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Esposizione ripetuta a taglie diverse e soddisfazione del corpo

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SCIENZE

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Uno studio sviluppato ad Oxford indaga l’impatto di una frequente visualizzazione di forme differenti sull’ideale fisico delle donne

Il rapporto con l’immagine che si ha del proprio corpo e di quello altrui è una delle problematiche rilevanti nella diffusione dei disturbi alimentari (DA), ed è anche uno degli aspetti più indagati dalla ricerca che lavora su queste malattie complesse.

I disturbi dell’alimentazione, ricorda il Ministero della Salute [1], sono più frequenti nella popolazione femminile che in quella maschile: gli uomini rappresentano il 5-10% di tutti i casi di anoressia nervosa (AN), il 10-15% dei casi di bulimia nervosa. L’incidenza dell’anoressia nervosa è di almeno 8-9 nuovi casi per 100mila persone in un anno tra le donne, mentre per gli uomini è compresa fra 0,02 e 1,4 nuovi casi.

Il rischio di anoressia nervosa nelle donne è stimato tra lo 0,3% e l’1% [2]. I disturbi alimentari sono, inoltre, sempre più riconosciuti come una causa importante di morbilità e mortalità nei più giovani.

Proprio sulle donne e sull’incidenza della relazione con l’immagine corporea si è concentrata buona parte della letteratura sui DA. In particolare, un recente studio svolto ad Oxford ha indagato quanto l’esposizione a corpi di varie forme influenzi la costruzione dell’immaginario, del giudizio e della consapevolezza del proprio corpo. Il lavoro [3], coordinato da Helen Bould del dipartimento di Psichiatria dell’Università di Oxford, nel Regno Unito, è stato pubblicato sulla rivista Royal Society Open Science.

La ricerca di Bould e colleghi ha valutato sia la qualità sia la quantità dell’esposizione, cercando di approfondire alcuni aspetti del meccanismo di costruzione della propria immagine poco indagati, a partire proprio dal tempo e dalla varietà dei corpi a

cui le donne vengono esposte.

Con uno studio che ha coinvolto un centinaio di donne, i ricercatori hanno provato a colmare alcune lacune delle indagini precedenti basandosi sulla esposizione multipla e ripetuta in un preciso arco di tempo. Questo nella consapevolezza che la sperimentazione ha coinvolto solo donne (studentesse, ricercatrici) reclutate nel campus, dunque afferenti a un medesimo ambiente, senza possibilità concrete di generalizzare in maniera estesa i risultati ottenuti.

Tuttavia, l’indagine è particolarmente interessante perché propone un metodo più complesso e articolato rispetto a numerosi studi analoghi sul tema.

L’attualità della problematica sul versante della salute pubblica è rilevante. Già nel 2011 una ricerca dell’Università del Texas [4] sul rischio di insorgenza dei disturbi alimentari aveva verificato come l’insoddisfazione del proprio corpo ne fosse uno dei principali fattori predittori. In particolare le adolescenti che avevano mostrato un livello di insoddisfazione del proprio corpo superiore al 24% erano sottoposte all’emergere di disturbi alimentari quattro volte di più (con un 24% di incidenza rispetto al 6%). La stessa ricerca aveva segnalato una maggiore incidenza (di quasi 3,6 volte) dei disturbi alimentari nelle giovani donne che si cimentavano in diete autoimposte.

Anche il tema dell’obesità è ormai al centro di pratiche e politiche che cercano di affrontare quello che è riconosciuto come un problema globale, dalle importanti ricadute di carattere sociale ed economico. Di qui la necessità di lavorare su uno dei fattori che incidono sul rischio, la percezione del corpo appunto.

Lo studio di Bould e colleghi parte da una premessa consolidata secondo cui l’insoddisfazione del corpo è basata su due componenti: la percezione della propria dimensione e una componente cognitiva dell’insoddisfazione verso la forma del corpo. Di qui, l’ipotesi di lavoro: modificando una delle due componenti dovrebbe, dunque, essere possibile agire sull’effetto. Se si potesse cambiare la percezione della propria taglia, allora dovrebbe essere possibile modificare la soddisfazione percepita col cambiare della stessa.

Per indagare questa possibilità il gruppo ha lavorato sull’esposizione continua delle partecipanti (5 minuti per due volte al giorno) a immagini di donne di dimensioni diverse. La ricerca è stata sviluppata usando il Morphed Photographic Figure Scale [5], un progetto realizzato da molti degli autori dello studio di Oxford, con cui sono state costruite otto sequenze di immagini del corpo femminile, modificate usando tecniche di morphing per simularne in modo realistico i cambiamenti in base alla variazione possibile del peso corporeo.

