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Francesco Bellizzi
L’inflazione è un fenomeno destinato a durare.
Materie prime ed energia
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costano sempre di più e a soffrire maggiormente sono le serre e gli allevamenti. La voce delle imprese
di Francesco Bellizzi
Ormai l’aumento dei costi di materie prime ed energia investe ogni singolo comparto dell’agroalimentare. Dai campi, agli impianti di trasformazione, fino ad arrivare agli scaffali dei mercati e della Gdo. Un guaio per il settore primario, la cui produzione è destinata al 70% proprio alle industrie alimentari, messe a dura prova dal cambiamento climatico e dall’aumento record del gas, che a fine gennaio ha raggiunto il +763%. Le associazioni della trasformazione e della commercializzazione alimentare parlano di “rischio paralisi” e non ha nascosto la sua preoccupazione neanche il presidente di Confagricoltura, Massimiliano Giansanti, pensando a un indotto che nel 2020 ha fatturato complessivamente 208 miliardi e che dà lavoro a 1,4 milioni di persone. Cifre su cui l’economia rurale ha inciso per una grossa fetta, con oltre 62 miliardi di fatturato e 940.100 occupati (fonte: Rapporto Ambrosetti Food&Beverage 2021). In questo contesto, a soffrire particolarmente sono il settore zootecnico con gli incrementi di energia e mangimi, e le colture in serra (ortaggi, fiori e piante in vaso), alle prese con bollette a sei cifre. Ne sa qualcosa Enrico Pizzolo, ex presidente dell’Unione di Vicenza e imprenditore zootecnico specializzato nell’allevamento di vitelli da carne. Il prezzo raggiunto dai cereali, per lui, è un tasto molto dolente. “Oggi ci ritroviamo con incrementi anche del 70/80% - spiega -. Fortunatamente da settembre i prezzi della carne all’ingrosso sono in crescita come non accadeva da 20 anni. Un incremento dovuto a dinamiche internazionali in cui l’offerta è più debole
Il peso degli aumenti
Il peso degli aumenti
Ferrari: “Bisogna ridiscutere il prezzo del latte con la Gdo”
rispetto alla domanda; ma anche alla scelta di molte aziende di ridurre, tra gennaio e luglio, i capi messi all’ingrosso per fronteggiare gli aumenti su mangimi e energia”. Ciò ha comportato una riduzione del bestiame disponibile e la conseguente riduzione interna dell’offerta rispetto alla domanda. “Ma sia chiaro - precisa subito Enrico Pizzolo - questo ci sta permettendo solo di pareggiare i conti. Le perdite accumulate nei mesi precedenti restano una ferita aperta. La mia azienda, e credo anche la maggioranza delle altre, ha lavorato con una perdita per capo allevato che oscilla tra i 50 e i 100 euro”. L’attuale pareggio tra inflazione e aumento del prezzo della carne venduta all’agroindustria è un equilibrio precario, aggiunge l’allevatore. “Sapremo davvero come si assesterà il mercato a fine anno, o tra giugno e luglio se saremo fortunati”. Gianluca Ferrari è il vicepresidente dell’importante cooperativa nazionale di produttori “Granlatte” ed è un imprenditore attento alla qualità (la sua
Raffaele Di Ciommo
produzione bio è molto nota), ma anche all’innovazione e alla sostenibilità. La sua azienda, Cascina Villaretta, si trova nella campagna cremonese e conta una stalla di circa 130 animali in mungitura. “Assistiamo a un forte aumento dei costi legati all’alimentazione degli animali e ai consumi energetici - spiega l’allevatore -. Le principali voci di incremento sono relative al gasolio (quasi +50%), alle sementi, quindi all’alimentazione (+50%) e alla plastica (+35%). A queste si aggiunge l’incremento dei costi del trasporto marittimo, che ha subito un raddoppio. Il problema è che a questi aumenti non sono seguiti aggiustamenti del prezzo della materia prima fermo da anni”. A novembre governo e stakeholder del settore hanno raggiunto un accordo per garantire ai produttori che il prezzo di un litro di latte non scenda sotto i 41 centesimi di euro. “È un accordo che ha il merito di riaprire il dibattito - commenta Ferrari -. Adesso è necessario sedersi al tavolo delle trattative con la grande distribuzione per ridiscutere il prezzo”. Nella campagna del VultureMelfese in Basilicata, si trova la Masseria Posticchia Sabelli, l’azienda zootecnica della famiglia Di Ciommo. Parte degli oltre 300 quintali di latte prodotti giornalmente è destinata alla vendita di latte crudo di alta qualità in particolare in Basilicata e in Puglia. Il resto viene trasformato all’interno del caseificio aziendale. Raffaele Di Ciommo conduce insieme al padre Marcello e allo zio Aldo l’azienda di famiglia. Per lui il primo problema del prezzo del latte è lo scarso potere contrattuale degli allevatori nei confronti delle aziende di trasformazione e commercializzazione. “Il prezzo di vendita è fermo a fine 2001, quando c’era ancora la lira - ci dice -. Nel frattempo però sono cresciuti i costi di produzione mentre la qualità del prodotto è migliorata dal punto di vista della sostenibilità, igienico-sanitario e nutrizionale”. In questi due anni turbolenti un po’ di respiro lo hanno dato i mercati europei dedicati al latte “spot”, ossia quello non contrattualizzato con le aziende di trasformazione. “Un fenomeno nuovo per l’Italia, che però rappresenta soltanto il 10% del