ISSN 0030-3305
maggio 2020
numero 168
Napoli: architettura internazionale anni ’70 - Telelavoro - Design quotidiano al tempo della vulnerabilità diffusa - L’Opificio Ber tozzi & Casoni: estetica, concetto e sapienza fabbrile - Tra il sacro e l’espositivo - Cucinare e consumare: la cucina-casa Quando i Giganti cadono. Fenomenologia della Memoria - Libri, riviste e mostre Spedizione in abbonamento postale / 70% Direzione commerciale imprese - Napoli
Grafica Elettronica
Selezione della critica d’arte contemporanea
rivista quadrimestrale di selezione della critica d’arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco Comitato scientifico Philippe Daverio Kenneth Frampton Vittorio Gregotti Juan Miguel Hernández León Aldo Masullo Vanni Pasca Franco Purini Joseph Rykwert
Comitato redazionale Roberta Amirante Pasquale Belfiore Alessandro Castagnaro Imma Forino Francesca Rinaldi Livio Sacchi Alberto Terminio Segretaria di redazione Emma Labruna
Website e digitalizzazione Ermes Multimedia digital design per la cultura Concept: Renato Piccirillo Sviluppo: Riccardo Marotta, Valeria Pazzanese Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 info: +39 081 7690783 - fax: +39 081 7705654 e-mail: rendefus@unina.it - elabruna@unina.it Amministrazione: 80128 Napoli, Via B. Cavallino, 35/G info: +39 081 5595114 - +39 081 5597681 e-mail: info@graficaelettronica.it Abbonamento annuale: Italia e 50,00 - Estero e 70,00 Un fascicolo separato: Italia e 18,00 - Estero e 25,00 Un fascicolo arretrato: Italia e 20,00 - Estero e 27,00 Grafica Elettronica
All’indirizzo www.opcit.it è disponibile l’intera collezione della rivista dal numero 1 del settembre 1964 ad oggi
P. Belfiore D. De Masi C. Langella
Napoli: architettura internazionale anni ’70 5 Telelavoro 17 Design quotidiano al tempo della vulnerabilità diffusa 31 F. Pirozzi L’Opificio Bertozzi & Casoni: estetica, concetto e sapienza fabbrile 48 A. Ferraro Tra il sacro e l’espositivo 61 E.W. Angelico Cucinare e consumare: la cucina-casa 69 F. Del Sole Quando i Giganti cadono. Fenomenologia della Memoria 80 Libri, riviste e mostre 91
Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Roberta Amirante, Federica Fiorillo, Chiara Pradella, Alberto Terminio.
Napoli: architettura internazionale anni ’70 PASQUALE BELFIORE
Un problema storiografico Tra il 1974 e il 1978 Napoli scrisse un capitolo importante della cultura architettonica internazionale con una serie di mostre e relativi cataloghi dedicati, in ordine di edizione, a Walter Gropius, Pietro Belluschi, all’Evoluzione dei grattacieli di Chicago, Van den Broek/Bakema, ai 100 anni di architettura a Chicago, James Stirling, Five architects NY, Louis Kahn, Paolo Soleri, Frank Lloyd Wright, Eduardo Catalano, Le Corbusier, Marcel Breuer. Dapprima, nel 1972, v’era stata una sorta di prologo generalista con la mostra a Boston dal titolo Naples & its region. Nel 1991, la post-fazione conclusiva con la laurea honoris causa data a Richard Meier. Ideatori e autori dell’intero ciclo furono Camillo Gubitosi e Alberto Izzo, allora giovani docenti della Facoltà di Architettura di Napoli. Nel 2019, a quattro decenni dalla sua ultimazione, questa esperienza è stata raccontata nella sua interezza e per la prima volta in un libro, un convegno e una mostra curati da Alessandro Castagnaro1. Perché un ritardo così vistoso per un evento culturale di rilevante portata? Da aggiungere: in una realtà come quella della Facoltà di Architettura di Napoli che nel corso del Novecento solo in due, tre occasioni ha messo in campo iniziative di respiro nazionale e internazionale. Una prima spiegazione del ritardo era già stata da noi proposta nel citato libro ed aveva un accento prevalentemente politico. All’interrogativo, si diceva, si potrebbe sbrigativamente rispon-
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dere: per scelte diverse o per le frequenti distrazioni di storici e critici; e poi, solo ora i protagonisti Gubitosi e Izzo, con Castagnaro curatore e Cosenza editore, hanno convenuto che vi siano la distanza storica adeguata e il clima giusto per questa iniziativa editoriale. Giustificazione verosimile, ma accessoria. Chi ha vissuto in presa diretta quella fase storica degli anni Settanta, chi ha partecipato della temperie culturale di quegli anni in Italia, nelle Facoltà di Architettura, qui a Napoli a Palazzo Gravina, sa bene che c’è dell’altro. C’è il discorso “difficile” da riprendere su quel periodo, sui grandi fermenti e rivolgimenti culturali ma anche sulla politica di rigida, spesso violenta interdizione verso persone e iniziative ritenute prive di specifici caratteri politico-ideologici, di sinistra estrema, ça va sans dire. È il caso delle grandi mostre napoletane degli anni Settanta inscritte tutte dentro la disciplina dell’architettura, senza sconfinamenti impropri e accentuazioni di parte. Questa scelta s’è rivelata positiva sulla lunga distanza, preservando il rilevante contenuto scientifico della rassegna che oggi riemerge intatto e senza zavorre ideologiche. Scelta perdente, in parte, nel presente storico d’allora che generò l’isolamento politico del ciclo di mostre da parte d’una minoranza in Facoltà e in città, ampiamente compensato però da una partecipazione numerosa e qualificata. Da questa polarità è nata in sede storiografica la più classica delle rimozioni, come accade per eventi ritenuti politicamente imbarazzanti. C’è tuttavia una seconda spiegazione, meno politica e più dentro un orizzonte storiografico che qui vogliamo riprendere, insieme ad ulteriori riflessioni sui saggi contenuti nei vari cataloghi che rappresentano il migliore e più durevole contributo fornito dalla rassegna napoletana alla storiografia architettonica internazionale. Un orizzonte storiografico sul quale gli assunti della “contemporaneità della storia” e della “distanza storica”, qui solo evocati, rivestono un ruolo importante per fornire un’ulteriore spiegazione al più volte citato ritardo. Per questi argomenti è d’obbligo il riferimento ai due volumi di Renato De Fusco Storia dell’idea di storia e «Artifici» per la storia dell’architettura, entrambi del 1998, tra i suoi lavori di ricerca più fertili. D’obbligo, ancora e per ovvie ragioni, la scelta del paragrafo dedicato a Benedetto Croce che inaugura nel primo volume il capitolo delle
teorie contemporanee sulla storia. Contiene il passo tratto da Teo ria e storia della storiografia ove Croce scrive che «Ogni vera storia è storia contemporanea» e giudica «semplici titoli di libri storici» quegli eventi che non sono presenti alla sua coscienza contemporanea. Il soggettivismo che sembra emergere da questa posizione, scrive De Fusco: va inteso come atteggiamento che nella sua radicale unilateralità mira soprattutto ad affermare un basilare principio: è oggetto di storia solo ciò che per un fondato motivo tocca i nostri più vivi interessi attuali. A con ferma di ciò vale quanto lo stesso autore scrive sul medesimo tema in un saggio successivo dove quel grado di scelta indivi duale si associa ad una più diffusa esigenza sociale: «Il biso gno pratico, che è nel fondo di ogni giudizio storico, conferi sce ad ogni storia il carattere di “storia contemporanea” per ché, per remoti o remotissimi che sembrino cronologicamente i fatti che vi entrano, essa è, in realtà, storia sempre riferita alla situazione presente, nella quale quei fatti propagano le loro vibrazioni» [R. De Fusco, Storia dell’idea di storia, ESI, Napoli 1998, p. 306]. Alla luce di questo principio, la scarsa o nulla attenzione iniziale e poi addirittura la rimozione dalla memoria collettiva della cultura architettonica napoletana riservate alle mostre degli anni Settanta potrebbero avere anche un’altra spiegazione. Essa ribalta in una certa misura l’interrogativo sul perché del ritardo nell’altro, storiograficamente più pertinente, sul perché proprio ora quella esperienza sia stata ripresa e valorizzata: perché solo ora la cultura architettonica napoletana ha avvertito che i fatti di allora erano in grado di propagare le loro vibrazioni sul presente, per riprendere le parole di Croce. Un presente difficoltoso e inerte voluto e gestito dalla generazione della discontinuità con la tradizione del Movimento Moderno. Riprendere, studiare e valorizzare un capitolo della nostra storia passata non ha avuto l’obiettivo di antistorici recuperi di “miniere abbandonate”, quanto di rinsaldare il legame tra storiografia e progetto, meglio ancora, di dare contenuto pieno e propositivo all’assunto della “storiografia come progetto” cui De Fusco dedica le pagine più convincenti e utili per la cultura degli architetti. Quanto al tema della distanza storica, esso è questione classicamente controversa si potrebbe dire, perché su di essa sono stati
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accumulati più pregiudizi ed equivoci di qualsiasi altro concetto con cui lavorano gli storici. Uno per tutti, quello che ancora sopravvive nella legislazione sulla tutela dei beni culturali che autorizza vincoli di tutela solo su opere che siano da noi distanti cinquanta o settant’anni in ragione della proprietà privata o pubblica del bene. In questa sede, ci si può limitare a sottoscrivere un’intelligente proposizione secondo cui la distanza storica si determina tra generazioni che hanno prodotto storia [Cfr. P. D’An gelo, L’estetica italiana del Novecento. Dal neoidealismo a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2007]. Con tutta evidenza, le generazioni più re-
centi della cultura architettonica napoletana che si sono poste in sostanziale discontinuità con le precedenti, tentano a tutt’oggi di delinearne una, mentre una storia l’aveva, e di buon rango, la generazione della continuità con il Movimento Moderno intorno agli anni Settanta. Napoli agorà dell’architettura
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Il cuore degli anni Settanta come tempo storico ancor prima che temporale delle iniziative di cui parliamo. In Italia, v’era un clima politico e culturale teso e pervasivo, le Facoltà di Architettura ne occupavano il fronte avanzato. Napoli non faceva eccezione in quanto a mobilitazione studentesca e di parte della docenza, ma non vi fu mai saldatura politico-culturale tra studenti e professori, anche grazie a una equilibrata conduzione della presidenza di Franco Jossa che riuscì a mantenere fermo l’impegno sulla serietà di gran parte dei corsi. Certo, qui era lontano il concetto di “democrazia della cultura” proprio della Scuola veneziana di Giuseppe Samonà fondata su un costante dialogo tra le componenti accademiche per confrontare metodi e idee differenti. Su questo piano, Napoli ha avuto sempre una visione piuttosto autonomista (ovvero provinciale) della formazione del corpo docente e raramente s’è avvalsa di autorevoli apporti esterni per chiamata, preferendo successioni naturali nell’avvicendarsi delle generazioni di docenti. Per limitarsi al solo settore progettuale, al fondatore Calza Bini seguiva Canino, poi Cocchia e De Luca, poi ancora Capobianco, Angrisani, Paciello, Nunziata e Sbriziolo e infine la docenza più numerosa nata negli anni Trenta con Biso-
gni, Borrelli, Dalisi, De Franciscis, Gubitosi, Izzo, Pica Ciamarra, Pagliara, Renna, Rosi, Rossi, Siola. La linea progettuale maggioritaria era quella che professava la continuità con il Movimento Moderno e alla quale aderivano tutti gli architetti sopra elencati tranne Bisogni, Borrelli, Renna e Siola che costituivano l’avanguardia della Tendenza in Facoltà. Capobianco era il caposcuola di terza generazione con dichiarata fedeltà a Le Corbusier e al nitore dell’architettura dei paesi scandinavi. Pagliara da un lato e Rossi dall’altro rappresentavano i poli opposti della declinazione del moderno, l’uno di marca protorazionalista, carico di evocazioni, l’altro folgorato dall’utopia megastrutturale. Pica Ciamarra aderiva allo scisma del Team X dall’ortodossia dei maestri. Gubitosi e Izzo rappresentavano allora due eccezioni, allora ritenute problematiche, oggi provvidenziali alla luce degli sviluppi futuri. Nati entrambi nel 1932, laureati nei primissimi anni Sessanta, per motivi diversi approdavano negli Stati Uniti per esperienze di studio e di lavoro professionale, Gubitosi con una FullbrightHais, Izzo nello studio di Marcel Breuer. Al ritorno in Italia, formavano un sodalizio accademico e professionale inserendo vitali umori europei, anche qui immancabilmente corbusiani, in un anemico International style lì prevalente. Cominciava la messa a reddito delle esperienze, conoscenze e opportunità avute tra New York e Boston. Agli inizi degli anni Settanta, proprio nel Municipio di Boston, c’era stato il prologo con la citata mostra Naples & its region dove l’architettura napoletana era presente con quasi tutti i maggiori protagonisti accademici cui si affiancava Franz Di Salvo con il progetto delle Vele. Ma Napoli mostrava anche il meglio delle arti figurative con De Stefano, Pisani, Perez e Alfano, del teatro e della musica con Roberto De Simone, del folklore, dell’artigianato, della fotografia e del cinema, della letteratura con Rea, Prisco e Compagnone. Il successo di questa manifestazione apriva la strada ad un programma di mostre di architettura a Napoli proposto da Gubitosi e Izzo, bene accolto negli enti e istituzioni cittadine, calorosamente accettato negli Stati Uniti. Almeno all’inizio, la Facoltà di Architettura di Napoli sembrava invece prenderne laconicamente atto. In questo atteggiamento si sommavano una componente politica tout court per la presenza
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esplicita della cultura, istituzioni e architetti statunitensi in un ambiente di sinistra nella sua quasi totalità e il progressivo distacco dalla fase eroica del Movimento Moderno che non suscitava per i maestri lo stesso entusiasmo dei decenni precedenti. Lo svolgimento e l’esito della rassegna avrebbero annullato quasi del tutto questo preconcetto. Un bilancio decisamente più che positivo. Dodici mostre con due chiare scelte di campo: selezione da un orizzonte internazionale, focus sull’architettura statunitense. Solo quattro selezioni europee: Gropius, Bakema e Van den Broek, Stirling e Le Corbusier. Otto autori e temi americani: Belluschi, i Grattacieli di Chicago, 100 anni di architettura a Chicago, i Five Architects, Kahn, Soleri, Wright, Catalano. Appendici fuori programma con Marcel Breuer nel 1981 e Richard Meyer nel 1991. Ritornando al programma principale, due classici obbligati, Wright e Le Corbusier, molto bene organizzati, mostre che a definirle storiche nulla si concedeva all’enfasi. Per l’altro deuteragonista del movimento moderno, Gropius, un’antologica confezionata dal TAC negli Stati Uniti, diffusa in Europa dal Bauhaus-Archiv di Berlino che qui approdava anche grazie al Goethe-Institut di Napoli, filiere virtuose oggi impensabili. I Five: qui a Napoli si ebbe la loro definitiva consacrazione internazionale dopo l’esordio al MoMa nel 1969; fu la rassegna con il più alto potenziale critico di tutto il programma, con il saggio di Tafuri a suggellare una scelta felicissima. Louis Kahn: seguiva di qualche mese i Five; sembravano autori antitetici ma Tafuri prima e Zevi poi dimostravano analogie e legami che essi intrattenevano con la modernità, raffinatamente ambigui in entrambi i casi. Bakema e Van den Broek: notissimi in Olanda, noti all’estero, necessità di far conoscere anche in Italia l’alto livello qualitativo d’una tradizione nazionale che da Berlage trasmigrava in Dudok, Oud, Rietveld, van Eesteren. Stirling, ovvero, il lato (convenzionalmente) amabile e spettacolare dell’architettura: veniva proposto al momento giusto per diradare incipienti crisi di identità della disciplina e frustrazioni provenienti dal New Brutalism; la qualità dei progetti e la simpatia umana dell’architetto garantivano successo critico e di pubblico all’abilissimo “form-givers”. Due mostre su Chicago, la città che aveva dato i natali alla modernità statunitense, anche con i
grattacieli: dal primo Leiter Building (1879) di William Le Baron Jenney (demolito nel 1972) alla serie progettata dal SOM (Skidmore, Owings & Merrill) dal 1965 al 1974. Infine, due architetti apparentemente sotto misura rispetto all’alto livello della rassegna: Pietro Belluschi e Eduardo Catalano; si rivelarono invece due scoperte, con architetture rigorose nell’impianto e di grande professionalità esecutivo-gestionale; dai loro curricula apprendevamo con favore che negli Stati Uniti prima ci si affermava come bravi architetti e poi si veniva chiamati a insegnare e dirigere prestigiose scuole di architettura. Nel 1991, la chiusura del ciclo con Richard Meier. Mostra a Palazzo Reale inaugurata il 21 giugno. Laurea conferita nello stesso giorno nell’Aula Magna di San Demetrio e Bonifacio dal Preside Uberto Siola e preceduta dalla Laudatio di Renato De Fusco. Catalogo con saggi di Gubitosi e Izzo e intervista a Meier nello studio di New York fatta dai rispettivi figli Alessandro e Ferruccio. Erano passati poco più di tredici anni dalla spettacolare mostra su Le Corbusier del 16-19 marzo 1978 a Palazzo Reale di Napoli. Per significare il livello della manifestazione e per esso, dell’intera rassegna promossa da Gubitosi e Izzo, è opportuno riportare per intero l’elenco dei partecipanti: Charlotte Perriand, José Oubrerie, Bruno Zevi, André Wogenscky, Stanislaus Von Moos, Joseph Rykwert, Agnoldomenico Pica, Manfredo Tafuri, Giuseppe Samonà, Renato De Fusco, Cesare de Seta, Paolo Portoghesi, Filippo Alison, Giuliano Gresleri, Dario Matteoni, Massimo Nunziata, Roberto Mango, Aldo Loris Rossi, Mimita Lamberti, Marina Causa Picone. Non solo per Le Corbusier ma per tutti gli altri protagonisti delle mostre, per davvero Napoli era stata per quattro anni l’agorà della cultura internazionale. Cataloghi e libro: un importante lascito storiografico I dieci cataloghi delle mostre rappresentano un capitolo pregiato della storiografia italiana sul movimento moderno. Vediamone in sintesi le parti meritevoli di citazioni, a partire dagli interventi introduttivi di Gubitosi e Izzo e nei saggi degli studiosi chiamati di volta in volta a commentare la rassegna. Una sequenza che non sia semplicemente cronologica può prevedere dappri-
