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Le basi genetiche della malattia di Alzheimer
Nuovi studi sull’argomento hanno identificato nuovi loci sesso-specifici utili alla diagnosi precoce
di Giada Fedri
La malattia di Alzheimer (AD) è una patologia neurodegenerativa progressiva ed irreversibile, circa 44 milioni di persone nel mondo ne sono affetti o soffrono di una forma di demenza correlata ad essa, con una previsione di incremento di circa 4,6 milioni di nuovi casi che potrebbe quasi raddoppiare entro il 2030 [1], se si considera il costante invecchiamento della popolazione mondiale e l’aumento dell’aspettativa di vita nei paesi più sviluppati.
La maggior parte delle forme di Alzheimer è definita sporadica, che si manifesta quindi in assenza di ereditarietà generazionale e spesso esordisce dopo i 65 anni. In altri casi, i sintomi del morbo si manifestano in età più giovanile, definiti per questo pazienti ad esordio precoce, e le caratteristiche della malattia cambiano a seconda del momento della vita in cui essa si sviluppa. Si ipotizza che quanto prima la malattia si presenti tanto più il fattore genetico sia prevalente infatti, più della metà dei soggetti
ad esordio precoce ha una base familiare, ereditaria. La trasmissione della patologia è di tipo autosomico dominante, il che significa che la mutazione genetica responsabile è trasmessa al 50% dei figli. Tuttavia, la predisposizione genetica della forma non mendeliana è considerevole anche per i pazienti con esordio tardivo, con una stima dell’ereditarietà del 60-80% [2]. Nonostante anni di ricerche abbiano svelato un gran numero di informazioni riguardo l’Alzheimer, la maggior parte delle cause rimane un mistero, in particolare nei casi di insorgenza sporadica, dove oltre alla combinazione genetica si associano i fattori ambientali e lo stile di vita.
Uno degli obiettivi principali della ricerca sull’AD è quello di comprendere l’eziologia genetica e la sua relazione con la neuropatologia: l’esplosione di nuove tecniche per esplorare il DNA e la biologia molecolare negli ultimi due decenni ha illuminato molti degli enigmi relativi alla neurodegenerazione. I tentativi riusciti a metà degli anni ‘80 di sviluppare metodi per © pathdoc/www.shutterstock.com
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purificare i depositi e gli agglomerati patologici dal cervello post-mortem di pazienti affetti da AD, hanno infatti permesso l’identificazione della proteina β amiloide (Aβ) come principale molecola costituente le placche a livello sinaptico, e la proteine tau come componente primaria dei grovigli neurofibrillari; permettendo inoltre il loro isolamento e sequenziamento. L’ipotesi che la malattia sia causata dal graduale accumulo e aggregazione di Aβ, ha guidato le prime scoperte genetiche e ha aiutato a dirigere gli studi verso la ricerca dei geni causali. Il primo gene identificato fu il precursore della beta amiloide (APP), proteina transmembrana che, clivata da particolari enzimi denominati secretasi, porta alla formazione e al deposito di specifici frammenti di Aβ. In condizioni normali, l’APP è costitutivamente prodotto da tutte le cellule [3] e come monomero, gioca un ruolo importante nella crescita e nella riparazione dei neuroni, è quindi un fattore fisiologico e protettivo che potenzia la plasticità sinaptica. Quando mutato invece, è fortemente coinvolto nell’eziopatogenesi della malattia di Alzheimer poiché porta ad una produzione anomala di frammenti di β-amiloide sotto forma di aggregamenti fibrillari, tossici per i neuroni. Le mutazioni del gene APP sono responsabili del 2-3% dei casi di Alzheimer a trasmissione familiare, portano alla forma precoce e quindi più aggressiva della malattia [4]: ad oggi sono state identificate circa quaranta mutazioni missenso di APP che si raggruppano quasi tutte in corrispondenza dei siti di clivaggio da parte dalle secretasi β, γ o α [5], [6].
Una curiosa scoperta fu la localizzazione del gene APP sul cromosoma umano 21 [31] che spiegò lo sviluppo specifico della neuropatologia simile all’AD, spesso accompagnata da declino cognitivo, nei pazienti con trisomia 21 (Sindrome di Down). Tali soggetti mostrano infatti depositi di Aβ immaturi noti come placche diffuse già nella seconda decade di vita e successivamente sviluppano placche neuritiche (amiloidi) mature e grovigli neurofibrillari indistinguibili da quelle riscontrate in pazienti con AD.
