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SCIENZE

Prevedere l’insorgenza e l’impatto della demenza

Uno studio britannico prova a validare per i Paesi a basso e medio reddito i modelli ideati per le aree più sviluppate

di Sara Lorusso

La demenza, dice l’OMS, è un termine ombrello, un sostantivo generico utilizzato per diverse malattie che sono per lo più progressive, colpiscono la memoria, modificano i comportamenti cognitivi e interferiscono significativamente con la capacità di una persona di mantenere una vita quotidiana attiva. Il morbo di Alzheimer è la forma più comune di demenza e può contribuire al 60-70% dei casi, ma vi sono altre forme, quali la demenza vascolare o la demenza a corpi di Lewy, i cui confini sono sempre molto indistinti. Nella maggior parte dei casi, inoltre, si tratta di forme diverse che spesso convivono.

Tutte le principali ricerche per la creazione di modelli previsionali sullo sviluppo della demenza sono state finora condotte soprattutto in Paesi ad alto reddito (high income countries, in sigla HICs). Eppure è nei Paesi a basso e medio reddito (low and middle income countries, in sigla LMICs) che si concentra la maggior parte dei casi di demenza.

Uno studio [1] sviluppato con il coordinamento di Blossom C.M. Stephan, epidemiologa con formazione in psicologia e statistica, ora all’Institute of Mental Health di Nottingham, e di Eduwin Pakpahan, esperto di modelli matematici e statistici per le scienze economiche e sociali, ricercatore presso il Population Health Sciences Institute della Newcastle University, ha indagato quei modelli previsionali pensati per le regioni più ricche del pianeta e ne ha valutato l’affidabilità in caso di applicazione su contesti decisamente più poveri. La ricerca sulla previsione del rischio di demenza nei Paesi a basso e medio reddito, pubblicata ad aprile su The Lancet Global Health, si è dunque basata sui modelli utilizzati finora per gli HICs e li ha trasportati su regioni LMIC.

Per portare a termine la verifica, gli scienziati hanno utilizzato i dati provenienti dallo studio “10/66” [2]. Il 1066 Dementia Research Group è una comunità di ricercatori che svolgono ricerche basate sulla popolazione con l’obiettivo di indagare problematiche quali l’impatto della demenza, l’incidenza di malattie non trasmissibili e l’invecchiamento nei Paesi a basso e medio reddito.

Ed è il nome stesso del gruppo a racchiudere l’orizzonte di ricerca: “10/66” si riferisce al fatto che due terzi della popolazione (il 66%, appunto) affetta da demenza vive in LIMCs, eppure solo il 10% - forse anche meno - della ricerca basata sulla popolazione è finora stata condotta in queste regioni del pianeta. Il gruppo fa parte dell’organizzazione senza scopo di lucro Alzheimer’s Disease International, ed è coordinato dall’Institute of Psychiatry, Psychology and Neurosciences del King’s College di Londra. Sul sito dedicato al progetto è accessibile un vasto dataset anonimo di informazioni raccolte e sono stati condivisi i protocolli e i questionari utilizzati nella ricerca.

Sfruttando quei dataset, Stephan e colleghi hanno potuto contemplare nel proprio studio una platea di 11.143 persone, dai 65 anni in su (fino a 106 anni), nessuna delle quali al basale mostrava già evidenti segni di demenza. Il campione era composto per il 62,6% da donne e per il 37,4% da uomini.

L’enorme mole di dati analizzata comprende abitanti di Cina, Cuba, Repubblica Domenicana, Messico, Perù, Portorico e Venezuela e un arco di tempo di valutazione dell’incidenza della demenza compreso tra i 3 e i 5 anni. I dataset del progetto 10/66 hanno dato accesso a campioni che variano da 1.900 a 3.000 persone in tutti i Paesi, con un 80% della popolazione che ha risposto ai questionari distribuiti. Per il gruppo di Stephan è stato così possibile accedere a informazioni sulla famiglia e sulla condizione socio-sanitaria, in abbinamento a dati relativi alla salute fisica e neurologica. Nel dataset 10/66 sono comprese anche le risposte di chi ha accompagnato il paziente nella rilevazione - in genere si tratta di caregiver, coinquilini o familiari. Solo per la Cina, non essendo stato possibile raccogliere campione di sangue, non era disponibile il valore del colesterolo.