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ma quelle mostre che sono state un classico della storiografia del Movimento Moderno, ovvero i maestri, a seguire quelle esemplari d’un modo di declinare sempre il moderno e infine la assoluta novità che s’è rivelata tale negli anni a seguire, i Five Architects. Wright e Le Corbusier, i maestri. Per la grande mostra di Wright, una breve Introduzione dei curatori ma un imponente lavoro preparatorio per l’ordinamento scientifico dei materiali. Rassegna di circa trecento disegni, selezionati e fotografati a Taliesin. Per la mostra veneziana del 1951, Ragghianti si augurava che la raccolta dei disegni del maestro americano potesse essere stampata e divenire una sorta di De vulgari eloquio dell’architettura moderna. Con giustificato orgoglio, i curatori ritengono che l’invito di Ragghianti sia stato raccolto. Ancora un saggio di ottima fattura di Angrisani che mostra specifica conoscenza anche dell’architettura di Wright. Le Corbusier chiude il ciclo con il dispiegamento delle personalità culturali in precedenza elencate, adeguate alla statura del maestro. Catalogo in due volumi per Officina, il primo di disegni, il secondo di saggi, l’uno e l’altro introdotti dai due curatori. Mostra di disegni, circa cinquecento con centoquattordici originali e modelli concessi dalla Fondazione. Mostra di architettura con 50 progetti, precisano Gubitosi e Izzo, a differenza della rassegna fiorentina del 1963 incentrata sul Le Corbusier pittore, scultore, decoratore e con poche opere architettoniche paradigmatiche. Per la mostra di Napoli, inediti e importanti contributi di Roberto Mango sull’opera pittorica del maestro, di Filippo Alison sugli arredi, di Aldo Loris Rossi sui plastici decostruibili. Nel secondo volume del catalogo, oltre ai curatori, presenza di Angrisani, Mango, D’Auria, Rossi, Belfiore e Gravagnuolo. Per le declinazioni del moderno, si prende l’abbrivio dalla evoluzione dei grattacieli di Chicago. Concordanza di giudizio quasi totale tra il breve saggio introduttivo di Manieri-Elia e quello più articolato di Gubitosi e Izzo: il grattacielo s’è rivelata una tipologia incapace di costruire una qualsiasi forma della città e ora tende solo a conseguire primati verticali. E Manieri-Elia, con felice sintesi, osserva che l’assurda logica del grattacielo in regime capitalistico gli impone di crescere sempre più per allontanarsi dalla città che lo soffoca proprio mentre, crescendo, sof-
foca sempre di più la città. La vecchia Europa impartisce in questa occasione – avendone titolo – una lezione d’architettura e d’urbanistica alla cultura americana. Appena qualche anno ancora però e anche le maggiori capitali europee si popoleranno di grattacieli che, per riprendere un’ironica definizione sempre di Manieri-Elia, sono i moderni, giganteschi obelischi su cui installare l’antenna della televisione. A seguire, due modi di intendere il progetto molto distanti linguisticamente. Dapprima Stirling. Ampio inquadramento storico e puntuale lettura “compositiva” delle sue opere. Si conferma la sua natura di autore di bricolage storicistici che attingono alla tradizione del nuovo, dal protorazionalismo al decostruttivismo russo. Ne ha parlato per primo De Fusco nella sua Storia per Laterza, Gubitosi e Izzo confermano e sviluppano questa tesi. Lo stesso De Fusco propone poi una lettura semantica di Stirling. È basata su due invarianti: conferire il massimo di identità ad ogni elemento della composizione; scegliere e accostare fattori recuperati dal binomio passato-futuro, ovvero, storia-utopia. La storicità dialettica di Stirling è invece trattata da de Seta. Sono tre i punti fondamentali del suo metodo di progettazione: la ricerca topologica che conforma le parti dell’edificio al topos; il medievalismo empirico rivisitato con morrisiana nostalgia; l’“aggressi vità tecnologica”, espressione che rinvia al ruolo prioritario delle strutture, come nella Facoltà di Storia di Cambridge. Angrisani infine propone uno Stirling visto dall’Italia. Lo scritto denota una buona conoscenza della situazione inglese da parte dell’autore. Sua l’osservazione critica più centrata: siamo sicuri che la “carta figurativa, linguistica”, che Stirling si gioca sia quella più giusta nel momento in cui sembra prevalere la ferrea logica dell’operatività tecnologica di massa? Poi, Van den Broek e Bakema. In Italia ci sono stati già importanti saggi e testi sull’architettura olandese del Novecento scritti da Argan, Zevi, Canella. Si parte da questi per disegnare il contesto dentro cui esordiscono i due autori, illustrati con un completo ragguaglio antologico. L’Olanda significa per l’Europa architettura civile, esemplare governo del territorio, misura appropriata di spazi. La mostra conferma questo carattere, il saggio lo spiega con chiarezza. In filigrana, si adombra un impari confronto con la situazione italiana, competi-
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tiva e vincente su altri piani, soccombente su quelli citati che segnano l’architettura olandese. Chiudono l’antologia del moderno Belluschi e Catalano. Si comincia con il primo e con un istruttivo confronto tra la nota scritta da Zevi per la settimanale rubrica su «l’Espresso» e l’introduzione al catalogo. Evidente l’imbarazzo di Zevi nel parlare d’un architetto che produce architettura (production architect) più che d’un artista (designer architect), un consulting che rinunzia al “segno personalizzato” per la grande quantità d’incarichi cui deve far fronte. In ogni caso, viene riconosciuto un “altissimo rigore professionale” all’insieme della sua opera. Nessun imbarazzo invece per i due curatori che evitano opportunamente il terreno scivoloso della componente artistica e riconoscono a Belluschi il ruolo di innovativo sperimentatore del lavoro di gruppo. Per entrambi, Belluschi interpreta “la prima figura di architetto della società post-industriale”. Segue Catalano, con Belluschi altro prestigioso outsider del ciclo di mostre, ma è personalità progettuale molto diversa, spaziando dall’urbanistica allo studio di complesse coperture con paraboloidi iperbolici. Esauriente ricognizione storico-critica dei due curatori che riconoscono all’architetto argentino ottime capacità di sperimentatore. Viene riportata una singolare profezia di Catalano sul ritorno in architettura della morality e della rationality e, con esse, della “semplicità, della purezza e dell’umiltà”. I decenni che seguiranno però, saranno quelli del postmodernismo e dell’edonismo. La novità critica, i Five Architects. Tafuri si prende totalmente lo spazio storico-critico della rassegna. Argomenti e personaggi troppo stimolanti, intellettualmente, per condividerli con altri. Il titolo del suo saggio Les bijoux indiscrets, cita testualmente il primo romanzo di Denis Diderot, promette (e mantiene la promessa) pensieri “libertini”. A cominciare dalle riserve sul celebre Complexity and Contradiction di Venturi che ospita, scrive Tafuri, cose risapute da noi europei e proseguendo con Kahn che ha “prodotto una scuola di mistici senza religione da difendere”. Su questo scenario carico di ambiguità e di redenzioni mancate, irrompono i Cinque, gruppo profondamente disomogeneo ma legati dalla “poetica della nostalgia” aperta da Kahn ma di marca europea perché rinvia al Purisme dell’«Esprit Nouveau». Analisi
specifica d’ogni componente il gruppo: favore assegnato, ovviamente, al più intellettuale della compagine, Eisenman e al suo “terrorismo formale”; all’opposto, Hejduk, “il più empirico e il meno intellettualistico”; per Graves, un’immersione delle sue architetture “nello spazio della finzione”; Gwathmey e Meier, personalità “decisamente eccentriche” perché lontane dall’assolutismo linguistico dei primi tre. Chiusura in chiave filosofica con Barthes, preceduto da Colin Rowe che chiama “distese di simulacri” le architetture dei Five e, con piacevole sorpresa, dal nostro Alberto Cuomo, che nelle stesse opere legge una sorta di “coazione a ripetere”. Per Tafuri, saggio impegnativo, ora di fulminante intelligenza ora di più criptiche argomentazioni. In ogni caso, il testo ha costituito magistero nella storiografia dei Five. Che sia stato ideato e redatto per la mostra napoletana, è motivo di compiacimento culturale. Ritornando all’attualità, gli eventi del 2019 hanno come filo conduttore il corposo libro curato da Castagnaro. Joseph Rykwert parla d’una Napoli che per oltre un decennio mostrò il massimo della modernità internazionale attirando “pellegrini” a migliaia. Renato De Fusco ricostruisce criticamente le tappe della rassegna, da Boston alla chiusura con Le Corbusier. È lui che conia l’espressione di “Napoli agorà per un lustro della cultura architettonica internazionale”. Chi scrive questa nota, chiude il capitolo degli interventi introduttivi con l’inquadramento della rassegna nella cultura architettonica napoletana degli anni Settanta definita “un tuffo nella modernità”. Per il resto, accurata e completa ricognizione del curatore Castagnaro su quel periodo, a partire da un’antologia ragionata della sequenza espositiva, a due interviste per Gubitosi e Izzo, alla selezione dei testi e del materiale iconografico. Nell’autunno, sempre del 2019, ci lasciava Alberto Izzo cui era stato concesso il dono di veder riconosciuto il grande e meritorio lavoro fatto con Camillo Gubitosi molti anni addietro. Opportuno osservare e concludere che quella esperienza relegata per quarant’anni a “titolo di libro” è diventata storia, è riemersa alla nostra coscienza contemporanea non appagata da una certa inconcludenza culturale del presente.
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1 A. Castagnaro, Napoli e la cultura architettonica internazionale 1974-1991. Mostre e convegni di Camillo Gubitosi e Alberto Izzo, Clean Edizioni, Napoli 2019. Il libro è stato presentato il 4 giugno 2019 nell’aula Gioffredo di Palazzo Gravina, sede del Dipartimento di Architettura, con la partecipazione di Gaetano Manfredi, Michelangelo Russo, Renata Picone, Fabio Mangone, Leonardo Di Mauro, Carlo De Luca, Nicola Di Battista, Cettina Lenza, Donatella Mazzoleni, Alfredo Buccaro. Il convegno, con lo stesso titolo del libro, s’è svolto il 4 dicembre nella stessa sede con la partecipazione di Michelangelo Russo, Leonardo Di Mauro, Roberto Vanacore, Vincenzo Corvino, Giovanni Multari, Alberto Calderoni. La mostra, allestita nell’ambulacro della Biblioteca dello stesso Palazzo Gravina con una selezione dei materiali della rassegna degli anni Settanta, è stata inaugurata nello stesso giorno del convegno e chiusa il 7 gennaio 2020.
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Telelavoro DOMENICO DE MASI
“Abbiamo continuato a sprecare tanta energia quanta ne era necessaria prima dell’invenzione delle macchine; in ciò siamo stati idioti, ma non c’è ragione per continuare ad esserlo”. Bertrand Russell
Il coronavirus, costringendo mezza umanità agli arresti domiciliari, ci ha crudelmente imposto la paura della morte e indirettamente offerto l’occasione di un corso accelerato di convivialità con cui riformulare la gerarchia dei nostri bisogni e la strategia delle nostre azioni. In poche settimane ci ha costretto a riconoscere evidenze che, in tempi normali, cocciutamente rifiutammo. Evidenze Facciamo un rapido elenco di queste evidenze. Dopo il compiaciuto corteggiamento dell’idea strampalata secondo cui “uno vale uno”, dopo il trionfo dell’incompetenza, dei negazionismi e terrapiattismi, abbiamo dovuto ammettere rapidamente che, di fronte a un pericolo incombente come la pandemia, nessuna opinione è più affidabile di quella espressa scientificamente dagli esperti. Abbiamo constatato che, per quanto organizzati e progrediti possano essere gli enti locali, di fronte a un disastro nazionale
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occorre una superiore cabina di regia, unica, autorevole, dotata di saperi e poteri eccezionali per tempi eccezionali. Dunque, uno stato nazionale deve coordinare le regioni e i comuni; un’autorità europea deve coordinare gli stati nazionali; un potere mondiale deve coordinare i continenti. Grazie a questa drammatica esperienza del coronavirus abbiamo constatato che il welfare è necessario. Inventato dai liberali alla fine dell’Ottocento e semi-affossato dai neo-liberisti alla fine del Novecento, comunque esso consente a quasi tutti gli italiani di essere curati e di studiare. In questi giorni stiamo ricordando che, a differenza dell’Italia, negli Stati Uniti, cioè nel paese più ricco del mondo, 30 milioni di americani, privi di assicurazione, sono cinicamente respinti dagli ospedali se non hanno i contanti per pagarsi le cure. Ci stiamo anche rendendo conto di quanto sia sciagurata la decurtazione di fondi subita dalla sanità e dalla scuola negli ultimi dieci anni, e quanto demenziale sia il numero chiuso nelle facoltà universitarie – prima fra tutte quella di medicina – in un paese che ha appena il 23% di laureati, contro il 66% della California. La reazione efficiente degli ospedali pubblici, dei medici e del personale sanitario ha reso evidente che la sanità e le altre funzioni pubbliche dispongono, ben più del settore privato, di specialisti che sommano preparazione professionale e dedizione personale a dispetto della diffusa immagine di “servitori dello Stato” sciatti e demotivati. La dialettica tra scienziati, politici ed economisti, con reciproche accuse di inadempienze e imprecisioni, ha reso evidente che anche le cosiddette “scienze esatte” non sono del tutto esatte e che, a seconda delle circostanze, è prudente che prevalga la durezza della cultura scientifica o la morbidezza della cultura umanistica. Le incertezze, le titubanze, i contrordini che hanno incrinato le prime operazioni anti-virus rendono evidente che, di fronte a un nemico inedito, minaccioso, incombente e misterioso, la prudenza, la gradualità degli interventi e il procedere by trial and error valgono più di uno sventato decisionismo perché, in casi inediti e improvvisi come questo, l’unica regola sta nella capacità di “apprendere ad apprendere” facendo tesoro di ogni indizio
per scovare le soluzioni giuste e di ogni consiglio offerto dagli esperti di decison making. Per non ingenerare confusione, le decisioni, una volta prese, vanno comunicate secondo i crismi delle scienze della comunicazione; la loro esecuzione va affidata ad amministrativi di qualità; la loro esecuzione e i loro effetti vanno controllati scrupolosamente. La pervasività della pandemia, che proprio da questa caratteristica trae il suo nome, dimostra che, alla faccia dei sovranismi, il mondo è ormai compiutamente quel “grande vicinato globale” di cui parlava McLuhan, dove il bene e il male si propagano in tempo reale accomunando tutti nello stesso destino e postulando un’alleanza di tutti contro i tre comuni nemici rappresentati dal del virus, dal riscaldamento del pianeta e dalle disuguaglianze crescenti. La massa di sciocchezze che ci è toccato ascoltare in questi giorni negli estenuanti dibattiti televisivi dove più di un commentatore si è avventurato in spericolate scorribande fuori dalle proprie conoscenze, ha impreziosito il monito di Leopardi secondo cui “il modo migliore per celare agli altri i confini del proprio sapere consiste nel non superarli”. Archeologia del telelavoro La paura del contagio, costringendo molte aziende e tutte le scuole a chiudere i battenti, ha costretto a telelavorare e tele-apprendere dimostrando quanto sia facile e utile quel telelavoro (o, come usa dire con termine più sexi, quello smart working) che si sarebbe potuto adottare da anni, con evidente benefico per i lavoratori, le aziende, i sindacati e il territorio. Vale la pena di soffermarci su questa particolare evidenza perché, se il telelavoro – che, come vedremo, è poi evoluto in smart working – perdurasse nel tempo, rivoluzionerebbe la vita professionale e familiare di milioni di persone, modificando la struttura delle abitazioni, degli uffici e delle città. Di telelavoro si parlava in Italia fin dalla fine degli anni Sessanta. Poi sono state tentate sperimentazioni, sono stati organizzati convegni e corsi di formazione ma, al primo gennaio di
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quest’anno, meno di 600mila – su 14 milioni di potenziali telelavoratori – operavano in remoto. Credo che il primo articolo uscito in Italia su questo argomento risalga al 1983. Dirigevo allora la rivista Scienza Duemila, avevo già partecipato a qualche convegno sull’argomento e mi illudevo che gli evidenti vantaggi del telelavoro ne avrebbero presto decretato il trionfo. Pubblicai perciò la traduzione di un saggio di Jean-Pierre Durant con un richiamo in copertina, lo intitolai Il telelavoro anche se questa parola era praticamente sconosciuta in Italia e scrissi come occhiello: “La telematica sta per apportare una profonda rivoluzione nel modo di vivere delle società industrializzate. Per larghi strati della popolazione il luogo di lavoro coinciderà con la propria casa. Non ci saranno più spostamenti massicci di impiegati, né vaste aree urbane destinate unicamente ad ospitare uffici”. Da allora, gli articoli e i libri sull’argomento uscirono con il contagocce, al ritmo di uno ogni paio d’anni. Poi il problema fu ripreso con alcuni convegni, qualche ricerca e decine di articoli persino sui quotidiani: “La Repubblica” gli dedicò ben due puntate a tutta pagina e Piero Angela mandò in onda un servizio nella sua trasmissione di prima serata, decretando così l’ingresso della parola “telelavoro” nel vocabolario quotidiano dei manager e persino del grande pubblico. Solo l’Inps, nel 1990, grazie al coraggio innovativo dell’allora presidente Gianni Billia, mise in telelavoro centinaia di ispettori. A quel punto fondai la SIT, Società Italiana per il Telelavoro, senza scopo di lucro ma con il duplice intento di spingere il governo a emettere una normativa consona al telelavoro e di indurre almeno le grandi aziende e la Pubblica Amministrazione ad adottarlo su vasta scala. I risultati furono deludenti e resta interessante esplorarne le ragioni. Ma, prima ancora, bisogna rievocare il concetto e la consistenza del lavoro remoto. Alla base di questa grande rivoluzione professionale ed esistenziale, che rimescola le carte del lavoro e del tempo libero facendone un tutt’uno in cui è difficile distinguere quando finisce l’uno e quando inizia l’altro, vi sono le nuove tecnologie, la globalizzazione, la scolarizzazione di massa. In altri termini, vi è il passaggio epocale dalla società industriale a quella postindustriale.