prodotto nazionale. Dobbiamo lavorare sul restante 90% - conclude -. Materie prime come mais e soia sono aumentate in modo smisurato. Energia e prodotti come i fertilizzanti e altri materiali di consumo hanno subito aumenti tra il 30 e il 40 per cento, con punte che arrivano al 300%. Se il mercato non si adeguerà nelle prossime settimane, l’intero settore lattiero-caseario rischia il collasso”. Dell’incremento registrato su alcune sementi parla Carlo Invernizzi, partendo dagli effetti inflattivi sulla produzione di Apsovsementi (Apsov) di cui è amministratore delegato. “Nel caso delle sementi ibride (mais, sorgo, girasole) l’incidenza della materia prima è molto meno impattante sul prezzo finale: gli aumenti che si stanno registrando sul mercato italiano ed europeo sono nell’ordine del 5-8% rispetto alla granella di mais, che nell’ultimo anno è aumentata del 50% Il costo del frumento duro, invece, è cresciuto del 30%, quello del tenero e dell’orzo del 20%. L’aumento della soia si muove in una forbice del 15-20%. A questi si aggiungono gli aumenti su tutti i materiali d’imballaggio come legno, carta e plastiche che condividiamo con il resto del settore”. Tra i comparti che hanno vissuto i cambiamenti più radicali c’è quello del seme certificato, che in quattordici anni ha visto una riduzione di utilizzo da parte delle imprese di oltre il 50%. Una tendenza accelerata dai prezzi di oggi. “Questa flessione è vera per il frumento duro e il riso - commenta Invernizzi -
Di Ciommo: “Creiamo una Borsa merci del latte come accade per alcuni tipi di formaggi”
Invernizzi: “L’aumento dei costi riguarda anche noi sementieri. La granella di mais è a +50%”
mentre per la soia l’uso di seme certificato è stabile attorno al 7075% del fabbisogno totale in Italia”. Con la riduzione dell’uso di semi certificati è cresciuta la tendenza alla riproduzione in azienda, una scelta che non piace a Invernizzi. “Questa pratica mette a rischio il corretto impianto delle colture esponendo a costi e a mancati profitti molto importanti. Non dimentichiamo il valore del seme certificato anche ai fini del miglioramento genetico e della stessa resa produttiva”, chiosa. Una delle coltivazioni in serra oggi in grande affanno è quella floricola. Un mondo che merita un discorso a parte perché, pur producendo frutti della terra, ha un fabbisogno energetico vicino a quello industriale. L’allarme sul settore è stato lanciato da Luca De Michelis, presidente di Confagricoltura Liguria, regione in cui il florovivaismo rappresenta l’88% della produzione lorda vendibile dell’intero settore primario. Una situazione insostenibile, che sta alimentando la chiusura di molte attività. Monica Menin lavora nell’azienda di famiglia, Floricoltura Menin. Con sessanta dipendenti coltiva orchidee in provincia di Varese. “A settembre dell’anno scorso l’energia costava 15 centesimi a metro cubo - racconta l’imprenditrice - oggi è arrivata a 95 centesimi. Un incremento che ancora non dà segni di rallentamento”. Le orchidee dei Menin hanno bisogno di 2,5 milioni di metri cubi di gas all’anno: una quantità tale che a volte conviene partecipare alle aste energetiche annuali per trovare l’offerta migliore. Oggi, però, il meccanismo delle aste è messo in crisi dalla volatilità dei prezzi, che non permette quotazioni e previsioni abbastanza stabili da far incontrare domanda e offerta. Il risultato è che le serre Menin stanno lavorando con il gasolio. “Paradossalmente ci costa di meno - commenta Monica -. Il costo del cogeneratore a gas è triplicato. Per lo stesso motivo abbiamo dovuto ridurre le ore di illuminazione artificiale delle piante”. “Questo inverno riusciremo a reggere - interviene Donato, zio di Monica e titolare insieme ai fratelli - ma il problema si ripresenterà anche in estate, perché la nostra produzione non si ferma mai. L’effetto dei risparmi sulla qualità dei prodotti del nostro settore inizia a sentirsi sul prezzo di vendita ai grossisti. La concorrenza delle aziende olandesi si fa sentire, dato che non subiscono i nostri incrementi grazie anche all’apporto della produzione di energia da fonti rinnovabili”. Rosario Marchese Ragona oltre a essere imprenditore di ortaggi in serra è anche presidente di Confagricoltura Sicilia. Per spiegare la complessità di un tema come quello dell’incremento dei costi, porta come esempio il suo investimento in nuove serre. “Messo in programma prima dell’epidemia, oggi l’investimento si trova a fare i conti con prezzi delle componenti in acciaio e plastica cresciuti del 200% - ci spiega -. Incrementi a cui si aggiungono quelli energetici, che sono raddoppiati”. Fortunatamente la coltivazione di ortaggi in serra sta vivendo una fase positiva sul fronte dei prezzi all’ingrosso. Un miglioramento che riguarda, ad esempio, il datterino. “Oggi stiamo vendendo questa qualità al giusto prezzo: 2,50 euro al chilo. Ma non dimentichiamoci che a dicembre la media era 1 euro. Più in generale - aggiunge Ragona - è una fase positiva per gli ortaggi di stagione. Credo per due motivi: la domanda sta superando l’offerta e il consumo di prodotti italiani è cresciuto”. Ma si tratta di un palliativo. “Bisogna intervenire sui costi di produzione o perderemo molte aziende”. nnn