La letteratura da tempo suggerisce che sia possibile cambiare la percezione della dimensione corporea altrui esponendo l’individuo da interrogare a corpi “target” di varie taglie: una maggiore esposizione a corpi più sottili porterà l’individuo a stabilire come “normali” dimensioni più piccole. Viceversa, un’esposizione prolungata a corpi di taglia grande rende maggiore la dimensione della taglia “normale”.

L’abitudine a proporre nella ribalta mediatica corpi minuti e sottili, soprattutto quando il modello di riferimento è quello della donna, è considerata tra i principali fattori sponsor della diffusa percezione distorta del corpo. Proprio i meccanismi di esposizione sono stati spesso indagati per valutare le reazioni che gli individui mettono in atto [6]. Uno studio dedicato al “volto mutevole dell’obesità” è stato sviluppato nel 2014 da Eric Robinson e Paul Christiansen del dipartimento di Scienze psicologiche dell’Università di Liverpool: la ricerca espose i partecipanti a immagini di maschi obesi o normopeso per valutare come questo cambiava successivamente i giudizi sugli uomini in sovrappeso. In tre tipologie differenti di sperimentazione per valutare il giudizio generale sull’obesità e i criteri di determinazione del sovrappeso “accettabile”, la maggiore esposizione all’obesità risultava collegata a una maggiore accettazione dell’obesità [7]. Negli anni diversi studi hanno approfondito il tema [8, 9]: la percezione visiva è fortemente influenzata dall’esperienza e dagli stimoli che ci circondano. L’esposizione prolungata sollecita un meccanismo per cui viene distorta la percezione nella direzione opposta dello stimolo [10].

Uno studio del dipartimento di Psicologia della Macquarie University di Sydney ha indagato [11] il meccanismo sapendo che nonostante la ricerca sull’argomento si sia concentrata sempre su processi socio-cognitivi - ne è un esempio tipico l’interioEsempi di stimoli visivi utilizzati nella ricerca: (a) “sottopeso”; (b) “né sovrappeso né sottopeso”; (c) “sovrappeso”.

rizzazione dell’immaginario “ideale” diffuso dai media - le basi percettive del fenomeno rimangono in gran parte sconosciute. Quasi tutti gli studi hanno approfondito la dimensione corporea in sé, ma in realtà questo dato dipende tanto dal grasso in eccesso quanto dalla massa muscolare, che sulla salute hanno un impatto molto diverso.

Tutta questa letteratura già prodotta mostra un limite importante nella dimensione sempre ridotta del campione usato di volta in volta come riferimento. Inoltre è molto facile che in queste tipologie di indagini il soggetto partecipante intuisca l’obiettivo della domanda e cerchi di rispondere sforzandosi di essere un “buon soggetto”, ipotizzando in autonomia la risposta migliore e falsando così il responso.

Lo studio di Bould e colleghi ha provato ad aggirare queste limitazioni. Sono stati costituiti tre gruppi casuali di donne che hanno completato un test one-back ogni giorno, due volte al giorno, per una settimana. Il test, basato su stimoli visivi e comunemente utilizzato nelle neuroscienze cognitive per misurare la memoria di lavoro, è stato somministrato mostrando al posto del comune oggetto visivo neutro (per esempio un quadrato che compare in varie posizioni di una tabella) alcune immagini di donne modificate per apparire “sottopeso”, “sovrappeso” o “né sovrappeso né sottopeso”.

Stando alla letteratura esistente, un allenamento ripetuto usando “sovrappeso” o “sottopeso” invece di immagini “normali” avrebbe portato i partecipanti a vedere le immagini dei corpi di altri come più piccole, e viceversa. Il risultato generale è stato che per 93 donne di età compresa tra i 18 e i 30 anni le immagini di altre donne sono state percepite come più grandi in seguito all’esposizione a corpi sottopeso (e viceversa).

Il reclutamento delle partecipanti allo studio è avvenuto tramite call pubblica, passaparola o manifesti nel campus dell’Università di Oxford. A chi aveva risposto è stato poi chiesto di compilare un questionario per valutare l’esistenza dei criteri di inclusione. In particolare era necessario che le volontarie avessero un’età compresa tra 18 e 30 anni e un indice di massa corporea compreso tra 18 e 25 anni kg/m2, calcolato in base ai dati riportati dalle partecipanti. Sono state escluse tutte le donne che soffrivano (o avevano sofferto) di un disturbo alimentare o fossero sottoposte a trattamenti per disturbi mentali o assumessero farmaci capaci di agire sul sistema cognitivo o droghe. Tra i criteri di esclusione, inoltre, anche il consumo di più di 10 sigarette al giorno, la gravidanza in corso, l’essere dislessica o celiaca.