Il lavoro separato dalla vita Se si eccettuano i militari e i trafficanti, durante i secoli della società pre-industriale, centrata sull’agricoltura e sull’artigianato, gli uomini hanno sempre identificato il loro luogo di vita con il loro luogo di lavoro, la loro casa con la loro bottega o con il loro studio. Il tempo scorreva in modo più equilibrato, la vita rio nale era più intensa e l’arredo urbano più curato, proprio perché i cittadini vivevano e lavoravano nel medesimo quartiere, considerandolo come il prolungamento della propria casa e tutt’uno con essa. La bottega artigiana, che rappresentava il modello più diffuso di organizzazione del lavoro, era caratterizzata appunto dalla forte coesione dei suoi elementi costitutivi: l’abitazione e l’opificio convivevano sotto lo stesso tetto; le mansioni domestiche e quelle professionali si intrecciavano e si confondevano tra loro. La diffusione della grande industria moderna, soprattutto nella prima metà del Novecento, è intervenuta pesantemente in questo assetto, rivoluzionandolo: il luogo di lavoro è stato separato dal luogo di vita extra-lavorativa e spesso, tra i due, si è interposta una distanza enorme, che ha richiesto ore di pendolarismo quotidiano. Si sono così create le condizioni per cui milioni di lavoratori si sono sentiti estranei sia ai quartieri in cui producevano che a quelli in cui consumavano; la catena di montaggio ha finito per rappresentare il simbolo dell’officina, dell’azienda, dell’intera società industriale; le attività domestiche, affidate alle donne, sono state scisse rigorosamente da quelle professionali, riservate agli uomini. Nella città, che Le Corbusier chiamò “funzionale”, ogni ruolo e ogni classe aveva i propri luoghi deputati: la zona industriale per produrre; il quartiere dormitorio per riposarsi e riprodursi; il quartiere commerciale per comprare e vendere; il quartiere burocratico per le faccende politico-amministrative; il quartiere dei loisir per il tempo libero. I quartieri di lusso per la borghesia; le periferie malandate per il proletariato. In questo assetto urbano ciascun cittadino si è spostato quotidianamente da una zona al l’altra a seconda delle funzioni da svolgere di volta in volta. Con spreco enorme, una parte della città è rimasta vuota nei giorni
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lavorativi e un’altra nei giorni festivi; i quartieri dormitorio sono rimasti vuoti di giorno, quelli industriali e direzionali di notte; le metropolitane e gli altri mezzi di trasporto si sono incaricati di smistare masse di cittadini da una parte all’altra della città per far fronte alla sincronizzazione richiesta dalla “catena di montaggio globale”, che voleva tutti presenti sul lavoro alla stessa ora, tutti in ferie lo stesso giorno. Il trionfo dell’ubiquità
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Per fortuna, dopo due secoli di questo assetto industriale, si è andato determinando un nuovo tipo di società, che possiamo chiamare postindustriale, dove il lavoro ripetitivo ed esecutivo è affidato alle macchine mentre ai lavoratori restano soprattutto i compiti che impegnano il cervello e che, per loro natura, consentono di lavorare dove meglio si crede. Un pubblicitario, un giornalista, un imprenditore, uno stilista, un manager alle prese con la necessità di ideare qualcosa di nuovo, portano con sé – ventiquattro ore su ventiquattro – il gioioso assillo della creazione e spesso finiscono per trovare la soluzione giusta fuori dell’ufficio, magari sotto la doccia o nel dormiveglia. Le circostanze che rendono sempre più possibile lavorare a casa propria, lontano dall’ufficio, sono molteplici. Le tecnologie disponibili (cellulare, posta elettronica, mass media) riescono ormai a realizzare l’antico sogno umano dell’ubiquità. La materia prima del lavoro d’ufficio – le informazioni – sono suscettibili, per loro natura, del massimo spostamento in tempo reale e a costo irrisorio. Le differenze culturali tra capi e dipendenti si attenuano sempre più consentendo il passaggio da forme gerarchiche a forme funzionali di leadership. L’organizzazione per obiettivi e l’autonomia professionale dei lavoratori rendono sufficiente che i capi di controllino i risultati piuttosto che i processi. D’altra parte, il caos urbano rende i cittadini sempre più insofferenti verso il caos metropolitano e verso gli spostamenti quotidiani che corrodono in misura ormai intollerabile il tempo libero, le finanze personali e l’equilibrio psichico. Appare sempre più chiara l’inutilità di centralizzare il lavoro in un unico luogo; si diffonde l’aspirazione soggettiva verso una gestione autono-
ma, flessibile, personalizzata e decentrata dei propri compiti; si prende coscienza delle opportunità sempre più rivoluzionarie offerte dal progresso tecnologico, capace di annullare i vincoli spazio-temporali. Tipologia dei lavori Nell’attuale società postindustriale, l’elettronica, i nuovi materiali, le fibre ottiche, i laser, l’intelligenza artificiale hanno conferito alle macchine una duttilità, un’intelligenza, una domesticità ignota ai grandi opifici manifatturieri dell’epoca industriale. Oggi è possibile delegare all’automazione e all’informatica migliaia di mansioni faticose, rumorose, pericolose che prima inchiodavano il lavoratore a tempi precisi e a luoghi separati dalle abitazioni. Solo un numero decrescente di mansioni – dalle catene di montaggio metalmeccaniche ai call center telefonici – restano di natura parcellizzata, fisica, ripetitiva, che richiede un luogo preciso e un tempo preciso per l’esecuzione. Nella maggior parte dei casi si tratta di lavori fisicamente pesanti, non ancora automatizzati ma fortemente e fortunatamente minacciati dalla progressiva automazione, che prima o poi li trasferirà ai robot, liberandone gli operatori in carne e ossa. Le restanti mansioni sono di natura intellettuale e richiedono duttilità, flessibilità, intelligenza, professionalità, creatività squisitamente umane. Alcune di esse (come, ad esempio, quelle chirurgiche o infermieristiche) esigono la compresenza fisica di tutti i soggetti implicati. Altre consentono una parziale separazione tra l’attore e il destinatario (come quando il prete predica per radio o l’artista recita in televisione). Altre, invece, non richiedono alcuna interazione tangibile tra i vari soggetti implicati, possono essere esplicate a distanza e sono abbastanza indifferenti al tempo in cui vengono eseguite. Così, ad esempio, è del tutto inutile che un giornalista si rechi in ufficio per scrivere un articolo o un professore si rechi all’università per preparare una lezione. Basta che l’uno spedisca alla redazione, per posta elettronica e in tempo utile, il suo articolo; o che l’altro sia pronto a istruire i suoi alunni quando scocca l’ora della lezione frontale. I lavori di natura prevalentemente fisica, parcellizzata, ripeti-
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tiva, come quello del metallurgico, del minatore o del tornitore, richiedono mezzi di produzione (l’altoforno, la miniera, il tornio, ecc.) pesanti, ingombranti, fragorosi, nettamente separati dalla mente del lavoratore e inadatti ad essere decentrati nella sua abitazione. Quando suona la sirena di fine turno, il lavoratore abbandona il suo luogo di lavoro e si separa dai suoi strumenti di produzione. Anche se volesse, non potrebbe continuare a lavorare durante il tempo libero. Invece i lavori di natura prevalentemente intellettuale, flessibile, creativa, richiedono come strumento di lavoro il cervello del lavoratore, con il semplice e leggero supporto di uno smartphone e di un personal computer. Quando il giornalista, il pubblicitario, il manager escono dai loro uffici, portano con sé il cervello nella propria testa, il cellulare nella propria giacca, il computer nella propria borsa. Tutti gli strumenti di produzione restano con loro notte e giorno, ovunque essi si spostino. Se la loro mente è assillata da un problema di lavoro, l’assillo li perseguiterà anche mentre mangiano, amano, dormono; l’idea risolutiva potrà scattare ovunque e in qualsiasi momento: mentre guardano un film, mentre passeggiano e persino mentre dormono. Per la maggioranza dei cosidetti knowledge workers il lavoro è spalmato su tutto il tempo, dovunque ed ovunque. Per essi l’orario di lavoro, la separazione tra casa e ufficio, tutto l’inutile rituale dei controlli all’entrata e all’uscita delle aziende appartengono a una liturgia obsoleta, inutile, costosa, sadica, demotivante che serve solo a ridurre il senso di appartenenza dei professionisti nei confronti dell’impresa, a demotivarli, ad assicurare i posti di lavoro a un esercito superfluo di guardiani, contabili, capi e addetti al personale. Vantaggi e svantaggi
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In Italia vi sono 23.200.000 occupati di cui 16 milioni svolgono mansioni di tipo intellettuale. 14 milioni, composti da impiegati, funzionari e professionisti, potrebbero lavorare full time o almeno part time. E in gran parte, senza rendersene conto, lo hanno fatto anche negli anni passati: intorno a noi – per strada, nei treni, nei ristoranti, negli aeroporti, sulle spiagge – c’è gente incollata al cellulare, che telefona con i capi, i collaboratori, i
clienti, ascolta informazioni, prende e trasmette decisioni, comunica consulenze, compra e vende merci, assume e licenzia persone, intrattiene pubbliche relazioni, intreccia lobbies. D’altra parte, in un paese come il nostro, dove ogni dodici persone (bambini e vecchi compresi) vi è un’impresa e dove le imprese sbucano come funghi, molti giovani neo-imprenditori non hanno i capitali sufficienti per impiantare sedi con tante stanze quanti sono i soci e gli impiegati. Ricorrono perciò a un piccolo ufficio d’appoggio, dove una segretaria smista la corrispondenza e le telefonate, tiene i libri aziendali, predispone le riunioni saltuarie. I soci, intanto, se ne stanno a lavorare in casa, in giardino o battono il mercato in automobile, comunicando tra loro con lo smart phone. Come il personaggio di Molière che parlava in prosa senza sapere di essere un prosatore, così tutti questi moderni lavoratori, armati di computer e di cellulare, telelavorano senza accorgersi di essere dei telelavoratori. Mentre sul piano informale il telelavoro ha stravinto fin da quando si diffusero i primi cellulari, sul piano formale è rimasto in stallo fino all’arrivo del coronavirus. Ovviamente gli effetti del telelavoro non sono tutti positivi anche perché, da duecento anni a questa parte, ci siamo abituati a lavorare lontano da casa. Le numerose ricerche svolte sul campo hanno messo in evidenza svantaggi come l’emarginazione dal contesto aziendale; lo stress da videoterminali; il disagio per la necessità di ristrutturare gli spazi, mutare le abitudini, reimpostare i rapporti familiari; la confusione e fatica del doppio lavoro, professionale e domestico soprattutto per le donne; la contrazione del tempo libero e della vita sociale; la difficoltà nel partecipare all’organizzazione sindacale e alle azioni collettive; la minore forza contrattuale; la sensazione di maggiore precarietà lavorativa; il timore di essere retribuiti meno dei lavoratori normali. Altri svantaggi vi sono per l’azienda: minore senso di appartenenza all’impresa da parte dei dipendenti e sensazione di perdere il controllo su di essi. Altri svantaggi, in fine, vi sono per il territorio e la collettività: spese per le infrastrutture comunicative; abbandono in cui cadono le aree degli uffici dismessi dalle aziende; riduzione della dimensione sociale del lavoro; atomizzazione sociale.
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Ma i vantaggi sono di gran lunga maggiori degli svantaggi tant’è vero che solo pochissimi recedono dal telelavoro. Per i lavoratori aumenta, con l’autonomia, la possibilità di autoregolare tempi, luoghi e ritmi; si riduce la separatezza tra lavoro e vita; migliorano sia le condizioni di lavoro che la gestione della vita familiare e sociale; si risparmia il tempo, la fatica, la spesa e i rischi del pendolarismo. Per l’azienda si riducono le spese degli edifici e dei servizi, diminuisce la microconflittualità, aumenta la produttività. Per la collettività si riduce il traffico, l’inquinamento e le spese per manutenzione stradale; si eliminano le ore di punta; si deconcentrano le aree superaffollate; si porta il lavoro anche nelle zone periferiche, isolate o depresse; si estende il lavoro alle casalinghe e agli invalidi; si creano nuove occupazioni e nuove professioni. Telelavoro, lavoro agile, smartworking
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In un libro del 1993, prodotto dalla S3.Studium, si dava questa definizione del telelavoro e della sua semplicità applicativa: “Con il telelavoro, è il lavoro che si allontana dall’ufficio per ricollocarsi in prossimità del luogo di residenza o nella stessa abitazione del lavoratore. Il telelavoro può essere realizzato in forme assai semplici (trasferendo a casa le pratiche da sbrigare con i soliti supporti cartacei, su dischetto elettronico, per telefono, ecc.) o con l’aiuto di più sofisticate tecnologie dell’informazione (fax, telex, posta elettronica, ecc.)”. In un primo momento – quando i collegamenti avvenivano tramite telefono fisso – il telelavoratore sbrigava a casa, negli stessi orari e con le stesse modalità, le medesime pratiche che avrebbe svolto in ufficio. Erano previste ispezioni e controlli dei locali domestici da parte dell’azienda per verificarne l’idoneità in termini di funzionalità, salute e sicurezza. Nel 2002 fu stipulato a Bruxelles un accordo-quadro europeo sul telelavoro definito come “una forma di organizzazione e/o di svolgimento del lavoro che si avvale delle tecnologie dell’informazione nell’ambito di un contratto o di un rapporto di lavoro, in cui l’attività lavorativa, che potrebbe anche essere svolta nei locali dell’impresa, viene regolarmente svolta al di
fuori dei locali della stessa”. Il tutto era finalizzato alla produttività e competitività delle imprese, garantendo il necessario equilibrio tra flessibilità e sicurezza. Inoltre, si intendeva contribuire alla transizione verso una società e un’economia basate sulla conoscenza. Nel concetto di telelavoro era incluso che esso fosse svolto dal lavoratore presso il proprio domicilio ovvero in altro luogo fisso e predeterminato, esterno rispetto alla sede di lavoro aziendale. Il carico di lavoro e i livelli di prestazione dovevano essere equivalenti a quelli svolti in azienda. Quanto stabilito a Bruxelles fu recepito in Italia con un accordo interconfederale del 9 giugno 2004 che rimarrà in vigore fino al 2017, quando fu introdotto il “lavoro agile”. Allo “scopo di incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro” il 22 maggio 2017 venne approvata la legge n. 81 che promuoveva questo nuovo tipo di lavoro a distanza, liberato da alcuni vincoli propri del telelavoro. La legge, che lo chiama “lavoro agile” lo definisce come “modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa”. Sotto l’emergenza del coronavirus, tra il 26 febbraio e il 17 marzo 2020, con un Decreto Legge e ben quattro decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, è stato raccomandato il massimo utilizzo, da parte delle imprese e della Pubblica Amministrazione, del “lavoro agile”, stabilendo che, per tutta la durata del l’emergenza, tale modalità può essere applicata a ogni rapporto di lavoro subordinato, compreso quello dei lavoratori disabili e dei loro familiari. A sua volta, un avviso del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, parlando esplicitamente di smart working, lo ha inteso come “una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato, caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi… Una modalità che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorire la crescita della sua produttività”.
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Se i vantaggi dello smart working superano di gran lunga gli svantaggi, perché non si diffonde con grande rapidità? Quali sono i principali ostacoli che caparbiamente si frappongono alla diffusione del lavoro agile anche là dove sarebbe possibile e conveniente? Quando non esisteva internet, i costi delle telefonate lo scoraggiavano. Ma ormai l’ostacolo economico è caduto: lo smart working non solo riduce i costi ma eleva i guadagni dell’impresa e fruisce di una sufficiente affidabilità sia per la tenuta delle linee, sia per la qualità delle trasmissioni, sia per la riservatezza dei dati. Mentre le tecnologie hanno migliorato le loro prestazioni e ridotto i loro prezzi, è cresciuto il numero di lavoratori addomesticati al computer, all’informatica, alla telefonia mobile. Insomma, non esistono più alibi di natura tecnica ed economica. Non esistono nemmeno alibi di natura giuridica e contrattuale. I sindacati italiani non si sono mai opposti al telelavoro e in alcuni casi lo hanno addirittura rivendicato. Non esistono, in fine, alibi di natura organizzativa: non c’è manuale, non c’è consulente, non c’è presidente, non c’è manager che non invochi termini salvifici come flessibilità, snellezza, autonomia, creatività, decentramento, competenze, obiettivi, deleghe, new economy, virtualità. Se lo smart working, prima del coronavirus non ha avuto che una blanda applicazione, volutamente limitata, è soprattutto perché l’azienda è un sistema antropologico che non fornisce solo un lavoro e uno stipendio ma anche un sostegno morale, un campo da gioco per il proprio agonismo competitivo, delle vittime da sacrificare alla propria aggressività, dei capi cui dedicare la propria devozione infantile, una socialità a volte forzata, formale, distorta quanto si voglia, ma pur sempre socialità. Nei confronti delle due categorie ancestrali su cui più profondamente ha inciso l’organizzazione industriale – il tempo e lo spazio – l’impresa rappresenta un sistema particolarmente conservatore e refrattario. È l’industria che ha creato la città industriale, ridotta ormai a un inferno di traffico, inquinamento, spreco e aggressività. E la fabbrica, insieme alla città industriale, ha creato la mentalità industriale, fatta di attività parcellizzate, di
lavoro separato dallo studio, di studio separato dal gioco, di gioco separato dalla vita. Tutti si lamentano del traffico che essi stessi creano e intasano; tutti si lamentano dello stress che essi stessi alimentano ed esasperano; tutti maledicono il lavoro che essi stessi dilatano e incrudeliscono. Tutti si adoprano ad ammobiliare questo inferno, rendendolo sempre più infernale, ma pochissimi si impegnano a riscattarlo e a riscattarsi. Ogni mattina e ogni sera, milioni di persone incapsulate nelle loro macchine, ripercorrono le consuete strade e autostrade puzzolenti, logorando la loro pazienza e la loro salute, solo perché così hanno fatto i propri genitori e i propri nonni. Le imprese sono disposte a fare cose da pazzi pur di non fare cose da saggi. I policy makers delle imprese sono disposti persino a ridurre i profitti pur di evitare innovazioni organizzative che allentino la presa fisica, tangibile, sui dipendenti. Ciò che viene temuto più della stessa concorrenza è che la cultura aziendale possa diluirsi nella cultura sociale, che lavoro e vita possano mescolarsi in una mistura creativa ed esuberante dove la produzione di ricchezza, la produzione di sapere, la produzione di allegria e la produzione di senso si intreccino e si confondano superando, finalmente, la separazione alienante tra i diversi mondi vitali in cui transitiamo. Pandemia Fino al gennaio 2020, benché si continuasse a ripetere che il profitto dell’imprenditore è giustificato dal rischio che egli propende ad assumersi, pochissime imprese si sono dimostrate disposte a rischiare puntando sulla carta dello smart working. Persino quelle che ingrassano vendendo hardware, software e reti, cioè le aziende che per prime avrebbero tratto profitto dalla diffusione dello smart working e che, quindi, avrebbero avuto tutto da guadagnare se avessero dato il buon esempio, persino esse hanno miopemente recalcitrato. Persino le sedi italiane di multinazionali che all’estero sono pioniere dello smart working non hanno sentito alcun bisogno di mettersi al passo con le loro case-madri. Anche i manager più spregiudicati, rapidi nel mutare disinvoltamente gli organigrammi, i settori di investimento, i partner, i pro-
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grammi produttivi, le strategie di marketing e gli uomini cui affidare decisioni cruciali per il destino dell’impresa, si sono dimostrati estremamente cauti quando gli sono stati proposti applicazioni anche blande di smart working e hanno preteso garanzie che nessuna sperimentazione può offrire a priori. In altri casi, sia pure rarissimi, l’introduzione dello smart working è stata progettata in riferimento a settori che, per le loro intrinseche caratteristiche strutturali, ogni buon manuale organizzativo reputa assolutamente incompatibili con il lavoro a distanza. Sembrerebbe, in questi casi, che almeno inconsciamente si fosse desiderato e predisposto il fallimento della sperimentazione in modo da avere un alibi per evitarne l’estensione. Se fino alla vigilia della pandemia, in base ai dati dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, solo 570mila lavoratori operavano in remoto, i motivi possono essere stati molti ma probabilmente ha prevalso quello che gli antropologi definiscono cultural gap: cioè un ritardo culturale che, in questo caso, io chiamerei “Sindrome di Clinton”. Ogni capufficio, per inconfessati motivi di potere, ha preferito tenere i propri dipendenti a portata di mano così come Clinton, per altri motivi, preferiva tenere la stagista nella stanza accanto. In quattro settimane, sotto la sferza del coronavirus, i telelavoratori sono schizzati a otto milioni. Dietro quegli otto milioni vi sono almeno 800mila capi che, per anni, hanno ostacolato il telelavoro, impedendo così la crescita della produttività, il benessere dei lavoratori e del territorio. Come si comporteranno questi 800mila capi quando la pandemia sarà passata? Lasceranno che lo smart working continui o si adopreranno con ogni mezzo per ricondurre i telelavoratori dentro il recinto aziendale? In Spagna, dove lo stesso virus ha generato un analogo sconquasso, circola un saggio proposito: “No volveremos a la normalidad porque la normalidad era el problema”. Ma siamo poi così sicuri che “no volveremos”?