Oltre alle mutazioni, anche le duplicazioni geniche sono state associate a forme familiari della malattia ad esordio precoce [7], in particolare di due geni autosomici dominanti: la Presenilina 1 ( PSEN1 ) e la Presenilina 2 ( PSEN2) [8]–[11], proteine che hanno la funzione di frammentare la proteina amiloide e per questo motivo il loro alterato funzionamento potrebbe causare l’accumulo di Aβ. Quest’ultime sono componenti essenziali del complesso delle γ-secretasi, che catalizzano la scissione delle proteine di membrana, inclusa l’APP, incrementando la formazione di particolari frammenti di Aβ e favorendone il loro accumulo [12]. Le alterazioni di PSEN 1, ad oggi classificate come cinquanta diverse mutazioni, rappresentano la causa più comune di origine genetica della malattia di Alzheimer familiare ad esordio precoce (28-60 anni), mentre sono note solo 3 mutazioni di PSEN2, associate all’eziogenesi sia precoce che tardiva. Insieme, le mutazioni di PSEN1, PSEN2 e APP sono responsabili solo del 5-10% dei casi di Alzheimer ad esordio precoce, ne aumentano il tasso di progressione e la gravità e attualmente sono gli unici tre geni alla base dei test genetici predittivi.
E per quanto riguarda invece l’esordio tardivo? Finora il principale candidato è il gene che codifica per l’apoliproteina E (ApoE), appartenente alla famiglia di proteine che legano e trasportano i lipidi, prodotte principalmente dal fegato e dai macrofagi nei tessuti periferici, dove mediano il metabolismo del colesterolo; e dagli astrociti nel sistema nervose centrale, dove trasportano il colesterolo nei neuroni e nel cervello. Alcuni studi indicano che nei casi di AD, la proteina viene clivata da enzimi sconosciuti e che i frammenti risultanti interagiscono con le proteine del citoscheletro per formare le tipiche strutture neurofibrillari aggrovigliate [13].
APOE è un gene polimorfico, ha quindi diverse forme alleliche, e le principali sono ɛ2, ɛ3 ed ɛ4. Studi precedenti hanno dimostrato come quest’ultima sia responsabile della formazione dei grovigli neurofibrillari [13] caratteristici del morbo, mentre APOɛ2 e APOɛ3, non sembrano essere connesse ad esso. Al contrario, ci sono prove che suggeriscono che l’allele ɛ2 possa avere un effetto protettivo e ritardi l’età di insorgenza [14] mentre è ɛ3, il più comune, sembra non aumentare né ridurre il rischio.
A livello mondiale, si stima che il 14% della popolazione abbia il gene APOɛ4, mentre nei pazienti affetti da Alzheimer la percentuale raggiunge il 61%, indicando una chiara connessione tra la presenza dell’allele e l’AD. Infatti chi mostra due alleli ε4 ha fino a 20 volte più rischio di sviluppare l’AD rispetto a chi esprime le altre forme alleliche [15], per questi motivi è ad oggi il fattore di rischio più significativo per lo sviluppo di AD [16] con un effetto dose-dipendente sull’età di esordio [17].
Nonostante l’evidenza accertata dell’APOɛ4 come fattore di suscettibilità e di rischio per l’AD insorgenza tardiva [18], il suo valore nella previsione della malattia in ambito clinico è limitato non solo a causa delle attuali potenzialità terapeutiche ma anche perché di per se non è né necessario né sufficiente a causare la ma© Atthapon Raksthaput/www.shutterstock.com
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lattia [16], [17]: fino al 75% delle persone eterozigoti per APOE ɛ4 non sviluppano AD durante la vita e fino al 50% delle persone affette non esprimono l’allele ɛ4 ad alto rischio [16]; inoltre, i casi correlati a tale allele rappresentano il 27,3% dell’ereditabilità della malattia che è in realtà stimata intorno all’80% [19].
Basti pensare che in alcuni casi di Alzheimer familiare ad esordio tardivo, le mutazioni non sono state trovate in nessuno dei tre geni. Ciò suggerisce che almeno un altro gene è responsabile, che per ora non è stato identificato. Enormi sforzi di ricerca a livello mondiale hanno rilevato loci di rischio genetico aggiuntivi per la forma geneticamente complessa di AD, è chiaro che comprendere il ruolo della genetica nella diagnosi e nella previsione del rischio nell’AD complesso ad esordio tardivo è molto meno semplice, proprio perché con l’avanzare dell’età aumenta la pressione di altri fattori esterni oltre alla pura predisposizione genetica, come l’ambiente e lo stile di vita, il che complica ulteriormente un quadro già fortemente intricato ed oscuro.
Sono stati identificati altri possibili geni associati all’aumentata suscettibilità alla malattia, non ancora confermati ufficialmente, i principali candidati sono: SORL-1 e CH25H (coinvolti nel riciclaggio e nella trasformazione dell’APP); ACE (implicato nella regolazione della pressione arteriosa e nella degradazione di Aβ); GAB2 e la transferrina per il loro ruolo nella formazione degli aggregati di tau iperfosforilata [20].