Dello studio 10/66 è stato utilizzato anche l’algoritmo diagnostico: si tratta di un modello che include i punteggi ottenuti in una serie di test cognitivi riconosciuti, quali il CSI-D (Community Screening Interview for Dementia) COGSCORE e il CERAD (Consortium to Establish a Registry for Alzheimer’s Disease).

Una delle fasi principali dello studio britannico è stata quella relativa alla selezione dei modelli già utilizzati in zone HICs: non tutti avrebbero garantito un’adeguata coerenza della ricerca. E il motivo lo hanno spiegato in un commento [3] pubblicato nello stesso numero della rivista, Francisca Rodriguez, del German Center for Neurodegenerative Diseases (DZNE), e Susanne Roehr, dell’Institute for Social Medicine, Occupational Health and Public Health di Leipzig.

Una delle maggiori sfide nella previsione del rischio di demenza nei LMICs, spiegano le due scienziate, è che molti metodi di valutazione utilizzati negli HICs non sono disponibili nelle aree più povere. Basti pensare alle informazioni ottenute tramite tecniche di imaging [4], che per quelle zone sono troppo costose o inutilizzabili per l’assenza di personale qualificato. In scenari simili è necessario fare affidamento su strumenti di screening che sono facili da usare e da interpretare.

Secondo dati dell’OMS [5] nel 2015 la demenza ha colpito 47 milioni di persone in tutto il mondo (circa il 5% della popolazione anziana mondiale), una cifra che dovrebbe aumentare a 75 milioni nel 2030 e toccare i 132 milioni entro il 2050. Stime recenti dicono che a livello globale ogni anno quasi 9,9 milioni di persone sviluppano demenza, praticamente un nuovo caso ogni tre secondi. Di queste, quasi il 60% vive attualmente in Paesi a basso e medio reddito, così come la maggior parte dei nuovi casi (71%) dovrebbe verificarsi nelle stesse zone svantaggiate.

Un punto di forza dello studio di Stephan e colleghi, sottolinea il commento, è la ricerca dei soli modelli di previsione del rischio che abbiano un’applicabilità su larga scala nei LMICs. Inoltre, il campionamento della popolazione utilizzato nello studio - quello del progetto 10/66 - comprende anche aree rurali e gruppi di popolazione delle comunità più povere.

Ad oggi sono stati sviluppati almeno venti modelli per la previsione del rischio di demenza nei Paesi ad alto reddito, con caratteristiche differenti per precisione predittiva, differenze metodologiche, durata dei follow-up, fattori selezionati per definire la popolazione. Per individuare i modelli che sarebbe stato possibile traslare senza perdere coerenza, Stephan e colleghi hanno innanzitutto circoscritto la selezione sulla scorta delle revisioni sistematiche più recenti a cui gli studi precedenti erano stati sottoposti [6,

Who is affected? What does it cost? What is the cause?

Conditions that affect the brain, such as Alzheimer's disease, stroke or head injury

US$2 trillion

estimated costs to society in 2015

2050 2030 2015

Nearly 10 million new cases every year Carers experience physical, emotional and financial stress 50 million people worldwide Majority of people who will develop dementia will be in

One every 3 seconds 2030 50 82 152

million million million

2015 Families and friends provide most of the care Set to triple by 2050 low- and middle-income countries US$818 billion: What are the symptoms?

Difficulties with everyday tasks Difficulty with words and numbers Confusion in familiar environments Memory loss Changes in mood and behaviour

Dementia a public health priority

7, 8]. I criteri per la scrematura sono stati quattro: l’esistenza di informazioni sufficienti per consentire il calcolo dei punteggi di rischio individuali, la corrispondenza tra le variabili predittive usate e quelle disponibili nel set di dati dello studio 10/66, l’inclusione nel modello di rischio di variabili semplici da ottenere (escludendo quindi i dati di neuroimaging), l’accuratezza predittiva del modello definita da un indice di concordanza ≥ 0,70.