C’è stata una prima fase di addestramento in cui ciascuno dei tre gruppi ha visionato delle immagini per stabilire la prospettiva visiva di riferimento.

Nel corso dei test successivi, la prima misurazione coincideva con la risposta delle partecipanti alla richiesta di indicare la dimensione del proprio corpo su una scala analogica visiva primaria (VAS) a 10 punti, da troppo sottile (0) a troppo grasso (10). Il risultato secondario rifletteva sulla stessa scala la soddisfazione verso la propria taglia: da molto soddisfatto (0) a molto insoddisfatto (10).

Per misurare la dimensione corporea percepita negli altri, le partecipanti hanno valutato una serie di 90 immagini di corpi femminili [12], simili a quelle utilizzate nella sessione di allenamento, dovendo rispondere alla domanda: questa donna è sovrappeso, sottopeso o né sovrappeso né sottopeso?

Ventiquattro di quelle 90 immagini erano state utilizzate nella sessione di addestramento (otto in ciascun gruppo). Di conseguenza ciascuna partecipante, durante le fasi di test è stata esposta a un set di immagini che in parte aveva già visualizzato.

Un ulteriore test ha richiesto l’utilizzo di un avatar che, agendo sul tablet, poteva essere modificato in punti specifici dell’anatomia, quali busto o fianchi, per rispondere in modo più preciso sulla percezione delle dimensioni. L’operazione è stata effettuata sia sulla propria dimensione sia sulla dimensione ideale: sono state presentate due immagini, create per avere la stessa altezza della partecipante, ma l’una con un peso maggiorato del 10%, l’altra inferiore del 10%. Le partecipanti le hanno modificate secondo percezione e ideale.

Per tutte le partecipanti inoltre, sono state raccolte informazioni sulla scala di soddisfazione della forma del corpo, su emozioni ed affetti, sull’umore e l’autostima, sul livello di istruzione e l’uso dei media.

A garanzia di maggiore profondità del risultato, le partecipanti hanno anche valutato aspetti correlati alla dimensione percepita del proprio corpo, i vestiti per esempio. A tutte è stato chiesto di valutare un set contenente 60 immagini di abiti, tra co- © aijiro/www.shutterstock.com

stumi da bagno, pantaloni, cappotti, tubini, assegnando un valore al livello di confort: nel contesto adeguato, quanto ti sentiresti a tuo agio con un vestito simile?

Infine, per provare a valutare gli effetti dell’esposizione, durante la fase preliminare di addestramento, le partecipanti a un certo punto sono state lasciate sole ed è stata offerta una tazza di tè o caffè, con una ciotola contenente 100 g di biscotti, dolci e fiocchi di avena. Per ciascuna partecipante è stata poi misurata la quantità di cibo consumato.

Il team di ricerca ha comunicato che al termine della sperimentazione non ha rilevato differenze tra i tre gruppi rispetto alle scelte dell’outfit o dei biscotti mangiati.

Ma tutti i dati emersi hanno confermato l’influenza dell’esposizione rispetto alla definizione di un immaginario differente.

Dopo la fase di addestramento con le immagini sottopeso, le donne hanno giudicato 6,43 immagini in meno come “sottopeso” e 6,41 immagini in più come “sovrappeso”. Al contrario, in seguito all’addestramento con immagini di corpi in sovrappeso, le donne hanno visualizzato 7,42 immagini in più come corpi “sottopeso” e 5,92 immagini in meno come “sovrappeso”.

Quanto agli esercizi svolti con l’avatar, spiegano gli autori, l’addestramento con immagini sottopeso ha portato a rivelare una dimensione ideale più piccola del corpo, rispetto alle partecipanti che avevano seguito la fase preliminare tramite esposizione a immagini di corporature normali o in sovrappeso.

In sostanza, la percezione delle dimensioni dei corpi è cambiata in base alle immagini mostrate durante l’addestramento.

Il risultato che non ha rispettato le previsioni è, invece, quello relativo alla misurazione delle proprie dimensioni e del grado di soddisfazione rispetto alla propria corporatura, segnalato attraverso la modifica dell’avatar. Le partecipanti, ammette il gruppo di ricerca, contrariamente alle ipotesi iniziali, hanno creato avatar di dimensioni più ridotte dopo l’allenamento con immagini sottopeso. Probabilmente - questa l’ipotesi fatta - gli effetti dell’addestramento sulla percezione delle dimensioni dell’avatar hanno superato gli effetti dell’adattamento della percezione della propria dimensione.

Condivisi i risultati, Bould e colleghi nel paper ricordano come siano urgenti azioni per intervenire sulla prevenzione dei disturbi alimentari e sulla prevenzione dell’aumento del peso.