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Design quotidiano al tempo della vulnerabilità diffusa CARLA LANGELLA
1. Introduzione L’evidenza dei problemi climatici e ambientali, i veloci cambiamenti della nostra epoca, come gli effetti della recente pandemia di Covid-19 che ha rivoluzionato repentinamente le abitudini quotidiane e introdotto l’idea di nuovi scenari nell’ambito della sicurezza, del lavoro, della vita domestica, e della opportunità di realizzare in tempi rapidi nuovi sistemi e strumenti – pongono l’urgenza di ripensare anche la relazione delle persone con gli oggetti. Per la sua natura di disciplina catarifrangente, il design non può esimersi dal riflettere e reinterpretare i diversi aspetti di grandi cambiamenti, spesso improvvisi, violenti e spaventosi, ma anche potenzialmente rigeneratori. Come ha scritto Paola Antonelli su Domus di aprile 2020 “Con i nuovi fondi di capitale di rischio perfettamente in linea con le basi più ‘umanistiche’ di un’economia resettata non solo dallo shock di Covid-19, ma anche dalle profonde crisi ambientali e politiche che ci colpiscono da diversi anni, il design potrebbe prosperare e aiutare umani e altre specie a guarire. Il design è un ingrediente fondamentale della vita e della società, anche perché aiuta le persone ad affrontare il cambiamento. Questo è il momento perfetto per dimostrare la sua importanza”1. Il punto da cui ripartire è, probabilmente, proprio quello più tangibile e immediato, che abbiamo dovuto scoprire per le misu-
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re di isolamento contro la pandemia. Obbligati a concentrare al l’interno delle abitazioni le dimensioni vitali di lavoro, relazioni, affetti, intrattenimento e cura del corpo, abbiamo vissuto una rivoluzione domocentrica che ha riportato alla ribalta gli oggetti di tutti i giorni e gli spazi di condivisione, illuminando l’opacità in cui erano stati relegati dal dilagare del neonomadismo fisico e digitale degli ultimi decenni. Riemerge così l’attenzione verso le questioni del design anonimo, minimo e diffuso legato alla dimensione quotidiana e domestica, che vanno reinterpretate alla luce di questa crisi e delle altre rivoluzioni che stanno investendo il mondo contemporaneo, consapevoli che altre potranno ancora presentarsi. Uno dei fenomeni più incisivi di trasformazione del quotidiano è quello della digitalizzazione diffusiva. Fabbricazione digitale, Internet of Things (IoT) o Objects with Intent (OwI) sono alcune delle declinazioni concrete del digitale che, oltre a riformare i rapporti interpersonali e le attività immateriali, sono intervenute nella ricodifica del DNA degli oggetti contemporanei. Mentre il digitale pervade la consistenza delle cose e delle persone, irradiandosi nelle relazioni come nella corporeità dell’ordinario, molti teorici del design inneggiano al recupero dello Human Factor, della componente analogica, esperienziale, affettiva ed emozionale dei prodotti, rievocando l’insegnamento di Don Norman e della psicologia cognitiva applicata al design. Allo stesso tempo, la categoria degli oggetti comuni, spesso caratterizzati da cicli di vita brevi, da costi ridotti e da materiali polimerici, si trova a dover confrontarsi con la crisi economica e con una crescente coscienza ambientalista, ulteriormente enfatizzate dal clima di emergenza. In una fase storica che riscopre l’importanza della dimensione domestica, rifugio protetto dalla vulnerabilità di un mondo minacciato da pandemie, crisi economiche e disastri climatici, di cosa è fatta la quotidianità? Certamente non di banalità. Questo contributo intende indagare su come si è evoluto il design quotidiano, anche alla luce delle profonde trasformazioni in atto, che inducono nuove modalità relazionali e forme di innovazione frugale e diffusa.
2. La capacità adattiva del design quotidiano Nell’ultimo decennio l’affermarsi delle nuove forme di pratica del design legate all’art design, al design speculativo, al fenomeno dei cosiddetti makers e alle sperimentazioni materiche DIY, ha segnato la ripresa del dibattito tra design anonimo e quotidiano e design autoriale. Da sempre la storia del design è caratterizzata dalla contraddizione tra l’orientamento alla modularità e standardizzazione del prodotto industriale di massa e l’attitudine speculativa del design d’autore, della serie limitata e del pezzo unico, che vede il progettista come agente provocatore impegnato nell’espressione critica. La contrapposizione tra questi due paradigmi è stata oggetto di discussione della conferenza sui principi del design al Deutscher Werkbund già nel 1914; delle disquisizioni del Bau haus (1919-1933) su produzione artistica, funzione, economia e standardizzazione per la produzione industriale, e del dibattito condotto presso la Hochschule für Gestaltung (HfG) di Ulm all’interno del quadro più ampio informato da economia, scienza e tecnologia (1953-1968). Alberto Bassi descrive il design anonimo italiano come una forma di design di cui non si sa molto riguardo ai progettisti o ai dettagli della loro storia, ma costituita da artefatti profondamente radicati nella vita quotidiana delle persone. Sono, soprattutto, prodotti per i quali ha prevalso il nome dell’azienda produttrice o dell’ambito territoriale su quello del designer, divenuti icone del loro contesto e momento storico, celebrate dal tempo e dall’uso. La caffettiera Moka della Bialetti, del 1933; il metro estensibile in legno, del 1860; la penna Bic, del 1950; i rasoi in plastica usa e getta della Gillette, degli anni Novanta; la sedia di Chiavari, del 1807; il cono per il gelato, del 1902; la scarpa di tela della Superga, del 1925; la spillatrice, del 1948, sono alcuni degli esempi più noti. Molti di questi prodotti sono caratterizzati da larga diffusione e basso costo, talvolta destinati a un breve consumo o “all’usa e getta”; altri, invece, sono diventati archetipi tipologici. Tutti sono in qualche modo accomunati dall’uso quotidiano e domestico che li ha resi frammenti di abitudini. Il loro successo non è casuale, secondo Bassi, perché portatori di un’idea originale, di
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una soluzione tecnica a un problema molto specifico; sono concepiti come esteticamente gradevoli; ma soprattutto sono semplicemente funzionali, tanto da risultare utili2. Lo stesso Bassi in Design. Progettare gli oggetti quotidiani definisce i prodotti di design anonimo come quegli oggetti usati quotidianamente a cui non si presta molta attenzione, spesso ridotti nelle dimensioni e nei prezzi, ma che costituiscono dei capolavori indispensabili di design, essenziali, razionali. Talvolta derivano da un lungo processo evolutivo che genera un progressivo miglioramento di una specifica specie di oggetto, in altri casi da una intuizione repentina che determina la nascita di una nuova tipologia di prodotto che risponde a esigenze e necessità emergenti3. Al tema del design anonimo e quotidiano sono state dedicate diverse riflessioni teoriche ed esposizioni museali. A New York, nel 1997, Michael Rock e Susan Sellers (assistiti da Alice Twemlow e Ole Scheeren) hanno realizzato un museo del design ordinario in cui gli oggetti venivano lasciati nel loro contesto originale invece di essere rimossi dal loro ambiente naturale, sovvertendo il tradizionale paradigma di museo come cornice che contiene le collezioni piÚ pregiate ed elitarie4. Il Museum of the Ordinary includeva trenta strade a Manhattan situate in quattro aree della città . La collezione del museo conteneva tutti gli oggetti che si trovavano nelle zone individuate. Il progetto espositivo mirava a evidenziare il legame tra design quotidiano, contesto ed esperienza personale degli utenti, inconsapevoli passanti trasformati in visitatori del museo. Elementi convenzionali degli allestimenti museali, come le didascalie descrittive, erano stati posti sugli artefatti di uso quotidiano: tombini, segnaletica urbana, lampioni, edifici, ecc. Il progetto metteva in discussione la pratica tradizionale dei musei di decontestualizzare gli oggetti presentando un’alternativa costituita da un racconto integrato delle storie di questi oggetti apparentemente banali5. Nel 2004 la mostra Humble Masterpieces, curata da Paola Antonelli al MOMA di New York, ha raccolto circa centoventi oggetti di uso comune dai Post-It alle graffette, dai cerotti alle penne Bic. Nella collezione permanente del MOMA sono pre-
senti circa 3.800 oggetti di design quotidiano provenienti da ogni luogo del mondo che includono non solo argenteria e arredi preziosi, ma soprattutto oggetti ordinari, molti artefatti tecnici tra cui anche un elicottero e un microchip. Tra i primissimi oggetti di design acquisiti dal Museo, nel 1934, c’era un gruppo di oltre cento oggetti industriali anonimi, come molle e calibri, già esposti lo stesso anno nella mostra Machine Art. Nel 2006, la mostra itinerante Super Normal, insieme all’omonimo libro-manifesto, ha espresso l’idea di Jasper Morrison e Naoto Fukasawa di oggetti “super normali”, dotati di una speciale attitudine all’uso e ad aderire alle esigenze e alle routine delle persone nel tempo, anche al variare delle condizioni. Gli oggetti esposti in mostra per rappresentare questo concetto spesso non sono anonimi perché privi di una firma, ma sono stati disegnati senza quell’intento di ego creativo o di espressività che caratterizza il design d’autore. Dunque, la super normalità può essere una scelta consapevole del designer nel concepire un prodotto che possa entrare in modo discreto e lieve nel vivere quotidiano delle persone6. 3. L’esperienza del quotidiano Nel design degli oggetti quotidiani i concetti di usabilità, affordance ed ergonomia hanno un ruolo importante per assicurare un’utenza ampia e diffusa. La nuova dimensione domestica ibrida, che prevede la pratica in abitazioni sempre più piccole di attività legate ad altre sfere, come quella lavorativa, sportiva o di intrattenimento, richiede una revisione delle modalità di verifica della qualità esperienziale dei prodotti contenuti, destinati a soddisfare bisogni inediti. Nel 1979 James Gibson, teorico statunitense esperto di teoria psicologica della percezione visiva, ha introdotto il concetto di affordance nell’ambito disciplinare della psicologia ecologica per valutare le interazioni tra persone e oggetti in relazione alle caratteristiche dell’ambiente circostante. Secondo Gibson le affordance possono essere molteplici, ovvero un oggetto può fornire più di una distinta affordance senza incoerenze. Ad esempio,
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uno sgabello consente di sedere, sollevare, trasportare, calpestare, ma anche inciampare7. L’approccio ecologico valuta, dunque, anche la relazione tra le proprietà fisiche e dimensionali delle cose e i dati biometrici degli individui. La visione di Gibson fa riferimento alla percezione diretta, cioè al modo in cui l’uomo, in quanto animale, percepisce gli oggetti e l’ambiente in termini di istinto, senza un ulteriore processo cognitivo8. Un decennio dopo l’introduzione della teoria di Gibson, Donald Norman, ingegnere statunitense studioso di psicologia e scienze cognitive, ha trasferito il concetto di affordance alla comunità del design nel suo libro The psychology of everyday things, intitolato successivamente The design of everyday things9, pubblicato in italiano con il titolo La caffettiera del masochista. L’uso del concetto di affordance da parte di Norman è sostanzialmente diverso da quello concepito in origine da Gibson e dalla psicologia ecologica poiché prevede un processo cognitivo in base al quale le proprietà di un oggetto, e le indicazioni relative al suo uso, derivano dall’elaborazione mentale dei dati ottenuti dalla percezione attraverso il filtro del corredo esperienziale e culturale dell’utente. La visione di Norman, dunque, complessifica il concetto, eludendo però la componente più corporea legata alla biometria e alla biomeccanica inclusa nella concezione originaria della psicologia ecologica. Successivamente, con la pubblicazione di Emotional design, Norman rafforza gli aspetti più emotivi della cognizione aggiungendo ai requisiti di facile usabilità e capacità auto-esplicativa l’attitudine di alcuni prodotti a coinvolgere emotivamente l’utente. Ancor più dell’affordance, la qualità emozionale è soggettiva perché si fonda su valori, memorie, principi, desideri e abilità dell’utente10. Negli ultimi due decenni i concetti di affordance e usabilità sono stati spesso impiegati nel mondo dell’informatica per studiare la qualità dell’interazione degli utenti con le interfacce dei dispositivi, lasciando la dimensione concreta e fisica dell’usabilità dei prodotti materici al dominio dell’ergonomia fisica che, invece, ha perpetuato l’attenzione per gli aspetti biometrici e biomeccanici originariamente inclusi nelle trattazioni di Gibson. Secondo Claus-Christian Carbon, studioso tedesco di psico-
logia ed estetica, è utile ricongiungere queste sfere e riportare la psicologia al centro del discorso sull’usabilità, dando luogo a uno specifico ambito disciplinare, che definisce “Psychology of Design” (PoD), nel quale possano confluire i diversi approcci costruiti in questi decenni intorno all’esperienza di fruizione dei prodotti come affordance, usabilità, ergonomia e biometria. Per Carbon l’essere umano rileva e interpreta il mondo esterno, quindi anche il design, attraverso processi percettivi multisensoriali modulati da associazioni e analogie modellati da fattori soggettivi come la personalità e il contesto sociale di chi le formula. Questi fattori sono inevitabilmente influenzati dallo Zeitgeist (lo spirito culturale del tempo) che li rende dinamici e mutevoli. Allo stesso modo, l’aspetto formale, linguistico e la Gestalt (psicologia della forma e della rappresentazione) non possono essere riferiti soltanto alla natura oggettuale e funzionale del prodotto, ma anche alla significazione degli oggetti11. Se le affordance fornite da un determinato prodotto non sono oggettive, ma dipendono dalla persona, dal contesto e dalla specifica situazione in cui viene fruito, è necessario che il progettista abbia adeguate competenze di psicologia per essere in grado di gestire la complessità di questi fattori o che faccia riferimento a consulenti psicologi. Per ricondurre la sfera concreta e corporale all’interno della psicologia cognitiva del design, Carbon ritiene utile confrontarsi anche con il campo di ricerca definito embodied cognition12 che integra la prospettiva cognitiva con quella somatica e fisica13. Coerentemente con quanto auspicato da Carson il concetto di User Experience (UX), ampiamente diffuso nell’ambito dell’interaction design, nella sua accezione più ampia estesa anche al design di prodotto, costituisce un possibile approdo risolutivo poiché include tutti gli aspetti soggettivi, dinamici e contestuali dell’esperienza in maniera olistica. La UX valuta il modo in cui l’esperienza d’uso di un servizio o di un prodotto viene accolta dagli utenti in termini di percezione di fattori come utilità funzionale, efficienza, semplicità d’uso, accessibilità, affidabilità, attribuzione di senso e di valori. In questa ultima categoria rientrano gli aspetti affettivi, emozionali, la desiderabilità e l’apprezzamento estetico14.
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4. Il design diffuso nell’era iperdigitale
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Il digitale è ormai una realtà pulviscolare presente in ogni più piccola particella del nostro essere. Ciò che è cambiato, rispetto ai decenni scorsi, è proprio la capacità acquisita dagli strumenti digitali di insinuarsi nelle attività quotidiane delle persone, di aderire ai diversi momenti delle loro vite, ai loro corpi e persino ai loro sogni. Nell’era iperdigitale, che apparentemente sembrerebbe spingere verso la dematerializzazione, le possibilità produttive vengono ampliate anche nella dimensione analogica introducendo nuovi processi e modalità realizzative che, per il mondo del design, costituiscono un immenso panorama di opportunità e stimoli. La fabbricazione digitale additiva e sottrattiva, i processi ibridi analogico-digitali, i sistemi di produzione robotica, le piattaforme di coprogettazione digitale in cui gli utenti possono customizzare i prodotti che acquistano, fino a giungere agli scenari emergenti, come la biofabbricazione, moltiplicano le modalità espressive ed esecutive con cui il design può rispondere alle esigenze quotidiane emergenti. Viviamo in un tempo in cui un giovane designer può acquistare per meno di mille euro una stampante 3D e avviare una produzione di oggetti personali o da proporre sul mercato, prodotti customizzati “su misura” mediante piattaforme online che gli consentono di rispondere in modo puntuale e immediato alle esigenze degli utenti. Questo modello di produzione paradigmatico del contesto dei makers, definito peer to peer, mira ad abbattere le gerarchie parificando produttore e consumatore. Nonostante la versatilità e l’adattabilità di questi strumenti, negli ambienti più colti e raffinati del mondo del design si percepisce ancora una diffusa diffidenza nei confronti della stampa 3D, motivata da una qualità estetica e funzionale degli oggetti prodotti spesso ancora limitata. Le stampanti più economiche producono oggetti poco rifiniti, grossolani e fragili che inducono molti critici del design a relegare queste tecnologie ancora in uno spazio intermedio tra il gioco e le cose. Ma non sarà così per sempre perché le tecnologie e i materiali impiegati nelle produzioni digitali diventano più raffinati, perché la cultura dei makers
sarà sempre più integrata con la cultura del progetto e, infine, perché questi strumenti consentiranno di produrre in maniera sempre più rapida ed economica soluzioni materiche istantanee per nuove urgenze. Lo ha dimostrato, di recente, l’esperienza delle comunità dei makers di tutto il mondo, a fronte dell’impossibilità delle aziende di produrre in tempi brevi l’inaspettata quantità di dispositivi di protezione individuali (DPI), necessari agli ospedali durante la pandemia di Covid-19. Organizzati in reti territoriali in tutto il mondo, i makers hanno stampato, per esempio, migliaia di visiere di protezione, per rispondere all’urgente domanda, in attesa che i canali convenzionali riuscissero ad attuare un aumento della produzione. La stampa 3D è, però, soltanto una delle declinazioni del digitale nell’ambito del design per il quotidiano. Ad essa si aggiunge l’Internet of Things (IoT), un contesto in cui gli oggetti sono connessi attraverso la rete Internet con persone e con altri oggetti. Le cose all’interno di tali reti trascendono le loro forme fisiche e si estendono fino a includere algoritmi, esseri umani, dati e modelli di business. Ognuno di questi artefatti fa riferimento a motivazioni e prospettive indipendenti ma interdipendenti. In questo ambito il design non deve affrontare solo il progetto dei singoli artefatti ma anche delle loro “costellazioni”, considerando sia i caratteri indipendenti sia le interdipendenze. Tutto questo ha un impatto funzionale e culturale molto più ampio e dirompente rispetto al progetto del singolo oggetto quotidiano, poiché offre la possibilità di espandere l’intento espressivo e speculativo di questa sfera di prodotti in modo significativo15. La capacità speculativa dell’IoT non è ancora del tutto manifesta, ma costituisce un potenziale particolarmente promettente, che traccerà in futuro scenari del tutto nuovi e sovversivi. Un’altra tendenza che emerge nella scena dei prodotti quotidiani correlati al digitale è quella degli “Objects with Intent” (OwI), una particolare tipologia di agenti impiegati nel contesto dell’interazione tra utenti e computer (Human Computer Interface), che sfruttano il significato delle cose quotidiane come sito di innesto per la loro intelligenza e capacità di azione. Il concetto di OwI è stato introdotto nell’ambito delle teorie di Dennett sull’in-
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tenzionalità e di Leontiev sulle attività. Gli autori dell’articolo Objects with Intent: Designing Everyday Things as Collaborative Partners descrivono l’applicazione degli OwI attraverso il caso progettuale di Fizzy, una palla robotica utilizzata per stimolare i bambini ricoverati in ospedale a dedicarsi al gioco fisico. Fizzy innesta le strategie volte ad agevolare l’interazione dei bambini sulle attitudini quotidiane dei piccoli utenti, legate alle loro caratteristiche generiche come età e dimensioni corporee, e alle loro specifiche condizioni di salute e di provenienza16. 5. Una rassicurante omologazione
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La crisi economica, la tendenza a rifugiarsi nella dimensione domestica e la percezione di fragilità dilagante costituiscono un substrato ideale per consolidare ulteriormente il successo di grandi brand globali17 come IKEA, Apple e Muji che fondano i loro prodotti su un’idea di design ubiquo e facilmente apprezzabile, caratterizzato da linee pulite, minimali, dall’uso del “non colore” bianco e da soluzioni pratiche e funzionali che aderiscono ai gusti e alle attitudini delle persone con la stessa facilità di un oroscopo. La diffusività di questi “white brands”, la certezza di entrare in uno dei loro grandi store in qualsiasi parte del mondo e sentirsi a casa, il linguaggio omogeneo e familiare in grado di dilavare ogni differenza di latitudine, classe sociale o estrazione culturale, sono caratteri che garantiscono un effetto rassicurante. I prodotti di questi brand sono disegnati, non sono trascurati nel progetto. IKEA, ad esempio, esplicita i nomi dei designer di tutti i suoi prodotti. Spesso sono giovani designer che, però, inevitabilmente tendono ad adeguarsi alla personalità del brand, dissipando in parte la potenza visionaria e la capacità di sintesi che dovrebbe contraddistinguere i creativi della loro età. Attitudini che vengono, invece, espresse nei progetti di ricerca paralleli al filone produttivo sviluppati dall’azienda in collaborazione con partner esterni, volti a scandagliare nuove visioni sul futuro della vita quotidiana. Tra questi IKEA’s future living lab, in collaborazione con SPACE10, propone una collezione di ricette e istruzioni sulle tendenze future del cibo; mentre Rognan, realizzato in
collaborazione con Ori, startup americana del MIT (Massachusetts Institute of Technology), prospetta nuove tipologie di arredi robotici per rispondere all’obiettivo di aumentare lo spazio abitativo all’interno di piccoli appartamenti. L’esempio dei progetti di avanguardia di IKEA è emblematico del fenomeno secondo cui alcuni dei più importanti global brand posseggono in realtà diverse anime caratterizzate da livelli sperimentali e speculativi differenti che, con diversi gradi di velocità e visibilità, riescono a garantire il loro successo influendo in modo significativo, ma spesso poco percepibile, sull’idea di design quotidiano presente e futuro. 6. Ogni desiderio è un ordine Esiste un’altra categoria di brand internazionali che in tempi di crisi e di paura avanza a velocità ancora più sostenuta. Sono i grandi brand internazionali della distribuzione e-commerce come Amazon, Wish e Alibaba che hanno radicalmente trasformato il marketing dei prodotti di consumo quotidiani e la relazione tra domanda e offerta. L’impiego, sempre più cospicuo, dei sistemi di Intelligenza Artificiale (AI) e di Machine Learning consente loro di raccogliere enormi quantità di dati impiegati per coinvolgere i clienti, ma anche per fornire alle aziende produttrici informazioni utili a orientare l’ideazione di nuovi prodotti e la selezione dei concept potenzialmente più adeguati a rispondere ai bisogni emergenti. Nei processi di progetto e sviluppo, l’identificazione delle esigenze dei clienti in relazione al loro contesto assume una grande importanza strategica, ma richiede una profonda comprensione dell’esperienza del cliente. I brand internazionali di e-commerce hanno la capacità di approdare a queste conoscenze elaborando dati provenienti da sistemi di User Generate Content (UGC): ad esempio, recensioni online, social media e blog, che forniscono informazioni molto dense perché ricche di dati testuali da cui è possibile identificare le esigenze dei clienti in un determinato settore di mercato in modo molto più efficiente rispetto ai metodi tradizionali. Gli approcci più efficaci si basano su interazioni umane con i clienti che impiegano strumenti definiti Voice
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Of the Customer (VOC), come le interviste esperienziali e i focus group, ma sono spesso costosi e richiedono molto tempo, causando ritardi nel time to market. La UGC è disponibile rapidamente e ad un costo incrementale abbastanza basso per le imprese. Rispetto alle interviste il sistema UGC può essere aggiornato continuamente, consentendo all’azienda di adeguare i propri processi di comprensione delle esigenze dei clienti in maniera progressiva o di decidere di tornare a interrogare le UGC periodicamente, a costi minimi, per esplorare l’impatto di eventuali nuove intuizioni18. I grandi colossi come Amazon possiedono una grandissima quantità di recensioni sui prodotti che vendono, scomponibili per categoria, target o prezzo, dunque una risorsa preziosissima per la pratica di design e per la cultura del progetto che, al momento, è ancora diffidente o parzialmente inconsapevole della potenzialità di attingere da questi sconfinati universi di numeri e informazioni come fonte di conoscenza da cui elaborare valutazioni critiche. Si tratta di dati non solo quantitativi ma anche qualitativi che consentono di entrare a fondo nella conoscenza dei gusti, delle attitudini e delle tendenze delle persone. Attraverso questi sistemi gli ordini, i tempi e le modalità con cui avviene il processo, che partendo dalla consapevolezza di una esigenza induce alla scelta di acquisto e successivamente all’uso del prodotto, si invertono, diventano istantanei e istintivi. Le regole di mercato si sovvertono e la componente impulsiva spesso prevale su quella razionale. Nell’era dell’e-commerce i mercati emergenti convergono in un unico mercato continuo nel quale confluiscono multinazionali e piccolissimi produttori prevalentemente orientali, spesso anonimi, ma agilissimi, progettano, sviluppano e mettono in produzione moltitudini di oggetti in poche settimane per poi modificare la produzione in tempi brevissimi in funzione dell’andamento del mercato e dei dati forniti dagli algoritmi. Talvolta questa agilità si traduce, oltre che in rapidità, anche in versatilità, che consente loro di proporre al mercato soluzioni e prodotti prima che lo facciano le grandi aziende, molto più lente nel processo di sviluppo che include fasi come ricerca e brevettazione che, in genere, dai produttori anonimi vengono saltate.