La componente genetica stessa è complessa ed eterogenea, non esiste un singolo modello che spieghi le modalità di trasmissione della malattia, o come le mutazioni e i polimorfismi genetici possano interagire tra loro e a loro volta con i fattori ambientali. Sebbene la conoscenza delle cause genetiche e dei fattori di rischio dell’AD stia avanzando, sorge la domanda su come tradurre e trasporre queste intuizioni in migliori strumenti per incrementare la salute pubblica. L’implementazione più diretta è la ricerca di altri strumenti per la diagnosi a più ampio spettro. Studi di associazione genome-wide (GWAS) [20], [21] su larga scala e “l’International Genomics of Alzheimer’s Project” hanno notevolmente migliorato le conoscenze relative alle basi genetiche di AD ad esordio tardivo, identificando almeno 20 loci di rischio genetico aggiuntivi, tra cui la Clusterina (CLU), una proteina pleiotropica che potrebbe essere coinvolta nella patogenesi attraverso trasporto lipidico, l’infiammazione e influenza diretta sull’aggregazione Aβ e la sua clearance dal cervello e la proteina SORL1, coinvolta nel riciclaggio dell’APP [22]. Le varianti ereditate di SORL1 analizzate nei casi di AD, sono state associate significativamente alle forme ad insorgenza tardiva, anche se si discute se sia un valido candidato e se sia classificabile come fattore di suscettibilità piuttosto che come gene deterministico [22].
Le nuove tecnologie che sfruttano un’ampia copertura dei marcatori genetici attraverso studi di associazione a livello dell’intero genoma, metodi statistici avanzati e progetti di collaborazione per aumentare il numero di casi disponibili per lo studio, possono aiutare a superare alcuni degli ostacoli alla ricerca di ulteriori geni associati alla malattia. Un gruppo di ricerca dall’Università di Bonn ha proposto un interessante approccio di studio, basato sulla restrizione del campo di ricerca ad altri fattori predittivi dell’influenza della malattia oltre all’età, tra cui la razza [23], ipertensione arteriosa [24] e il sesso [25]. E’ proprio sulla selezione di quest’ultima categoria che si basa il nuovo lavoro, il principio è quello di focalizzare l’attenzione su un campo più limitato come l’analisi specifica di genere, partendo dal fatto che le donne hanno il doppio del rischio di sviluppare l’AD rispetto agli uomini, la progressione della malattia è più rapida e la neurodegenerazione è più veloce negli individui di sesso femminile [26]. Al contrario, gli uomini con AD hanno una mortalità più elevata rispetto alle donne. Partendo da questi ragionamenti, poche settimane fa il gruppo di ricerca ha identificato quattro nuovi loci: GRID1 , RIOK3 , MCPH1 e ZBTB7C , che mostrano un’associazione specifica tra il sesso e lo sviluppo del morbo di Alzheimer [27]. E’ il primo lavoro di sequenziamento dell’intero genoma associato all’analisi degli effetti specifici del sesso nell’AD. Il riscontro più convincente è nel gene ZBTB7C che codifica per un repressore trascrizionale delle metalloproteasi di membrana (MMP), già sospettate di essere coinvolte nella neuropatologia dell’AD[28], che ora dimostra conferire un aumento del rischio di AD nelle donne e protezione nei maschi. Questo nuovo gene, era già accusato di aumentare la suscettibilità all’ictus ischemico attraverso la modulazione dell’apoptosi neuronale [29]. MCPH1 invece, codifica una proteina di risposta ai danni al DNA, implicata anche nella condensazione dei cromosomi, nella regolazione dello sviluppo della corteccia cerebrale fetale e nella neurogenesi [30].
La scoperta interessante è che c’è una differenziazione della previsione in base al sesso, anche negli altri tre geni scoperti (MCPH1, RIOK3 e GRID1): specifici alleli infatti conferiscono un aumento del rischio nelle femmine e protezione nei maschi, effetto opposto a quello mostrato da ZBTB7C.
Oltre all’identificazione di nuovo materiale di studio ed analisi, questa scoperta dimostra come lo stesso allele possa avere effetti diametralmente opposti in base al sesso, e apra nuovi orizzonti rispetto a quelli studiati finora.
Allo stato attuale, lo sviluppo di terapie ottimizzate alla riduzione degli effetti e dei sintomi della malattia si è concentrato principalmente sulle prime intuizioni dei meccanismi molecolari e sui percorsi coinvolti nell’AD. Da decenni la disputa su quale delle alterazioni, le placche di amiloide extracellulare o la degenerazione neurofibrillare costituisse il primum movens della malattia divide i ricercatori, che si sono focalizzati principalmente su queste due opzioni. La costante scoperta di nuovi aspetti genetici, le ipotesi di ulteriori processi che mettano in relazione i due contrassegni istopatologici, l’evidenza di possibili combinazione di più fattori genetici ed acquisiti, stanno fortunatamente condizionando lo sviluppo di nuovi quadri degenerativi e meccanismi molecolari alternativi, aprendo le porte a nuove macro-aree di studio.
Man mano che la comprensione dei geni coinvolti nella malattia evolve, la capacità di identificare individui a rischio e di soggetti che potrebbero beneficiare di un trattamento più specifico e di una prevenzione precoce aumenta. Anche se c’è ancora molta strada da fare nel campo dell’AD prima che venga chiarito in modo netto e preciso il quadro patologico, c’è motivo di cauto ottimismo nella continua scoperta di nuovi protagonisti coinvolti nell’AD e nell’impatto che la profilazione genetica molecolare può avere nella decifrazione della biochimica di una patologia così complessa, nella sua previsione, prevenzione e cura.
Bibliografia
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