Ne è derivata una selezione di cinque modelli esistenti da validare.

Il modello CAIDE (Cardiovascular Risk Factors, Aging, and Dementia Risk Score), basato su fattori di rischio cardiovascolare, invecchiamento e demenza era stato testato in Finlandia con lo studio di Miia Kivipelto e altri. [9]

Il modello AgeCoDe (Study on Aging, Cognition and Dementia) [10] è stato sviluppato da uno studio tedesco sull’invecchiamento in relazione a capacità cognitiva e demenza, che ha indagato principalmente il morbo di Alzheimer.

Il modello ANU-ADRI (Australian National University Alzheimer’s Disease Risk Index) [11] propone una serie molto ampia di fattori biologici e ambientali, che vanno dalla massa corporea al colesterolo, dalla attività fisica svolta all’educazione, ed è stato testato sia negli Stati Uniti sia in Svezia.

Il modello BDSI (Brief Dementia Screening Indicator) [12] era stato applicato su ultrasessantacinquenni in diverse indagini condotte sulla popolazione statunitense.

Il modello BDRM (Rotterdam Study Basic Dementia Risk Model) [13] era stato testato in Olanda su una popolazione di età compresa tra i sessanta e i novantasei anni.

Tutti e cinque i modelli sono stati applicati con l’uso della regressione di Cox. Per l’accuratezza è stato utilizzato l’indice C di Harrell, un indice di concordanza per i modelli che producono punteggi di rischio, che è stato fissato a un valore di 0,70. Questo limite è stato considerato indicativo di una capacità discriminatoria accettabile. La calibrazione, infine, è stata valutata statisticamente usando il test di Grønnesby e Borgan.

Il team ha così verificato ciascun modello in ciascuno dei Paesi individuati (Cina, Cuba, Repubblica Domenicana, Messico, Perù, Portorico e Venezuela) utilizzando gli algoritmi di previsione originali.

Al termine dello studio, 1.069 persone risultavano progredite nella demenza, con un tasso di incidenza di 24,9 casi per 1.000 persone all’anno. Il tasso più elevato si è avuto in Cina (207 casi; 25,3 ogni 1.000 persone all’anno). A seguire Repubblica Dominicana (165 casi, pari a 26,3 per 1.000 persone ogni anno), Venezuela (155 casi, pari a 29 su 1.000 persone all’anno), Portorico (153 casi; 27,4 ogni 1.000 persone all’anno) e Messico (130 casi, cioè 30,5 ogni 1.000 persone per anno). In coda, Cuba (182 casi, pari a 19,5 per 1.000 persone / anno) e Perù (77 casi, pari a 19,3 per 1.000 persone / anno).

Ogni modello, applicato in un contesto socio-economico per cui non era stato ideato, ha fornito risposte differenti. E non tutti i modelli presi in considerazione hanno dimostrato di poter essere trasportati su regioni meno sviluppate. Nello specifico, la ricerca ha trovato compatibilità per i modelli ANU-ADRI, BDSI e BDRM mentre hanno funzionato meno i modelli CAIDE e AgeCoDe.

In tutti i Paesi esaminati la capacità discriminatoria dei modelli CAIDE (0,52 ≤ c ≤ 0,63) e AgeCoDe (0,57 ≤ c ≤ 0,74) è risultata scarsa. I modelli ANU-ADRI (0,66 ≤ c ≤ 0,78), BDSI (0,62 ≤ c ≤ 0,78) e BDRM (0,66 ≤ c ≤ 0,78), spiegano i dati dello studio, hanno invece mostrato livelli simili di capacità discriminatoria rispetto a quelle delle coorti originali di sviluppo.

In generale i modelli hanno costantemente funzionato meglio in Perù e peggio nella Repubblica Dominicana e in Cina.

I tre modelli con la massima precisione predittiva per la demenza se utilizzati nelle aree LMIC si sono dunque rivelati il BDSI, il BDRM e l’ANU-ADRI.