Questi cambiamenti di scenario ovviamente determinano l’instaurarsi di dinamiche che hanno un forte impatto sul mondo della produzione di design e sulla cultura del progetto, dinamiche così nuove e vaste da essere difficilmente valutabili. La deflagrazione delle fasi di progettazione, produzione e vendita porta a imporre una profonda revisione anche del concetto di design, dei rapporti tra estetica e funzionalità e tra desiderio e utilità, delineando un nuovo tipo di processo che si fonda non più sul brand ma sulla capacità di rispondere a esigenze emergenti. La dimensione del progetto di beni si consumo domestici negli anni ’20, dunque, si moltiplica su diversi livelli paralleli: quello delle cose comuni di sempre, che silenziosamente ci accompagnano da generazioni; quello digitale, diffuso e distribuito nei laboratori e nelle case di tutti i possibili progettisti/makers in grado di utilizzare gli strumenti di fabbricazione digitale additivi e sottrattivi; quello appartenente alla dimensione del design globale dei white brands, che piace a tutti perché è facile e rassicurante, e quello della produzione industriale minima, spesso di provenienza orientale distribuito attraverso canali come Amazon o Wish. Tali dimensioni parallele del design quotidiano contemporaneo spesso contengono complesse interdipendenze tra attori umani e non umani. Rappresentare adeguatamente queste prospettive come aspetti di una stessa realtà da interpretare con gli strumenti di una disciplina flessibile e aperta, ma che necessita di punti di riferimento, richiede uno sguardo rivolto ad un design centrato sull’essere umano, che consenta di contestualizzare questi fenomeni come espressioni di un vivere quotidiano comune e diffuso, dunque comprensibile per quanto complesso, anche mediante gli strumenti dell’empatia e della personificazione. 7. L’avanzare silente della frugal innovation Alla luce delle dinamiche, spesso contraddittorie, che caratterizzano lo scenario nel quale confluiscono la minaccia ambientale, la crisi economica e la percezione di diffusa vulnerabilità, è opportuno chiedersi che fisionomia assuma l’innovazione dei prodotti rivolti alla quotidianità e, in particolare, l’innovazione guidata dal design. Sicuramente sarà una innovazione fondata sui
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trend emergenti come l’economia della condivisione, l’economia circolare e il movimento dei makers. Uno degli scenari di innovazione delineati dalla ricerca nel campo del management più adeguati al contesto descritto, e in particolare alla problematica della scarsità di risorse economiche e materiali, è quello della frugal innovation19. Il termine è stato inizialmente introdotto nel particolare contesto dei paesi emergenti, ai quali veniva offerta come opportunità di sviluppare prodotti e servizi facilmente accessibili, a basso costo, ma in grado di rispondere alle loro specifiche esigenze20. Successivamente l’intuizione di impiegare questo approccio anche nei paesi apparentemente più sviluppati, ma afflitti da ripetute crisi economiche e dalla preoccupazione per la salvaguardia dell’ambiente, ha portato a complessificare ulteriormente il concetto mettendo in discussione le definizioni precedenti. Gli esperti di innovazione Navi Radjou e Jaideep Prabhu hanno pubblicato diversi libri su questa tematica21. Il più recente, del 2019, è Do Better with Less: Frugal Innovation for Sustainable Growth, in cui delineano i principi chiave, le prospettive e le tecniche del l’innovazione frugale attraverso la descrizione di oltre cinquanta casi studio di imprese di diverse dimensioni e settori che sono riuscite a ricavare profitti attraverso strategie di innovazione responsabile per la società e per l’ambiente22. Alcuni esempi di frugal innovation sono l’involucro che sostituisce l’incubatore per neonati progettato da Jane Chen della Stanford University, che costa 20 dollari invece di 20.000; il microscopio pieghevole sviluppato da Manu Prakash della stessa università, vendibile a 50 centesimi, o la centrifuga da 20 centesimi; ma anche prodotti di grandi aziende come la Tata Nano e il dispositivo portatile ad ultrasuoni tascabile GE Vscan. Tutti questi casi sono stati generati dall’analisi di bisogni essenziali (bottom up) e non dalla ricerca di cosa sarebbe bello possedere (top down)23. Al tempo delle crisi, l’economia globale è attraversata da una comune condizione di fragilità e scarsità di risorse che rende tutti i contesti frugali e, dunque, adatti a questo tipo di innovazione. Timo Weyrauch e Cornelius Herstatt, attraverso una indagine multimodale e una revisione della letteratura scientifica in questo
ambito, hanno stabilito tre criteri per distinguere l’innovazione frugale dagli altri tipi di innovazione: sostanziale riduzione dei costi; concentrazione sulle funzionalità primarie che rispondono a esigenze di base, e livello di prestazioni ottimizzato24. Il fattore di innovazione di questo approccio consiste prevalentemente nella difficoltà di integrare i valori e le qualità incorporate nei tre criteri individuati da Weyrauch e Herstatt. La capacità di rispondere a esigenze primarie a costi ridotti, ma con prestazioni ottimizzate, dunque attraverso qualità come leggerezza, adattabilità, semplicità e robustezza, è decisamente difficile da perseguire. Le prime tre sono riscontrabili in modo integrato in molti dei prodotti a basso costo proposti dai global brand come IKEA o Amazon. In base al modello economico produttivo attualmente più diffuso, invece, la robustezza risulta in contraddizione con le altre proprietà. Ed è proprio questo l’aspetto inedito e più interessante della frugal innovation: una associazione inconsueta tra requisiti che generalmente divergono, poiché i beni di consumo più economici prodotti in larga scala sono prevalentemente poco robusti, caratterizzati da una ridotta qualità manifatturiera e di conseguenza anche poco durevoli, effimeri, quasi usa e getta. Guardando indietro, invece, questa combinazione si è verificata ed è rintracciabile proprio nel design anonimo del secolo scorso che, in questa ottica, può essere interpretato come un riferimento progettuale nell’applicazione del concetto di innovazione frugale. Naturalmente, nella frugal innovation, si aggiungono valori figli del nostro tempo come la responsabilità etica e la sostenibilità ambientale. La letteratura specialistica di questo ambito enfatizza, infatti, la necessità di connettere l’ottimizzazione di risorse economiche con la riduzione del consumo di materia ed energia, dunque con la sostenibilità ambientale. Anche questa associazione di valori appare in contraddizione rispetto alla consueta concezione secondo cui i prodotti ecologici costino più degli altri. L’approccio frugale è, dunque, in grado di fornire gli strumenti critici e gli stimoli per indurre nuove forme di innovazione guidate dal design in grado di attuare quell’inversione di tendenza invocata dalla società contemporanea, sempre più sensibile alle
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questioni ambientali e all’opportunità di risparmiare risorse economiche e materiali, assecondando le tendenze, accentuate dalla pandemia, di riscoperta delle culture locali, della cura dei dettagli, della dimensione domestica e della qualità delle cose durevoli.
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1 P. Antonelli, Il ruolo del design in tempi d’ansia e cambiamento, in “Domus”, 1045, 2020. 2 A. Bassi, Design anonimo in Italia: oggetti comuni e progetto incognito, Mondadori Electa, Milano 2007. 3 A. Bassi, Design. Progettare gli oggetti quotidiani, il Mulino, Bologna 2013. 4 K. Moline, Authorship and anonymity in experimental design: Museum of the Ordinary and Museum Guixé, Blucher Design Proceedings, 1(5), 2014, pp. 453-458. 5 M. Rock, S. Sellers, The museum of the ordinary, in “Eye: International Review of Graphic Design”, 1998, 7.28: 32-35. 6 J. Morrison, N. Fukasawa, Super normal, Lars Müller, 2006. 7 J.J. Gibson, The ecological approach to visual perception, Boston, MA, US. 1979. 8 B.R. Fajen, Affordance-based control of visually guided action, in “Ecological Psychology”, 2007, 19.4: 383-410. 9 D.A. Norman, The psychology of everyday things, Basic Books, 1988. 10 D.A. Norman, Emotional design: Why we love (or hate) everyday things, Basic Books, 2004. 11 C.C. Carbon, Psychology of Design, in “Design Science”, 2019, vol. 5, pp. 1-18. 12 A. Krishna, N. Schwarz, Sensory marketing, embodiment, and grounded cognition: A review and introduction, in “Journal of consumer psychology”, 2014, 24.2: pp. 159-168. 13 L. Foglia, R.A. Wilson, Embodied cognition, in “Wiley Interdisciplinary Reviews: Cognitive Science”, 2013, 4.3, pp. 319-325. 14 J.J. Garrett, Elements of user experience: user-centered design for the web, Pearson Education, 2010. 15 P. Coulton, J.G. Lindley, More-Than Human Centred Design: Considering Other Things, in “The Design Journal”, 2019, 22.4, pp. 463481. 16 M.C. Rozendaal, B. Boon, V. Kaptelinin, Objects with Intent: Designing Everyday Things as Collaborative Partners, in “ACM Transactions on Computer-Human Interaction (TOCHI)”, 2019, 26. 4, pp. 1-33. 17 J.B. Steenkamp, Global brand strategy: World-wise marketing in the age of branding, Springer, 2017. 18 A. Timoshenko, J.R. Hauser, Identifying customer needs from usergenerated content, in “Marketing Science”, 2019, 38.1, pp. 1-20. 19 N. Radjou, J. Prabhu, Do Better with Less: Frugal Innovation for Sustainable Growth, Penguin Random House India Private Limited, 2019.
20 P. Soni, R.T. Krishnan, Frugal innovation: aligning theory, practice, and public policy, in “Journal of Indian Business Research”, 2014. 21 N. Radjou, J. Prabhu, 2019, op. cit.; N. Radjou, J. Prabhu, Frugal Innovation: How to do more with less, The Economist, 2015; N. Radjou, J. Prabhu, Jugaad innovation: Think frugal, be flexible, generate breakthrough growth. John Wiley & Sons, 2012. 22 N. Radjou, J. Prabhu, 2019, op. cit. 23 R.R. Basu, P.M. Banerjee, E.G. Sweeny, Frugal Innovation. Journal of Management for Global sustainability, 1(2), 2013. 24 T. Weyrauch, C. Herstatt, What is frugal innovation? Three defining criteria, in “Journal of frugal innovation”, 2017, 2.1, p. 1.
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L’Opificio Bertozzi & Casoni: estetica, concetto e sapienza fabbrile FRANCESCA PIROZZI
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Giampaolo Bertozzi e Stefano Dal Monte Casoni costituiscono un sodalizio artistico che si inserisce nel solco della nobile tradizione delle società cooperative artigianali d’impronta Arts & Crafts ispirantesi al modello umanistico italiano della bottega d’arte1. La figura d’artista che essi incarnano, infatti, non è quella del genio romantico che rifiuta le regole e rinnega la tradizione, ma quella dell’artiere, che realizza con passione, cognizione e perizia, oggetti d’arte e di design destinati a inserirsi, con un proprio marchio di fabbrica, in un circuito di produzione e vendita. Le loro opere, uniche o riproducibili in serie limitata, a sola funzione estetica oppure destinate all’uso e all’arredo, sono realizzate, infatti, con materiali e processi artigianali – seppure spinti a un livello avanguardistico di specializzazione tecnica – e sono pensate dagli autori come generi merceologici, dotati di forte identità e comunicabilità. Inoltre ogni ‘prodotto’ non è riconducibile all’uno o all’altro artista, ma riporta il marchio della ditta e un numero d’inventario – come in un vero e proprio catalogo commerciale –, e si qualifica come gadget pubblicitario, così da affidare all’opera stessa non solo un portato di valori estetici e concettuali, ma pure una valenza promozionale del brand. Infine, lo spazio di lavoro nel quale operano Bertozzi & Casoni non è il classico atelier d’arte, ma piuttosto uno stabilimento, al quale gli artisti hanno assegnato programmaticamente la denominazione di Opificio – «“luogo di riconciliazione” ove si sperimenta la conoscenza, si verificano le forme e si prende coscienza dei limi-
ti»2. Il loro è dunque un nuovo modello di artista/artigiano che introduce «nel proprio lavoro tutte le componenti di un’impresa moderna: la qualità del progetto, le tecniche e i procedimenti innovativi, la comunicazione e la commercializzazione»3. Negli anni Ottanta, quando la loro unione assume lo status societario, Bertozzi & Casoni non sono l’unico caso di applicazione di strategie aziendali al mondo dell’arte4, ma rappresentano tuttavia una singolarità e un primato artistico da molteplici altri punti di vista. In primo luogo, in quanto ceramisti inseriti nella complessa scena dell’arte e del design contemporaneo. Secondariamente per la capacità di individuare e di coltivare, nel panorama sconfinato delle tecniche e dei linguaggi ceramici, un codice formale ed espressivo di assoluta originalità. Infine, per gli ineguagliati livelli di perfezione esecutiva e di avanzamento tecnologico conseguiti. In tal senso, la loro produzione rappresenta un fenomeno esclusivo nel panorama dell’arte e, grazie al connubio di sapienza fabbrile, ricchezza ideativa e pregnanza estetica, essa regge brillantemente il confronto – come scrive Franco Bertoni5 (al quale si deve il lavoro critico più approfondito e continuativo sulla loro opera) – sia con le più sofisticate esperienze contemporanee che con il passato, facendo rivivere quel ‘saper fare’ di antica memoria che era appannaggio della tradizionale bottega d’arte italiana. Più precisamente, l’idea sposata da Bertozzi & Casoni – come spiega Casoni nel documentario di Mauro Bartoli, Polvere. L’Arte di Bertozzi e Casoni. Viaggio tra Venezia e New York – è quella di «uscire da una concettualità principalmente astratta, che aveva praticamente fatto sparire l’opera, denigrato le tecniche e i mestieri»6, per recuperare all’arte il solido valore della techné e per conferire dignità artistica alla ceramica, piuttosto che con trovate clamorose ed effimere, con un processo serio di ricerca sul mezzo. Si afferma in questo modo il principio secondo cui l’artefatto che discende da un processo non solo mentale, ma ben radicato nella cultura empirica, rivendica al dato reale o ready made di ascendenza duchampiana una non minore pregnanza intellettuale e di significato. L’arte torna a essere pertanto genuina, cioè risultato di un’attività umana tesa verso un fine di originalità e bellezza e fondata, oltre che sull’estro personale, l’abilità, l’intuito e l’audacia
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dell’artista, su esperienza, studio e disciplina. In tal senso la proposta dei ceramisti, mentre punta sull’innovazione dei linguaggi e dei mezzi espressivi, riallaccia i ponti col passato della gloriosa tradizione artigianale e artistica7, mettendo in campo un prodotto in cui oggetto e concetto convergono in un unicum. Il percorso artistico e la svolta estetica e tecnico-esecutiva degli anni Duemila
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Le ragioni che legano Bertozzi e Casoni all’arte del fuoco sono apparentemente scontate: entrambi appartengono a un territorio di forte identità ceramica, che comprende il polo industriale di Imola, uno dei maggiori distretti della ceramica in Italia, e quello artistico di tradizione di Faenza, una realtà feconda e dinamica negli anni della loro formazione, grazie alla presenza di alcune importanti figure artistiche, a un museo della ceramica di livello internazionale, a iniziative di ampio respiro, come il Premio Faenza, e a un ottima scuola d’arte, da loro frequentata. Bertozzi e Casoni si formano, infatti, presso l’Istituto Statale d’Arte per la Ceramica G. Ballardini di Faenza, dove hanno come maestri, tra gli altri, Angelo Biancini, Gianna Boschi, Carlo Zauli, Alfonso Leoni e Aldo Rontini. A scuola si stabilisce tra loro una solida amicizia, anche fondata su affinità di senso estetico e di concetto artistico. Dopo il magistero entrambi intraprendono gli studi all’Accademia di Belle Arti di Bologna e nel 1979 avviano insieme una bottega a Borgo Tossignano, dove realizzano, in reciproca autonomia creativa, artefatti in maiolica. Negli anni il lavoro dei giovani ceramisti si evolve, attraverso fasi operative e di riflessione, in un continuo confronto e dialogo reciproco, così da amplificare le rispettive risorse inventive e fabbrili. Alle prime prove degli ultimi anni Settanta, già pervase da quelle intelligenza, ironia e leggerezza che caratterizzeranno tutto il successivo lavoro degli artisti, seguono, all’alba degli Ottanta, opere più articolate nel rapporto significante tra forma plastica, racconto pittorico e titolatura. Si affaccia con maggiore imponenza il dato naturale, soprattutto con figurazioni di animali e piante riprodotti con accurato verismo, ma permane una volontà di spiazzamento.
