che la cosa più bella sia provare piacere in ciò che si sta facendo. E questa per me è la massima espressione del pia-
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cere. Avevo chiesto se saremmo riusciti a vedere l’aurora boreale, «bisogna avere fortuna» è stata la risposta. Al chilometro 95, a cavallo tra il 18 e il 19 febbraio del 2017, io ero la persona più fortunata del mondo. In pace con me stesso, intento a portare la mia esistenza davanti agli altri. Non volevo vincere nulla, solo poterla ammirare senza qualcuno che oscurasse la visuale. Capirla come non ero mai riuscito a fare. Fu allora, da poco passato il ristoro del sorpasso, che guardai il cielo. Chiazze di un verde pallido, meno intenso di quello in tv o sul web. Vent’anni che ce l’avevo in testa eppure non fu semplice riconoscerla. Mi affianco a un ciclista italiano spuntato non so da dove e chiedo a lui se fosse davvero l’aurora boreale. Dice di sì piangendo, non doveva essere la prima allucinazione allora. Cominciai a piangere anch’io. Mi sentivo il viandante di Gibran, «eternamente alla ricerca della via più solitaria». L’aurora non mi avrebbe trovato dove il tramonto mi aveva lasciato. Ho sentito che stava andando veramente tutto bene. Novantacinque chilometri, forse cento. Ero già arrivato anche se dovevo ancora partire.
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