In conclusione lo studio ha confermato che non tutti i modelli di previsione della demenza sviluppati negli HICs possono essere semplicemente replicati agli LMICs.

Tuttavia, hanno fatto notare gli autori, in attesa di nuovi indici di rischio e nuove combinazioni di variabili per adattare i modelli alle aree del pianeta meno sviluppate, lavorare sull’esistente è necessario ai fini delle politiche di previsione dell’insorgenza della demenza e di assistenza agli individui che ne vengono colpiti. Si potrebbe cominciare, suggeriscono, proprio dai modelli che si sono dimostrati replicabili.

L’urgenza con cui gli autori chiedono di intervenire è il riflesso di una condizione globale ancora oggi sottovalutata, ma che determina importanti ricadute sociali ed economiche ovunque nel mondo. Al punto che l’OMS ha chiesto a tutti gli Stati di intervenire redigendo il “Piano d’azione globale sulla risposta della sanità pubblica alla demenza 2017-2025” affinché entro il 2025 almeno La mappa estratta dallo studio di Stephan et al. mette in evidenza i tre modelli che hanno espresso maggiore precisione nell’applicazione in paesi a basso o medio reddito.

la metà dei casi di demenza sia diagnosticato, e di conseguenza affrontato, in almeno la metà dei Paesi.

Una delle chiavi principali per rendere praticabili simili indirizzi è proprio il lavoro sull’informazione e la riconoscibilità dei casi.

Nell’ottobre del 2018, in seguito al lancio del programma “Sustainable Development Goals” (SDGs) delle Nazioni Unite [14] la rivista The Lancet costituì una commissione dedicata a formulare una serie di proposte per declinare l’agenda dedicata al tema della salute mentale globale, cominciando proprio dall’abbattimento del divario nell’accesso alle terapie di intere popolazioni. Una sfida che tra gli obiettivi ha quello di ridurre l’enorme carico indiretto dei disturbi mentali. La commissione delineò un piano di azione basato su quattro pilastri [15].

In primo luogo, scrivono gli esperti, «la salute mentale è un bene pubblico globale ed è rilevante per lo sviluppo sostenibile in tutti i Paesi, indipendentemente dal loro status socioeconomico, poiché tutti i Paesi possono essere considerati Paesi in via di sviluppo nel contesto della salute mentale».

In secondo luogo suggerivano di perseguire pratiche cliniche capaci di tenere conto della diversità e della complessità dei bisogni collegati al benessere mentale degli individui o delle popolazioni. Il terzo punto coincideva con la consapevolezza che ogni individuo è il prodotto unico delle influenze sociali e ambientali a cui è esposto fin dalla prima infanzia, che si innestano su processi genetici e del neurosviluppo. Infine, la commissione sottolineava come la salute mentale fosse un diritto umano fondamentale e, per questo, richiede un approccio basato sui diritti per tutti.

A questi quattro principi si abbinava la proposta di alcune azioni mirate al trattamento del disturbo mentale con la stessa accuratezza e attenzione usata per le malattie fisiche, anche per ridurne l’impatto sociale ed economico, abbattere lo stigma sociale collegato, sostenere il ricorso alle tecnologie digitali per la cura e il monitoraggio. Questo a partire dalla premessa che la fattibilità di ciascuna sia collegata alla disponibilità di risorse umane e finanziarie di ciascun Paese e, spesso, delle varie aree di ogni Paese.

Anche il gruppo guidato dalla professoressa Stephan, nella propria ricerca, ha dovuto porre alcune questioni sulla scarsa omogeneità di risposte tra le diverse regioni osservate. Sebbene tutti i siti fossero situati in LMICs, spiegano i ricercatori, i Paesi differiscono culturalmente e presentano differenze molto profonde rispetto ai profili di rischio della malattia, agli indicatori del tasso di mortalità e dell’aspettativa di vita, ai sistemi politici ed economici (compresa, quindi, la spesa sanitaria in bilancio). Anche tra il Perù e la Repubblica Dominicana, entrambi Stati dell’America Latina, emergono distanze notevoli.