Nel 1980 gli artisti acquistano un capannone nella zona industriale di Imola, denominato – come innanzi ricordato – Opificio, dove trasferiscono la loro attività e formalizzano il loro sodalizio professionale consociandosi nella Bertozzi & Casoni snc. Nello stesso anno sono tra i giovani membri fondatori del gruppo Nuova Ceramica, che – come scrive Francesco Solmi8, che ne cura le mostre insieme a Marilena Pasquali – promuove il recupero di nobiltà e superbie dell’ars ceramica in controtendenza all’austerità dominante. Comincia anche l’attività espositiva, con la partecipazione a numerose rassegne italiane d’arte contemporanea, design e ceramica, e poi a eventi in Giappone e negli USA e a seguire in Germania e in Francia. Nel 1984 sono invitati a collaborare col nascente Centro Internazionale di Studi e Sperimentazione sulla Ceramica della Cooperativa Ceramica di Imola, nato da un progetto dell’architetto Francesco Coppola coll’intento di favorire l’integrazione tra crea tività artistica e progettuale e perizia tecnica e manuale attraverso la cooperazione tra una rosa di architetti, designer e artisti di livello internazionale e i ceramisti della sezione artistica della Cooperativa, così da sviluppare proposte sperimentali di elevata qualità estetica totalmente autonome rispetto alla produzione industriale prevalente dell’azienda e finalizzate allo sviluppo culturale e d’immagine della Cooperativa. Tale esperienza, che si protrae sino al 1989, si rivela molto proficua per la crescita professionale degli artisti, anche in virtù delle occasioni loro offerte dal mondo dell’arte e del design col quale vengono in contatto: eseguono opere su progetto di Francesco Coppola, Tonino Guerra, Joe Tilson, Ugo La Pietra e avviano una produzione personale di oggetti d’uso in terraglia o maiolica dipinta, come servizi da caffè, set da scrittoio, vasi, lampade dal design sontuoso e antifunzionalista, vere e proprie sculture policrome da inserire negli spazi dell’abitare, che rimandano, per aristocratica raffinatezza e cura esecutiva, alle ceramiche Ginori progettate negli anni Venti da Gio Ponti. Disegnano inoltre eccentrici oggetti d’arredo in vari materiali e realizzano due interventi a carattere urbano: una fontana monumentale e tre elementi turriformi in grès dipinto nel nuovo quartiere di Tokyo, Tama New Town, e il grande pannello in ipergrès, Ditelo con i fiori, per l’Ospedale Civile di Imola.
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Nel 1991 tengono una prima personale presso l’Opificio dal titolo provocatorio Saldi, mettendo in vendita le proprie opere a costo di produzione, così da smascherare le strategie speculative del mercato dell’arte. A questa seguono altre sette mostre monografiche fino al 1999, intervallate da numerose collettive in Italia e in Germania, Francia e Svizzera. In questi anni la scelta di non delegare ad altri la concretizzazione delle proprie idee, bensì di porsi costantemente delle sfide non solo estetiche, ma anche di natura tecnica, in modo da forzare sempre più i limiti di fattibilità, conduce il duo artistico ad ampliare incredibilmente il patrimonio delle conoscenze e delle capacità in ambito ceramico. Questa specializzazione procede di pari passo con l’acquisizione, lo sviluppo e, non di rado, con l’invenzione di mezzi e strumenti adeguati a ottenere determinati risultati innovativi, tra cui la realizzazione di sculture a grande scala e opere ambientali, come Bosco Sacro (1993) ed Evergreen (1994). Il crescente talento esecutivo e le acquisite risorse tecniche procurano ancora ai ceramisti committenze da parte di artisti e designer che affidano loro la realizzazione ceramica dei propri progetti, come Dino Gavina, Jan Knap, Salvo, Maurizio Cattelan, Alessandro Mendini, Arman. Da queste collaborazioni nascono per Bertozzi & Casoni importanti opportunità professionali e matura una sempre maggiore consapevolezza delle dinamiche interne del mondo dell’arte. La partecipazione a Milano a numerose mostre di design, spesso curate da Ugo La Pietra, la collaborazione con lo spazio Dilmos, dedicato al progetto d’avanguardia, e i contatti col vivace ambiente ambrosiano indirizzano ulteriormente l’attenzione di Bertozzi & Casoni all’oggetto d’uso, che però in questa stagione, coerentemente col clima culturale generale, è interpretato con atteggiamento disinvolto rispetto alle istanze della produttività seriale e della funzionalità. Nel 1997 Bertozzi & Casoni ripropongono il tema della Madonna con tagliaerba, affrontato in Evergreen, nella scultura policroma Scegli il Paradiso. Qui la Vergine giardiniera è rappresentata grande al vero, su un’enorme zolla di terra fiorita sulla quale gattona il Bambino. Il lungo (circa un anno e mezzo) e complesso procedimento di elaborazione dell’opera è descritto puntualmente dagli artisti, nelle sue fasi teoriche e pratiche, in un quaderno di produ-
zione, poi pubblicato9. Si tratta infatti di un lavoro emblematico di una svolta nel loro percorso per i traguardi tecnici raggiunti, in quanto la figura umana è cotta in un unico pezzo, la qual cosa rappresenta una novità assoluta nella ceramica d’arte. Tale avanzamento tecnico si accompagna a un cambiamento anche sul versante stilistico. Tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila, infatti, l’espressione artistica, sino a questo momento oscillante tra suggestioni oniriche e personali riletture della realtà, assume una decisa impronta iperrealista, affidata a un sorprendente virtuosismo esecutivo. Superato il vincolo dimensionale, la ricerca di Bertozzi & Casoni si concentra, infatti, sulle capacità mimetiche plastiche e superficiali della materia fittile e diviene vera e propria alchimia, nella trasmutazione in ceramica delle qualità percettive delle diverse materie, così da ricreare il più ampio campionario possibile di organismi naturali e oggetti artificiali al servizio di un ben determinato intento concettuale e comunicativo. Grazie a queste risorse gli autori riescono a superare i limiti culturali convenzionali dell’espressione ceramica e a collocare la propria produzione ai vertici dello scenario artistico contemporaneo. Come rileva Bertoni: «I risultati artistici degli anni duemila che hanno dato fama internazionale e il pieno consenso della critica a Bertozzi e Casoni non sarebbero stati raggiunti se nel comporre la loro particolare miscela espressiva gli artisti avessero trascurato una componente fondamentale: un aspetto concettuale, a volte radicale a volte ironico, che ha saputo bilanciare e trattenere al di qua di una pericolosa soglia la loro ipertrofica generosità espressiva e le loro inossidabili perfezioni esecutive10». Sempre più, negli anni Duemila, il mercato dell’arte e le maggiori gallerie nazionali e internazionali si interessano al loro lavoro e si intensificano i riconoscimenti della critica e gli appuntamenti espositivi in prestigiose sedi pubbliche e private. Dal 2017, poi, le loro opere più rappresentative sono esposte in permanenza al Museo Bertozzi & Casoni alla Cavallerizza Ducale di Sassuolo. A oltre trent’anni dal loro esordio le creazioni di Bertozzi & Casoni sono oramai universalmente riconosciute tra le metafore artistiche più sorprendenti e spietate del degrado valoristico del l’età contemporanea.
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La verità che si fa stile e l’invenzione che si impossessa della realtà11
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Per Bertozzi & Casoni l’adozione di un linguaggio iperrealista è conseguenza di un episodio occorso all’alba del nuovo millennio, quando – come racconta Bertozzi12 –, durante una visita all’Opificio del gallerista Gian Enzo Sperone, inaspettatamente l’ospite manifesta una palese difficoltà nell’identificare il soggetto di una scultura in corso di realizzazione. Questo imprevisto feedback negativo si rivela illuminante per il duo, in quanto rivelatore di un deficit di leggibilità, e conseguentemente di godibilità, dell’opera e perciò di un cortocircuito nella trasmissione dell’idea dagli artisti all’osservatore13. Nasce così l’esigenza di affidarsi a una sintassi chiara, in grado di garantire una comunicazione diretta e immediata col pubblico, eliminando qualsiasi filtro interpretativo e puntando alla piena oggettività della rappresentazione. In pochi anni la messa a punto di nuove strategie operative conduce Bertozzi & Casoni all’obiettivo di un’assoluta fedeltà visiva dell’opera al dato reale, cosicché proprio le qualità mimetiche delle loro sculture assumono un carattere di preminenza nella percezione del fruitore, tanto da essere puntualmente enfatizzate dalla critica. E in effetti, in presenza di un lavoro degli artisti, l’osservatore è colto da sconcerto e meraviglia e non può fare a meno di domandarsi se ciò che appare ai propri occhi sia la realtà o un’illusione orchestrata con mezzi artistici. Anche in quest’ultimo caso risulta difficile ricondurre mentalmente l’artefatto, apparentemente polimaterico, alla sua effettiva sostanza ceramica e riconoscergli un apparentamento con i molti oggetti ceramici che popolano l’orizzonte quotidiano, come pure con le opere che fanno oramai parte dell’immaginario dell’arte fittile contemporanea – una terracotta di Martini, una ceramica informale di Leoncillo, una delicata figurina di Melotti o un’allegoria maiolicata di Ontani –, poiché le caratteristiche dimensionali (l’estrema grandezza o l’estrema sottigliezza) di queste sculture di Bertozzi & Casoni, il loro sconfinato repertorio di valori plastici e di superficie e nondimeno i temi e i soggetti ai quali gli artisti applicano questo esercizio di virtuosistica verosimiglianza non hanno assolutamente nulla a che vedere con l’iconografia ceramica del contemporaneo.
Vi è nelle loro creazioni una preferenza per la rappresentazione zoomorfa e dell’oggetto quotidiano, spesso compartecipi di composizioni apparentemente involontarie, che evocano segmenti di un ipotetico habitat postcontemporaneo presupponente una pregressa presenza umana. Tale modello iconografico, riconducibile al genere della natura morta, con o senza animali viventi, si declina di opera in opera in infinite variazioni, spesso costituenti serie tematiche, in modo da rivestire una valenza oramai identitaria nella produzione artistica del duo. La critica e gli stessi autori mettono in relazione queste opere al topos concettuale del memento mori, per la ricorrenza di «manifestazioni quasi morbose di un mondo in decomposizione e decadimento»14, ossia di immagini che enfatizzano l’aspetto caduco, transitorio, deperibile della natura e delle cose, con un intento esortativo a considerare lo scorrere implacabile del tempo che tutto consuma. Il tema peculiare della vanitas si intreccia poi logicamente a quello del trash, in quanto rifiuto, fine-vita dell’oggetto: «barili di petrolio sporchi e rottamati, cumuli di cassette da frutta, sordidi rifiuti di ogni genere, disfacimenti dovuti a incurie o violenze sconosciute, cumuli di ossa, membra amputate, e in genere tutto quanto allontaniamo dalla nostra vita»15. E tra i rifiuti non mancano i materiali culturali, quali libri, film e icone della moda, del design e dell’arte, come il tavolo Dining Tulip di Eero Saarinen (Albino al bar, 2004), la lampada Eclisse di Vico Magistretti (Bel Paese, 2010), la sedia Universale di Joe Colombo o come la latta di zuppa Campbell o la scatola di detersivo Brillo celebrate da Andy Warhol e le lattine di Merda d’artista di Piero Manzoni (Per Manzoni, 2009), immortalati in versione ceramica a uno stadio già avanzato della propria effimera esistenza, coi segni di una incipiente degenerazione, come a voler sottolineare che anche l’oggetto di culto soggiace al destino comune a tutte le cose. In tal modo Bertozzi & Casoni restituiscono oggettività al dato reale senza epurarlo degli aspetti più crudi, dolorosi e talvolta ripugnanti, ma invece dando conto, con il coraggio della verità di grandi maestri come Caravaggio, Rembrandt o Courbet, del fenomeno naturale corruttivo della bellezza e integrità di ogni esistenza. Ne sono esempio le loro pile di stoviglie sparecchiate, sulle quali sono accumulati residui e scarti di cibo, cicche di si-
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garette, dentiere, lattine deformate, bicchieri in plastica, tazzine con resti di caffè, pacchetti di sigarette o medicine, batterie esauste e altro ancora e su cui si aggirano curiosi animali, apparentemente vivi, come iguane, pappagalli, ramarri, camaleonti, scoiattoli, insetti o serpenti. Queste presenze animali e/o oggettuali fuori contesto producono, come nell’arte surrealista16, l’effetto di sconvolgere «le tranquille aspettative teoriche e visive»17 dell’osservatore, provocando turbamento e incertezza. Se di norma, infatti, si tende a ignorare un oggetto quando inconsapevolmente lo si percepisce nel giusto ordine, in presenza di un’alterazione l’attenzione è risvegliata e «le immagini agiscono in funzione di stimolo, sono dirette a porre un problema e sollevare la risposta-soluzione»18. Attraverso questo paradigma compositivo si realizza pertanto una traslazione dell’opera da un contesto puramente naturalistico a uno concettuale e simbolico, in grado di stimolare una riflessione sulla complessità delle dinamiche sociali e culturali della contemporaneità, sul senso dell’esistenza e sull’indole umana. E uno dei temi suggeriti, appunto, dal lavoro di Bertozzi & Casoni concerne ad esempio l’ambiente, in relazione alla logica del consumo sfrenato, all’invasione del prodotto di massa e infine all’interrogativo sulla destinazione ultima degli scarti che ne risultano. Da questo punto di vista l’estetizzazione dell’oggetto d’uso si pone come risposta e allo stesso tempo come provocazione: «nelle vanitas, nei nostri soggetti, nel pattume, nei rifiuti – dice Casoni – noi vediamo anche un grande sfarzo di colore e di degrado, che ci racconta di come siamo e come andremo a finire»19, in quanto vi è nello sperpero consumistico un riflesso della sorte naturale degli esseri viventi, della sfioritura e marcescenza che segue inevitabilmente l’esplosione della bellezza primaverile. Tuttavia queste evocazioni di futuribili vestigia di civiltà industriali sepolte e riesumate, non sono mai completamente tragiche e disperate, viceversa tendono spesso a contemplare note di grazia e bellezza. Da una parte, si tratta di elementi distraenti – come fiori, farfalle o coccinelle abbinati all’imagerie della morte – che servono a smorzare l’impatto emotivo della scena, dall’altra di presenze simboliche che veicolano l’idea, centrale nella poetica degli arti-
sti, di una possibile rinascita e rigenerazione. L’idea del passaggio/evoluzione a uno stadio più elevato si collega, infatti, a quella della redenzione, del riscatto, del libero arbitrio e perciò della possibilità incondizionata e aperta a tutti di scegliere il paradiso, come in Sedia elettrica con farfalle (2010). Come nella poetica Nouveau Réalisme – e particolarmente nelle opere di Arman e di Daniel Spoerri – l’oggetto è liberato dalla «schiavitù dell’essere utile»20, ossia spogliato di qualsivoglia funzione e significato convenzionale, e convertito, attraverso lo sguardo estetico dell’artista, in entità puramente visiva, in forme e colori dotati di esclusiva valenza artistica e concettuale. In tal senso appare appropriata, tanto per un quadro-trappola21 di Spoerri quanto per un cestino del duo ceramico, l’interpretazione del Nuovo Realismo fornita da Pierre Restany nel primo manifesto del movimento francese definito come «la appassionante avventura del reale percepito in sé, e non attraverso il prisma della trascrizione concettuale o immaginativa»22 e la considerazione che questa reintegrazione della realtà nella sfera artistica costitui sce per l’uomo un fatto positivo, in quanto lo porta a cogliere il senso trascendente della quotidianità, traendone «emozione, sentimento e finalmente poesia»23. La cosa comune, negletta e martoriata, racconta una storia, che può essere la storia di chiunque, rievoca ricordi e produce associazioni che restituiscono all’osservatore istanti di vita vissuti, allo stesso tempo ne attira lo sguardo verso quelle zone d’ombra che sfuggono generalmente all’attenzione e che invece, una volta attraversate, conducono altrove: «cerchiamo di far sì che ogni suggestione che scaturisce dalla visione del nostro lavoro, anche in una semplice rappresentazione del presente, porti altrove»24. Invero questa capacità dell’artista di mutare la qualità della percezione del pubblico dallo stadio della mera visione della realtà a quello della contemplazione del presente25 è una delle prerogative salienti di Bertozzi & Casoni. Catturare l’interesse su un dato banale di realtà, pressoché simile a quelli che popolano la routine quotidiana, corrisponde, infatti, a risvegliare nell’osservatore la coscienza del testimone, ossia la consapevolezza del qui e ora. Se i ceramisti condividono coi Nuovi Realisti l’opportunità offerta a chi guarda le loro opere di scoprire il senso poetico e
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vero dell’esistenza, la differenza sostanziale col movimento francese e con l’idea di ready made che sta alla base del Concettualismo è che, nel caso presente, non si tratta di oggetti veramente tratti dalla vita reale ma di artefatti che li rappresentano e che sono il risultato di un processo fabbrile, oltre che ideativo, a tal punto rigoroso, che persino le parti che incarnano oggetti ceramici – come piatti, zuppiere o tazzine – sono appositamente creati dagli artisti per lo specifico contesto. Così, mentre ad esempio nelle tavole dopo il pasto di Spoerri non vi è alcun artificio né aggiustamenti decorativi e nulla è aggiunto o sottratto alla realtà, al punto che l’artista considera sé stesso come un ‘assistente del l’accidentale’26, nei trompe l’oeil ceramici di Bertozzi & Casoni tutto è artificio e illusione, a partire dal più effimero dato materiale che è sostituito dalla sua fedele riproduzione, alla forma dell’insieme, che è frutto di una composizione ragionata. D’altro canto, questo approccio globale alla creazione artistica è emblematico di una volontaria presa di distanza da parte degli artisti da quell’idea di ‘sparizione dell’arte’27 che caratterizza larga parte della scena artistica contemporanea e che eleva qualsiasi cosa allo status di opera, senza altra forma di procedimento da parte dell’autore, che la sua individuazione. Per di più il ricorso a immagini archetipiche, soprattutto di natura zoomorfa, contribuisce a potenziare la qualità comunicativa delle opere di Bertozzi & Casoni che, in accordo alla visione junghiana, agiscono così da collettori di immagini, narrazioni e miti facenti parte di un patrimonio comune dell’umanità proprio dell’inconscio collettivo e nello stesso tempo ‘educano’ i propri contemporanei in quanto ne portano alla luce i bisogni incompresi28. E due loro opere particolarmente emblematiche, appunto, della manifestazione dei bisogni dell’uomo sono Composizione scomposizione (2007) e Composizione non finita-infinita (2009): la prima riproduce un intricato impianto di tubature, mentre la seconda ha per oggetto una matrice bidimensionale di cassette del pronto soccorso. In entrambi i sistemi si manifesta con toccante evidenza quella concidentia oppositorum29 che consiste nel comporre la normalità del quotidiano con la trascendenza, il profano col sublime, la spazzatura coi simboli della religione o con citazioni poetiche, come a voler rappresentare l’eterna, estenuante e, forse,
vana ricerca da parte dell’individuo di risposte ai propri interrogativi e al proprio inesorabile dolore.