Una meta-analisi condotta nel 2011 [2] su 36 precedenti studi dedicati al tasso di mortalità tra gli individui con disturbi alimentari aveva verificato come fosse elevato il rischio di mortalità tra i pazienti, soprattutto nel caso di anoressia nervosa.

Analoga preoccupazione è diretta all’obesità, condizione che si porta dietro un importante carico negativo sia sulla salute dell’individuo sia sul contesto sociale, soprattutto rispetto al peso economico del sistema sanitario e della cura familiare.

Uno studio [13] condotto su quasi 20 milioni di persone distribuite in 186 Paesi ha rilevato che l’indice di massa corporea globale standardizzato per età è aumentato da 21,7 kg/m2 nel 1975 a 24,2 nel 2014 negli uomini e da 22,1 kg/m2 nel 1975 a 24,4 kg/m2 nel 2014 nelle donne. La ricerca era stata sviluppata dall’NCD Risk Factor Collaboration (NCD-RisC), una rete di scienziati che si occupano di salute, distribuiti nelle più prestigiose università e impegnati nella raccolta dei fattori di rischio delle malattie non trasmissibili per tutti i Paesi del mondo. Se il trend continuerà come accaduto per gli anni successivi al 2000, la probabilità di raggiungere l’obiettivo di un tasso globale accettabile di obesità nel mondo – si legge nella ricerca dell’NDC-RiisC - è praticamente pari a zero. La previsione è, invece, peggiorativa: entro il 2025 la prevalenza globale dell’obesità raggiungerà il 18% negli uomini e supererà il 21% nelle donne; l’obesità grave supererà il 6% negli uomini e il 9% nelle donne.

Poiché l’insoddisfazione del corpo è un obiettivo potenzialmente modificabile sia per la prevenzione che per il trattamento, è necessario agire in questa direzione. (S. L.).

Bibliografia

[1] Disturbi dell’alimentazione, portale del Ministero della Salute, data ultimo aggiornamento 21.04.2020 (http://www.salute. gov.it/portale/donna/dettaglioContenutiDonna.jsp?lingua=italiano&id=4470&area=Salute%20donna&menu=patologie) [2] Arcelus J, Mitchell AJ, Wales J, Nielsen S. 2011 Mortality rates in patients with anorexia nervosa and other eating disorders: a meta-analysis of 36 studies. Arch. Gen. Psychiatry. 68, 724-731 [3] Helen Bould, Katharine Noonan, Ian Penton-Voak, Andy Skinner, Marcus R. Munafò, Rebecca J. Park, Matthew R. Broome and Catherine J. Harmer 2020 Does repeatedly viewing overweight versus underweight images change perception of and satisfaction with own body size? R. Soc. open sci.7190704 [4] Stice E, Marti CN, Durant S. 2011 Risk factors for onset of eating disorders: evidence of multiple risk pathways from an 8-year prospective study. Behav. Res. Ther. 49, 622-627 [5] Skinner Aet al. 2017 The morphed photographic figure scale: creation and validation of a novel set of realistic female body stimuli (https://osf.io/ugjha/) [6] Brooks KR, Mond JM, Stevenson RJ, Stephen ID. 2016 Body image distortion and exposure to extreme body types: contingent adaptation and cross adaptation for self and other. Front. Neurosci. 10, 334 [7] Robinson E, Christiansen P. 2014 The changing face of obesity: exposure to and acceptance of obesity. Obesity 22, 1380-1386 [8] Robinson E, Kirkham TC. 2014 Is he a healthy weight? Exposure to obesity changes perception of the weight status of others. Int. J. Obes. 38, 663-667 [9] Sturman D, Stephen ID, Mond J, Stevenson RJ, Brooks KR. 2017 Independent aftereffects of fat and muscle: implications for neural encoding, body space representation, and body image disturbance. Sci. Rep. 7, 40392 [10] Hummel Det al. 2013 Neural adaptation to thin and fat bodies in the fusiform body area and middle occipital gyrus: an fMRI adaptation study. Hum. Brain Mapp. 34, 3233-3246 [11] Hummel D, Rudolf AK, Untch KH, Grabhorn R, Mohr HM. 2012 Visual adaptation to thin and fat bodies transfers across identity. PLoS ONE 7, e43195 [12] Skinner Aet al. 2017 The morphed photographic figure scale: creation and validation of a novel set of realistic female body stimuli https://osf.io/ugjha/ (accessed 22 March 2019) [13] Collaboration NCDRF. 2016 Trends in adult body-mass index in 200 countries from 1975 to 2014: a pooled analysis of 1698 population-based measurement studies with 19.2 million participants. Lancet 387, 1377-1396.

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