L’idea della salute mentale globale è basata ormai su un’ampia e consolidata letteratura. La ricerca scientifica ha negli anni dimostrato la forte associazione tra lo svantaggio sociale e la cattiva salute mentale [16]. Il World Mental Health Surveys, un progetto collaborativo dell’OMS, dell’Università di Harvard e dell’Università del Michigan, ha riferito che una persona su cinque con disturbo depressivo non riceve un trattamento adeguato nei Paesi ad alto reddito: il dato, nei LMICs scende a uno su ventisette [16].

Di qui, l’auspicio degli autori dello studio che la ricerca svolta possa almeno stimolare nell’utilizzo di modelli esistenti, seppur adeguati, per monitorare e prevedere l’insorgenza della demenza nei luoghi più disagiati del pianeta. In attesa che si possano sviluppare modelli specifici anche per quei territori del mondo. [1] Stephan BCM, Pakpahan E, Siervo M et al, Prediction of dementia risk in low- and middle-income countries (the 10/66 Study): an independent external validation of existing models, Lancet Glob Health. 2020; 8 : e524-e535 [2] The 10/66 Dementia Research Group (https://www.alz. co.uk/1066/ ) [3] Rodriguez FS, Roehr S, Challenges in dementia risk prediction in low-income and middle-income countries, Lancet Glob Health. 2020 [4] Kawooya MG, Training for rural radiology and imaging in sub-Saharan Africa: addressing the mismatch between services and population., J Clin Imaging Sci. 2012; 2: 37 [5] Global action plan on the public health response to dementia 2017–2025. World Health Organization, Geneva2017 (https://www.who.int/mental_health/neurology/dementia/action_ plan_2017_2025/en/) [6] Stephan BCM, Kurth T, Matthews FE, Brayne C, Dufouil C, Dementia risk prediction in the population: are screening models accurate?, Nat Rev Neurol. 2010; 6: 318-326 [7] Tang EY, Harrison SL, Errington L et al., Current developments in dementia risk prediction modelling: an updated systematic review., PLoS One. 2015; 10: e0136181 [8] Hing Tang EY, Robinson L, Maree Stephan BC, Dementia risk assessment tools: an update., Neurodegener Dis Manag. 2017; 7: 345-347 [9] Kivipelto M, Ngandu T, Laatikainen T, Winblad B, Soininen H, Tuomilehto J, Risk score for the prediction of dementia risk in 20 years among middle aged people: a longitudinal, population-based study., Lancet Neurol. 2006; 5: 735-741 [10] Jessen F, Wiese B, Bickel H et al., Prediction of dementia in primary care patients., PLoS One. 2011; 6: e16852 [11] Anstey KJ, Cherbuin N, Herath PM, Development of a new method for assessing global risk of Alzheimer’s disease for use in population health approaches to prevention., Prev Sci. 2013; 14: 411-421 [12] Barnes DE, Beiser AS, Lee A et al., Development and validation of a brief dementia screening indicator for primary care., Alzheimers Dement. 2014; 10 (65.e1): 656 [13] Licher S, Leening MJG, Yilmaz P et al. Development and validation of a dementia risk prediction model in the general population: an analysis of three longitudinal studies., Am J Psychiatry. 2019; 176: 543-551 [14] The Sustainable Development Goals (SDGs) https://www. undp.org/content/undp/en/home/sustainable-development-goals. html [15] The Lancet Commission on global mental health and sustainable development, The Lancet, Vol. 392, No. 10157 [16] Lund C, Breen A, Flisher AJ, et al. Poverty and common mental disorders in low- and middle-income countries: a systematic review. Soc Sci Med 2010; 71: 517–28. [F] Thornicroft G, Chatterji S, Evans-Lacko S, et al. Undertreatment of people with major depressive disorder in 21 countries. Br J Psychiatry 2017; 210: 119–24. [L] Prina AM, Acosta D, Acosta I et al., Cohort profile: the 10/66 Study. Int J Epidemiol. 2017; 46 (406i): 406.

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