Eduardo Alamaro scrive: «alla base dell’elaborazione dell’Opificio [di Bertozzi e Casoni] è possibile riscontrare quella nobile tradizione delle officine artindustriali (antindustriali?), delle Arts and Crafts inglesi, degli atelier, delle Scuole-Officine, delle Scuole-Laboratorio, il cui lavoro è pur tuttavia riconducibile alla polarità Belle Arti - Arti Industriali, alla fuorviante contrapposizione mano / macchina, tipica della impostazione meccanica industriale del dibattito teorico degli ultimi due secoli» (E. Alamaro, L’oro di Imola, in L. Parmesani, E. Alamaro, R. Daolio, Bertozzi & Casoni, Bio grafia illustrata. Innovazione di processo, innovazione di prodotto. Scegli il Paradiso, Grafiche Morandi, Fusignano 1998). 2 Cfr. E. Alamaro, Girate e rag-girate d’arte, in V. Vandelli et al., Bertozzi & Dal Monte Casoni snc, Zanichelli, Sassuolo 1993. 3 Cfr. U. La Pietra, Il designer artista-artigiano, in “Artigianato tra arte e design”, 2002, 46, p. 10. 4 Altri casi coevi di analoghe società artistiche sono ad esempio: Oklahoma srl, Premiata Ditta sas, Tecnotest srl, Int. Fish-handel Service & Zn, Ingold Air Lines. 5 Cfr. F. Bertoni, Bertozzi & Casoni, scultori con la ceramica, in «la Ceramica Moderna & Antica», 2016, 292-293, p. 26. 6 Cfr. M. Bartoli, Polvere. L’arte di Bertozzi&Casoni. Viaggio tra Venezia e New York, documentario, Italia 2010. 7 «C’è stato bisogno, in una rivolta contro l’accademia ottocentesca o moderna, di trasgressione e di nuovi pensieri sull’arte. Ci basta sapere che questo sia successo e siamo riconoscenti a questi sforzi. C’è stato bisogno della grigia ripetitività di Morandi come degli Achrome di Manzoni o dell’orinatoio di Duchamp. Ma ora l’arte sta risalendo la china o, meglio, si appresta a una nuova stagione, come è naturale, in una alchimia di passato, presente e tempo» (S. Casoni e G. Bertozzi, in F. Bertoni, Bertozzi & Casoni. Potpourri Brillo box Riflessione Al bar Grottesca, Gian Enzo Sperone, Sent 2010). 8 Cfr. F. Solmi, Spoldi, Bertozzi e Dal Monte Casoni a Imola, in «I Quaderni dell’Emilceramica», 1986, 4, p. 18. 9 Cfr. G. Bertozzi, S. Casoni, Quaderno di produzione, in L. Parmesani, E. Alamaro, R. Daolio, op. cit. 10 Cfr. F. Bertoni, Bertozzi & Casoni. Opere/Works 1980-2010, Umberto Allemandi & C., Torino 2010. 11 Cfr. M. Bonuomo, Bertozzi & Casoni Terra!, a cura di M. Bonuomo, Silvana Editoriale, Recanati 2019, p. 14. 12 Cfr. M. Bartoli, op. cit. 13 «La copia della natura o comunque l’imitazione artistica della realtà, ossia la mimesis, […] ha costituito, e lo è ancora, il maggiore fattore per la comprensione delle opere d’arte, nonché l’approccio più antico del piacere estetico» (R. De Fusco, in R. De Fusco, R.R. Rusciano, Tre domande, Altralinea, Firenze 2014, p. 38). 1
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14 Cfr. Le Nouveau Realisme: i cinquant’anni 1960-2010, a cura di D. Stella, Agnellini Arte Moderna, Brescia 2009. 15 Cfr. F. Bertoni, Bertozzi & Casoni “Nulla è come appare. Forse”. Una mostra d’eccezione, in «Faenza», anno XCIV, fasc. I-VI, 2008, p. 127. 16 «Le nostre sculture sono più surreali che iperreali, e grazie a loro rendiamo palpabili e fisiche le immagini che abbiamo dentro, i nostri infiniti dubbi e le nostre piccole follie» (S. Casoni, in F. Sardella, Bertozzi&Casoni. Non Ricordo, Gruppo Spaggiari Parma, Milano 2015, p. 35). 17 Cfr. F. Menna, La trahison des images, in G.C. Argan et al., Studi sul surrealismo, Officina, Roma 1977, p. 322. 18 Ibidem. 19 S. Casoni, in M. Bartoli, op. cit. 20 Cfr. W. Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino 1982, p. 154. 21 Spoerri fornisce delle proprie ‘sparecchiature’ la definizione di quadro-trappola: «Oggetti trovati casualmente in situazioni di disordine o di ordine vengono fissati al loro supporto esattamente nella posizione in cui si trovano. L’unica cosa che cambia è la posizione rispetto all’osservatore: il risultato viene dichiarato un quadro, l’orizzontale diventa verticale» (http:// www.danielspoerri.org). 22 Cfr. manifesti del movimento di Pierre Restany (Milano 1960; Parigi 1961; Monaco 1963) e P. Restany, Nuovo Realismo, Giampaolo Prearo, Milano 1973. 23 Ibidem. 24 G. Bertozzi, in M. Zuccari, Bertozzi&Casoni. Disastri & Bellezze, in «Inside Art», 2011, 81. 25 Sono definite dagli stessi artisti ‘contemplazioni sul presente’ i loro complessi assemblage. 26 Cfr. G. Curto, G.A. Farinella, Daniel Spoerri. La catena genetica del mercato delle pulci, Silvana, Cinisello Balsamo 2001. 27 Nella Conversazione con gli artisti ceramisti Giampaolo Bertozzi e Stefano Dal Monte Casoni gli artisti citano il titolo dell’opera di Jean Baudrillard, La sparizione dell’arte (Abscondita, Milano 2012), nella quale l’autore denuncia che l’arte è ovunque presente nella realtà e che ogni cosa, per quanto banale, è arte, sacralizzata senza altra forma di procedimento, in una estetizzazione totale e avvolgente del mondo. 28 «L’arte consiste appunto nella produzione di immagini che acquistano un valore simbolico per la collettività, in quanto collegate a immagini mitologiche, patrimonio comune dell’umanità proprio dell’inconscio collettivo. […] L’opera d’arte, secondo Jung, anticipando posizioni moderne, si caratterizza per essere un “messaggio ai contemporanei” relativo alla realtà sociale ed emotiva che questi vivono e che assume senso solo se calato nella sua epoca storica e inteso come “compensazione” nei confronti dei pregiudizi e dei malesseri sociali, mostrando così i “bisogni incompresi dell’epoca”» (cfr. L. Casadio, Le immagini della mente. Per una psicoanalisi del cinema, dell’arte e della letteratura, Franco Angeli, Milano 2004, p. 67). 29 Cfr. M. Senaldi, Concidentia oppositorum, in Bertozzi & Casoni: minimi avanzi, a cura di S. Papetti et al., Verticale d’Arte, Camerino 2017.
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Tra il sacro e l’espositivo ALESSANDRO FERRARO
The modern house of believing or not di Martin Kippenberger (1985) raffigura il Guggenheim Museum di New York, dipinto con colori acidi e contrastanti, avvolto da un mare di nebbia densa. L’opera intende prendersi gioco del sistema artistico contemporaneo, dei suoi paradossi e delle sue nevrosi, oltre a evidenziare il legame profondo tra percezione dell’arte e senso del religioso; la tela è sia una rappresentazione ironica, sia una riflessione sui problemi legati alla museologia, e al carattere inevitabilmente canonizzante rispetto all’avanguardia artistica. Ma non si limita a questo: pone una discriminante tra la possibilità di credere nel potere dell’arte – e in qualche modo vedere l’opera stessa come un’apparizione, come se il Guggenheim emergesse da un mare di nebbia e confusione – e quella di non accettarne il miracoloso effetto alchemico – ovvero, il passaggio da banale a eccezionale. Durante la sua breve carriera, l’artista tedesco si è spesso occupato di temi legati all’idolatria e alle problematiche socioculturali del mondo dell’arte1, criticando le attitudini reverenziali e le abitudini che i non-addetti ai lavori – e non solo – mostrano nei confronti dell’opera e del museo. Il sottotesto creato dal titolo dell’opera non lascia spazio all’ambiguità: si può scegliere di credere al museo, alle sue narrazioni e alle opere contenute al suo interno, o si può ignorare il linguaggio e il portato culturale che esso esercita in quanto istituzione. Come ricordato dall’opera, si assiste, a partire dagli anni Ottanta, a una progressiva canonizzazione delle avanguardie artistiche, le cui opere finiscono con l’es-
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sere oggetto di un’inevitabile venerazione da parte del pubblico2. Ovviamente non si intende criticare tale passaggio storico-critico, peraltro fondativo della storia dell’arte contemporanea: si vuole evidenziare un legame estremamente tenace tra esibizione, culto, valore economico e simbolico dell’arte che, alla luce delle sfide della globalizzazione, trova una ragion d’essere in virtù del l’onnipervasività delle immagini nella società contemporanea. Numerose le mostre che attestano il legame tra arte contemporanea e sentimento del religioso: da Iconoclash: Beyond the Image Wars in Science, Religion and Art, (2002) allo ZKM di Karlsruhe, The return of Religion and Other Myths (2008), curata da Sven Luetticken, Medium Religion (2008), a cura di Boris Groys, fino a Traces of the sacred (2008) presso il Centre Pompidou, si può osservare come l’attenzione alla feticizzazione dell’oggetto, nella sua dialettica tra sacro e profano, e ai suoi valori di esponibilità – agency e contingenza – siano elementi cardine delle rassegne citate; inoltre il nesso tra religione e capitalismo, inteso come forma economica e culturale dominante, è altresì evidente3. Walter Benjamin, in Capitalismo e Religione, delinea una stretta filiazione tra capitalismo e religione, intendendo il primo come forma finale di quest’ultima, compiutamente evoluta attraverso la sospensione della correlazione tra linguaggio e mondo, tra rito e oggetto. A differenza di quanto affermava Weber, che intendeva il capitalismo come forma finale – si potrebbe dire antropologica – del protestantesimo, il filosofo tedesco mette in evidenza il carattere cattolico del capitalismo4. Attraverso l’adozione dello stesso, il culto capitalista permette, secondo Benjamin, un appagamento di ansie e preoccupazioni, un’emancipazione delle incombenze umane, indicando una via a tratti soteriologica: una logica a pieno titolo culturale capace di modellare la vita e la morale dell’individuo verso una naturalizzazione del dogma utilitaristico5. Seguendo l’impostazione critica benjaminiana, si evince come il bene mercificabile – o l’oggetto d’arte contemporanea – viva nella e della sua legittimazione. Ma se nei confronti del capitalismo tale legittimazione avviene su un piano teologico e politico, per quanto riguarda l’arte avviene su un piano testuale, intendendo il valore dell’opera d’arte in base alla sua densità di
significati, e sul piano del contesto, considerando quest’ultimo in base alle relazioni di significati6. Il parallelismo tra arte contemporanea e senso del religioso è basato sulla loro intrinseca vocazione – capitalistica – ad adorare oggetti e a mercificarli7. Questo legame è rafforzato dalla necessaria esibizione del culto dei due ambiti: essendo fondati sulla comunicazione e sull’adozione di una fede, i due aspetti ne fanno una ragion d’essere, perché legati alla ricerca di legittimità: l’arte, grazie alla critica, la religione, grazie alla teologia. Si creano così valori nei quali si sceglie singolarmente di riporre una fede, incrollabile o vacillante, in base all’effetto che recano sull’individuo. All’interno del museo sovente si osservano numerose microritualità funzionali alla corretta fruizione dell’opera d’arte: se in passato la didattica museale era finalizzata esclusivamente al trasferimento di nozioni a favore dello spettatore, visto come elemento passivo, attualmente la museologia considera lo spettatore come elemento agente, capace di interpretare lo spazio e di seguire criticamente percorsi all’interno del contesto museale. Si può affermare che la ricerca di una performatività – e di consigliarla allo spettatore, pena, una mancata comprensione dei significati dell’arte – corrisponda all’adozione di una liturgia, che non presiede un dogma, bensì un avvicinamento a un qualcosa che gli è precluso in quanto non-artista. Nella sua provocazione, il polittico di Kippenberger non si limita soltanto a presentare un nesso contestuale tra arte e religione e a sancire la legittimità della prima nei confronti della seconda attraverso un atto di fede; riflette soprattutto sull’urgenza del contesto come elemento capace di fornire validità al dogma religioso: il museo, come qualsiasi altro spazio espositivo, esprime una specifica ideologia. Secondo Brian O’Doherty l’evoluzione dei metodi di costruzione degli spazi espositivi ha cercato, in tempi recenti, di assimilare le qualità artistiche del luogo culturale in cui l’opera è stata prodotta per re-introdurla in un contesto che non le è specificamente proprio: tale rivoluzione spaziale, emblema modernista, è stata la principale innovazione dell’arte del Novecento. Il critico americano, nel suo saggio divenuto testo cardine della curatela e della critica artistica, insiste sul nesso tra intangibilità fisica del significato
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dell’opera – ovvero la sua sacralità – e il contesto in cui è inserita al fine di delineare un potere specifico che questa esercita sullo spettatore, il quale è inevitabilmente costretto a seguire un modello comportamentale specifico – e, di conseguenza, una liturgia8. La tesi di O’Doherty riflette soprattutto sulla figura dello spettatore come elemento alieno inserito in un contesto dove i significati vanno creandosi, essendo arbitrari e in via di legittimazione. Oltre a considerare implicitamente l’opera come un qualcosa che possiede una vita propria, che abita finzionalmente lo spazio espositivo, il critico americano formalizza una distinzione antropologica tra opera e spettatore dal punto di vista biografico: da un lato l’opera, in quanto oggetto mercificabile potenzialmente eterno, dall’altro la precarietà della vita umana. O’Doherty sottintende come il visitatore trovi una ragione d’essere a contatto con l’opera e il discorso che porta con sé: egli infatti deve sottostare alla grammatica spaziale dello spazio espositivo, ai soffitti luminosi, alle pareti immacolate e spersonalizzanti così da costituire, assieme agli altri spettatori, un gruppo non più individualizzato bensì generico così simile, secondo O’Doherty, ad un gruppo di fedeli pellegrini che fornisce, in virtù della propria presenza attiva, una pluralità di giudizi e opinioni estetiche che accrescono la vita biografica dell’opera. Questa, in ultima analisi, vive della propria esponibilità, intendendo tale caratteristica sia come emblema capitalista – “messa in vetrina” affinché se ne apprezzi il valore di scambio economico – sia come elemento validante la sua legittimazione. Il contenitore culturale è garante non solo di una sicurezza fisica dell’opera, ma crea le ipotesi di una seconda vita – parallela ed eterna – perché ne storicizza il valore culturale: il pubblico, in quanto provvisorio, trova una controparte nell’eternizzazione dell’opera. A oltre trent’anni di distanza dalla data di pubblicazione dei saggi del critico americano è utile riflettere sulla loro eredità, in tempi in cui la storicizzazione e l’istituzionalizzazione delle avanguardie artistiche assumono un valore legittimante e museale. I saggi di O’Doherty ci consegnano una riflessione sull’oggettualità dei beni culturali e sulla loro intima ontologia; in anni in cui il realismo sta avendo un’importante ripresa filosofica, rileggere Inside the white cube permette di fare chiarezza sull’oggetto
artistico inteso come prodotto culturale di un determinato periodo storico-economico. Non solo: interrogarsi sul valore estetico e sul valore di scambio dell’opera permette di studiare la sua stessa biografia da un punto di vista logico-culturale. Nel tentativo di O’Doherty di stilare un’evoluzione dello spazio espositivo – dalle riflessioni sui limiti della tela ai muri di galleria intesi come campo di battaglia della significazione – si può leggere anche la volontà di intendere l’opera nella sua duplicità: oggettuale, come elemento costituito di limiti estetici, di cornici, di margini e di spazi, e soggettuale, enunciante un contenuto specifico. La sacralità del significato artistico, dal Novecento ad oggi, ha trovato all’interno del white cube non solo la sua stessa ragion d’essere, ma un’esibizione delle sue potenzialità discorsive9. I muri della galleria, oggi, sono intesi come pagine bianche, in cui gli oggetti d’arte trovano una ragione ontologica; di conseguenza l’evoluzione dell’approccio installativo, sia dal punto di vista artistico che curatoriale, è uno dei principali riferimenti per valutare le contingenze sacrali dello spazio espositivo. Attualmente si tende sempre più a considerare lo spazio espositivo come un dispositivo capace di innescare una comunicazione, in cui avvengono i fenomeni descritti da Peter Greenblatt, uno dei primi museologi a riflettere su tali questioni. Il suo concetto di risonanza esprime una forte correlazione tra le forze culturali dell’oggetto artistico e le potenzialità discorsive del contesto in cui si trova10: come tale, lo spazio espositivo necessita di una riduzione del “rumore” dello scambio informazionale tra oggetto e soggetto – tra opera e spettatore. Le condizioni necessarie alla soppressione della distorsione informazionale sono state trovate, dopo anni di sperimentazioni, nelle pareti bianche del white cube – da intendersi non solo come contenitore di significati, ma anche come luogo di inveramento del carattere sacrale dell’arte contemporanea. Il dialogo opera-spettatore prende sempre più la forma di una performance, in cui il secondo non è soltanto un elemento passivo, ma contribuisce ad esperire attivamente l’opera. Parlare di biografie di oggetti artistici permette di comprendere la loro peculiare vita all’interno del museo e della galleria. Nel distinguere le persone dagli oggetti in base alla loro mercificabilità, Igor Kopytoff afferma che non sia l’accessibilità al bene
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come elemento che determina il valore di scambio e la sua effettiva ragion d’essere, bensì il grado di rapporto sociale tra “cosa” e persona: grazie all’esposizione, le traiettorie biografiche dei due termini si intersecano generando un legame interdipendente, contestuale e, in una certa misura, emozionale11. Inoltre, l’evoluzione biografica delle opere muta in base al particolare utilizzo che se ne fa e, nel nostro caso, alla specifica mostra di cui fanno parte: tale aspetto è evidente in quanto la merce-opera soggiace ad un mercato di riferimento che spesso esige la costituzione di un pedigree dell’opera o, in altri termini, di una biografia della stessa. L’oggetto d’arte musealizzato – precluso dall’essere mercificato – denota in sé una caratteristica sacrale determinata dal potere di gerarchizzazione dell’oggetto in questione: svincolato dal circuito di mercato, viene emancipato dal suo valore commerciale, ottenendo attenzioni specifiche in quanto opera museale e nobilitando la sua biografia. Si realizza così una singolarizzazione della merce che, in base alla sua certificata peculiarità estetica, diventa “individuo”, nel significato etimologico del termine; l’oggetto d’arte subisce questo processo in base al suo status di eccezione – allo stesso modo del valore umano della persona o dello spettatore. L’opera museale vive quindi di una mancata commercializzazione in virtù del suo essere “in-dividuo”, unico, in quanto prodotto in via del tutto esclusiva e avente una specifica agency. In base al contenuto discorsivo dell’opera si evince che il perno della personalizzazione dell’oggetto, cioè della costruzione del suo valore di preminenza, ruota attorno alla sua esposizione: caratteristica fondamentale, ricorda Benjamin, della trasformazione dell’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica è la sua funzione espositiva, che si trova gioco-forza nell’arte contemporanea a coincidere con la sua stessa mercificazione; ne consegue anche che l’ubiquità dell’arte e delle sue declinazioni, come si osserva con la globalizzazione, costituiscono l’inveramento delle profezie del filosofo tedesco12. Esistono, e in qualche modo sono sempre esistiti, data la mutevolezza e la varietà delle forme artistiche e di produzione, margini di resistenza al processo di significazione religiosa: zone al l’interno delle quali si creano attriti di concetto, sentieri diversi, nuove metodologie13.
A sostegno della tesi riguardo al nesso tra arte, religione e capitalismo e la loro intrinseca vocazione all’esponibilità, il paradigma della profanazione di Giorgio Agamben fornisce non solo una chiave di lettura esemplare al tema, ma crea possibili vie di uscita teoriche alla questione. Nel risalire al significato etimologico del concetto di profanazione – ovvero riportare a un uso quotidiano un qualcosa di sacro – egli delinea una storia antropologica del passaggio da religione ad economia capitalista14. La profanazione, da modus operandi capace di sovvertire un valore precostituito, diventa una possibile exit-strategy dal predominio dell’esponibilità dell’oggetto d’arte: attraverso ciò l’opera non è più legata al contesto sacrale, ma torna ad essere gioco, qui contrapposto al concetto di sacro delineando nell’esponibilità il paradigma della sua non-distruzione, in quanto elemento in-divisibile, ovvero in quanto individuo, dotato di una sua storia e di una sua biografia specifica. Lo studio di Agamben non si limita a definire la profanazione come metodologia significante, ma amplia la questione all’impossibilità di usare letteralmente e fisicamente l’oggetto sacro; definisce i musei come luogo per eccellenza in cui poter sperimentare l’impossibilità d’uso degli oggetti, in quanto sacralizzati dal contesto. È importante osservare come il filosofo intenda il far esperienza esclusivamente da un punto fisico, e non intellettuale, come impone l’arte post-concettuale; in tale considerazione si può leggere una implicita dichiarazione di intenti riguardo al processo di mercificazione e, nello specifico, al concetto di musealizzazione e di educazione all’arte contemporanea15. Il processo del gioco, come profanazione, non è soltanto immaginazione di nuove possibilità significanti, ma radicale sovversione del significato ultimo della merce attraverso la redistribuzione del suo valore di uso e di scambio. 1 In questo contesto è curioso notare come Zuerst die Füße (1990) sia stata oggetto di attacchi da parte del mondo della chiesa sebbene l’artista abbia più volte negato qualsiasi riferimento alla sfera religiosa; la questione, profondamente legata all’esposizione e alla cultura mass-mediatica, pertiene l’idolatria, non la religione cattolica in sé. 2 R. Krauss, The cultural logic of the late capitalistic museum, in «October», 54, MIT Press, New York, 1990, pp. 3-17.
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3 A. Alexandrova, Dis-continuities: the role of religious motifs in contemporary art, DAR, Amsterdam 2013, pp. 68-86 4 W. Benjamin, Capitalismo come religione, Il Melangolo, Genova, 2013, pp. 7-21. 5 Oltre a intendere il culto del capitale come eterno e come ritualità pura, a tratti pagana, Benjamin motiva la connotazione religiosa del capitalismo sulla capacità di produzione del debito, intendendo con il termine Schuld, la doppia valenza di debito e di colpa; per similarità la religione cristiana produce senso di colpa in quanto presa d’atto – e indebitamento – delle proprie facoltà umane fallibili rispetto all’infallibilità divina. E. Stimilli, The debt of the living: Ascesis and Capitalism, State University of New York Press, Albany 2017, pp. 113-134. 6 M. Löwy, Le capitalisme comme religion: Walter Benjamin et Max Weber, in «Raisons politiques», 2006, 23, pp. 203-218. 7 E. Stimilli, Il potere economico: violenza di un culto indebitante, in «Il culto del capitale. Walter Benjamin: capitalismo e religione», ed. D. Gen tili, M. Ponzi, E. Stimilli, Macerata 2014, pp. 17-28. Rilevante, nelle considerazioni benjaminiane, è il riportare una logica religiosa a vocazione trascendentale a un contesto quotidiano. 8 “A gallery is constructed along laws as rigorous as those for building a medieval church. The outside world must not come in, so windows are usually sealed off. Walls are painted white. The ceiling becomes the source of light. The wooden floor is polished so that you click along clinically, or carpeted so that you pad soundlessly, rtesting the feet while the eyes have at the wall. […] In this context a standing ashtray becomes almost a sacred object, just as the firehose in a modern museum looks not like a firehose but an estethic condrum. […] Art exhist in a kind of eterny of display, although there is lots of “period” (late modern), there is no time”. B. O’Doherty, Inside the White Cube: Ideology of the Gallery Space, California University Press, San Francisco 1999, p. 15. 9 B. O’Doherty, op. cit., pp. 55-62. 10 Peter Greenblatt è stato uno dei primi museologi ad intendere il luogo espositivo come commistione di significati extrasensibili e come spazio in cui avviene il conflitto esperienziale dello spettatore e a concettualizzare termini ormai comuni nell’ambito come resonance e wonder. P. Greenblatt, Resonance and Wonder, in P. Collier, H. Geyer-Ryan, Literary Theory Today, Cambridge, 1990, pp. 74-90. 11 I. Kopytoff, The cultural biography of things: commoditization as process, in A. Appadurai, The social life of things, Cambridge University Press, New York, 1988, 64-78. 12 S. Lux, Di che aura parliamo? Ovvero della meravigliosa modifica della nozione stessa di arte, «Rivista di estetica», 52, 2013, pp. 131-148. 13 Emblematica la mostra The life and death of the work of art (2014) a cura di Christian Lemaitre; il progetto del Salvage Art Institute, che espone opere d’arte danneggiate o irrimediabilmente compromesse o la Gallery of Lost Art, progetto della Tate Modern che documenta online mostre di lavori distrutti o perduti. 14 G. Agamben, Profanazioni, Nottetempo, Roma 2005, pp. 23-54. 15 G. Agamben, Creazione e Anarchia. L’opera nell’età della religione capitalistica, Neri Pozza, Vicenza 2017, pp. 115-132.
Cucinare e consumare: la cucina-casa EMANUELE WALTER ANGELICO
Premessa Scriveva Camilleri in La forma dell’acqua: «[…] L’acqua non ha una forma propria, ed è come tutti gli altri liquidi, che assumono questa in ragione del contenitore che li circonda, che li contiene […]». Nel suo romanzo del 1994, infatti, l’allusione è alla ‘verità’ e al fatto che questa può assumere qualsiasi forma. Ma sarà proprio il contesto in cui viene cercata a definire la sua forma, la sua dimensione. Definire quindi l’ambiente, le circostanze, le condizioni di un evento, può aiutare a definirne la pura verità e questa sarà tanto più vicina alla realtà quanto più ne sono definite le circostanze, l’ambiente e lo spazio. Ma l’Architettura non dovrebbe seguire gli stessi principi? L’Architettura non dovrebbe, similmente all’acqua di Camilleri, seguire la forma del suo contesto? L’Architettura non dovrebbe sapersi ad-domesticare di volta in volta secondo le forme dello spazio contenitore? Per anni ci hanno insegnato che “è il luogo” a fare l’Architettura, con il proverbiale genius loci, cosa complicatissima da comprendere e capire oltreché da rintracciare poi nel costruito. Tuttavia in questo ultimi anni faremmo quasi meglio a parlare di genius coci, come neologismo coniato dalla nostra società, dove ogni cosa sembra determinata da format televisivi che impongono diverse letture delle probabili dinamiche intorno al focolare domestico, divenuto linguaggio di “una parte per il tutto”; dunque la
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cucina come rappresentazione della casa, come luogo di socializzazione, e anche come rappresentazione di se stessa: tutto in uno. Per Frank Lloyd Wright, il cuore della casa era costituito dal focolare attorno a cui ruotavano tutti gli ambienti. Crediamo che oggi non sia più così. Ora la cucina è divenuta uno spazio sociale, di incontro-scontro, dalle dinamiche personali e familiari alle relazionali aperte; è il luogo dove tutto accade, tutto si compie, tutto prende forma; la cucina nel tempo è stata sdoganata passando dai bassifondi (spesso esterni all’abitazione) spesso rappresentata come il cuore di un habitat fatto per cucinare, da sedicenti chef che ne dettano umori e tenori fra neo-linguaggi, costumi e sapori. Cucinare è certo un progetto, ma prima di questo la cucina (luogo) deve essere la rappresentazione progettuale dell’io, prima individuale poi collettivo, incrocio di tendenza e di stile, crocevia di comunicazione interna ed esterna – quasi come il salotto buono della nonna. L’ambiente cucina diviene così a buon merito la vera rappresentazione del luogo a cavallo fra la casa privata e la casa pubblica, finestra di dialogo con l’esterno. Il vero luogo dove orbita quel genius prima citato. In passato Come si alimentasse l’uomo sin dalla notte dei tempi non è certo ma una cosa è chiara, che sia stato carnivoro o erbivoro sin dai suoi esordi “l’uomo raccoglitore” si approvvigionava di ciò che trovava in natura e lo consumava prevalentemente insieme alla sua piccola comunità; divenuto ‘cacciatore’ per lungo tempo ha padroneggiato l’uso di piccole armi per procurarsi la selvaggina [P. Trabucchi, Resisto dunque sono, Ed. Corbaccio, Milano 2007]. In seguito, la scoperta del fuoco ha portato le comunità alla condivisione: hanno iniziato a cacciare grandi animali, condividendo le strategie di ‘cattura’ e poi di ‘cottura’, quindi di consumo ‘comune’ [R. Bellafiore, Le avventure della socializzazione, Mimesis edizioni, Quaderni di Teoria Critica della Società, Sesto San Giovanni (Mi) 2018].
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Nei millenni le condizioni non mutano, l’uomo nel significato intrinseco della parola ‘insieme’ coglie opportunità di scam-
bio, di riunione, di convivialità. Ad esempio, al tempo dei Romani (come era avvenuto già con i Greci e gli Etruschi) sin dal primo secolo a.C., pur essendo la nutrizione caratterizzata da semplicità e immediata disponibilità (almeno per i primi tempi), il pasto era consumato nelle domus in luoghi comuni (triclinius maius)1 dove veniva anche indossato un abito adatto (vestis coenatoria o synthesis)2 per la quotidiana occasione. Con l’espandersi dell’Impero, il contatto con altre civiltà induce i Romani ad una alimentazione più costruita ed elaborata. Nascono così i luoghi della preparazione (mai interni alle domus); si tratta di ambiti che sono appannaggio dei soli servitori o schiavi e solo a qualcuno di essi (scissores) era concesso di recarsi nel triclinium e servire il cibo già porzionato per riporlo sul repositorum3 e poi ancora su piccoli tripodi (cilliba) da cui, comodamente sdraiati e poggiati su un gomito, i padroni di casa piluccavano le pietanze rigorosamente con le mani (Ovidio Nasone, 2 d.C.), gettando poi i rifiuti per terra. Il banchetto serale era il momento più importante e rituale dove i Romani erano soliti scambiarsi gli inviti, tutti posizionati in letti più o meno grandi a seconda del numero dei posti (summus, medium, imus) al fine di favorire la socializzazione fra i convenuti al pasto. Dunque ‘insieme’ ma mai coinvolti nelle preparazioni e cotture, poiché queste ultime sono ritenute materia sporca o lercia, da relegare solo alla servitù ben più avvezza alla sopportazione degli odori di carni o alla gestione del nauseabondo garum4 a condimento di quasi tutti i piatti in preparazione. A capo della cucina vi era l’archimagirus [A. Borgo (a cura di), Tra letteratura di consumo e consumi in letteratura: Xenia e Apophoreta di Marziale, in Atti dei Seminari del Dipartimento di Filologia Classica “F. Arnaldi” dell’Università degli Studi di Napoli, 2014], cui era attribuito il ruolo
di coordinatore generale delle attività e la scelta dei cibi (Marziale, 30-104 d.C.); insomma una sorta di architetto progettista (pari al moderno chef) che orientava sia il gusto sia il consumo delle cibarie. In età repubblicana le abitazioni cominciano ad essere multilivello e l’ambiente preposto alle preparazioni culinarie passa negli interrati o seminterrati delle domus, mentre al piano superiore si sposta la sala dei banchetti (ben più aerata e distante dai
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fumi di cottura); ai piani ulteriori vi erano gli ambienti notte e nei sottotetti i locali per la servitù. Dopo la caduta dell’Impero Romano e poi ancora dopo le invasioni barbariche, l’uso di un piano d’appoggio per consumare un pasto, seppur fugace, scomparve del tutto. Rimase in uso solo nell’Impero d’Oriente e saranno proprio i Veneziani a reimportarlo nel tardo Alto Medioevo (sono i tempi in cui la Chiesa ostacolava l’uso di forchette e similari poiché assimilabili al tridente demoniaco, reo di alimentare i peccati di gola), quando si riprende l’usanza di consumare il pasto seduti intorno ad un tavolo (ma solo nei bassi ceti), spesso direttamente a contatto con i luoghi della cottura. Nel Basso Medioevo, compare la ‘tavola’: il banchetto seguiva un preciso rituale la cui supervisione era affidata al ‘maggiordomo’ o ‘mastro di casa’, propriamente detto cellarius, dispensiere incaricato del cibo e coordinatore degli scalchi (addetti di servizio alle porzioni, alla cottura e al servizio sulla tavola del Signore5). Nel Rinascimento, tale figura di coordinatore, responsabile del personale di servizio e dell’aspetto della tavola, compositore dei menù a tema ed organizzatore degli intrattenimenti di corte è ricoperta dal ‘maestro di cerimonia’, figura che diviene centrale nella convivialità e socializzazione dei commensali. Ed è proprio in questo tempo che nasce il fasto della tavola imbandita, delle allegorie dei commensali, ovvero di tutti i convitati che siedono alla stessa mensa (nel senso più lussuoso del termine). Le più belle raffigurazioni della tavola imbandita con cibi ed ogni genere di consumo, sono proprio legate ai dipinti rinascimentali che compongono una lunga lista, dall’Ultima Cena di Leonardo da Vinci (Cenacolo, affrescata fra 1494 e 1498), sino a La Cena in Emmaus (1601-1602) del Caravaggio, approdando in ultimo alle stupende nature morte barocche tardo-seicentesche. È interessante leggere come lo storico Enzo Marigliano (2014)6 racconta il Mastro di Cerimonia così come descritto dal letterato cinquecentesco Sperone Speroni7: «Egli è poeta, che canta versi per sfuggire al tedio e alla stanchezza. È geometra quando sceglie e dispone pezzi tondi e quadrati, chiari e scuri, a seconda della pietanza e del vassoio, è matematico quando conta
le scodelle e le pentole, pittore quando cobra gli arrosti, le salse e i sughi. È medico perché sa cosa è più digeribile e cosa meno, e fa giungere i piatti in tavola nella giusta sequenza, chirurgo che sa tranciare con maestria, filosofo perché conosce la natura dei cibi, delle stagioni, degli elementi ignei più o meno forti». Dunque una sorta di esperto dotato di una interdisciplinarietà in tutte le azioni inerenti la cottura del cibo (e il suo consumo) e capace di padroneggiare l’arte della Archi-Cottura. Chiaramente qui si gioca sul termine, tuttavia vi è un nesso e una logica. L’archi-tetto e colui che organizza, orienta, muove, unisce; Ludovico Quaroni affermava che l’architetto «è colui che cerca di mettere insieme cose prima distanti fra loro» (Quaroni, 1967)8 come se fosse un illuminato chef che vigila sulle dinamiche comportamentali di un luogo, che muove e mette insieme ingredienti e alimenti, in ragione dei suoi commensali. Forse il vero genius coci, misterioso individuo che apotropaicamente conduce tutto a buon fine, essendo capace di scacciare la cattiva sorte della buona tavola poiché sa pure destreggiarsi in un ambiente consono allo scopo. Il XX Secolo Lentamente il luogo della cottura e il luogo del consumo dei cibi si avvicinano sempre di più. Iniziano a comparire in ambito domestico gli ambienti dove le due funzioni si sovrappongono. Nel Settecento, nei ceti medi, la cucina da ambiente preposto alla sola cottura diviene anche il luogo del pasto: prende così corpo e sede il “focolare domestico” (ambiente spesso in uso nelle famiglie di medio basso rango) che con l’ardere del carbone (o legna) finiva con l’essere il luogo riscaldato dove la famiglia poteva riunirsi e relazionarsi. Diverso era per i ceti alti, dove la specifica sala da pranzo era cosa ben distinta dai luoghi della cottura, appannaggio della sola servitù; i nobili amavano riunirsi intorno ad un camino, mai usato per cuocere. Pari modalità accompagneranno tutto l’Ottocento sino ai primi decenni del Novecento, dove l’ampliarsi del divario tra le società benestanti e quelle meno abbienti, prescriverà l’uso distinto dei due luoghi.
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Non è lontano dai nostri giorni che nelle case ‘perbene’, l’ambiente cucina si trovasse da una parte e la sala da pranzo (dei ‘padroni’) dall’altra, spazi ben distinti tra loro. La prima Rivoluzione Industriale e le sue prime Esposizioni Universali offrono un contributo in questo senso; in particolare nel 1883 all’Esposizione di Elettrotecnica di Vienna viene presentato una sorta di oggetto che permette la produzione di vapore per la casa, parallelamente ad altri strumenti (ferri da stiro, stufe elettriche, ecc.), iniziano a comparire degli oggetti che facilitano gli usi domestici [T. Faravelli Giacobone, P. Guidi, A. Pansera, Dalla casa elettrica alla casa elettronica, storia e significati degli elettrodomestici, Ed. Arcadia, Milano 1989]. Nuove macchine, apparec-
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chiature elettriche, ‘facility’ domestiche, iniziano a concentrarsi sempre più nello stesso luogo: e questo ambiente, sempre più, s’identifica con la cucina dove la massaia con facilità poteva occuparsi di più cose contemporaneamente con minore sforzo e fatica [M. Tedeschi, Una cucina italiana, in Domus n. 292, Milano 1954, pp. 75-77]. Sarà con il tempo del Razionalismo che l’ambiente cucina verrà revisionato, con specifiche qualità estetiche proprie e sempre più equipaggiato con accessori in spazi precisi [R. De Fusco, Made in Italy. Storia del design italiano, Laterza, Roma-Bari 2007]. Si pensi alla celeberrima Frankfurt Kitchen del 1926, che getta le basi per una sorta di rivoluzione domestica controllata. Pietra miliare della produzione in serie, ne furono prodotte dall’azienda Römerstadt ben 10.000 esemplari per l’edilizia sociale in Germania nella nuova Francoforte post-bellica. Progettista è stata l’austriaca Margarete Schütte-Lihotzky, detta Grete (Vienna 1897/ 2000). Lei è una delle prime donne architetto europee, una ‘madre’ dell’architettura moderna, il cui lavoro è stato finalizzato in particolare al miglioramento della condizione delle donne (Enciclopedia delle Donne on-line): «Vidi che ogni millimetro disegnato aveva un significato e si realizzava qualcosa che avrebbe influenzato l’ambiente quotidiano dell’uomo». Era fermamente convinta che l’ambiente cucina doveva esser ‘abitabile’; per lei il mondo della casa era una continua domanda/risposta su come risparmiare il lavoro femminile, ed il suo impegno sia professionale sia femminile la accompagnerà nei suoi quasi cento anni,
migliorando e perfezionando i suoi concetti. Dunque a lei dobbiamo la riunione dell’area della cottura e dell’area del consumo (pranzo). L’esperienza di Le Corbusier (1887/1965) condenserà meglio questi principi: nel progetto e realizzazione della Cucina di Villa Savoye a Poissy (Francia 1928-1931), il grande architetto svizzero mette a punto un luogo delle meraviglie, dove oggetto/ utensile/funzione divengono strategie di lavoro e linguaggio da ‘macchina’ mimetizzata nel mondo domestico; esperienza che lo porterà nel 1952 a concepire l’Unité d’Habitation di Marsiglia proprio come ‘macchina’ questa volta da abitare, edificio simbolo di un nuovo modo di vedere e vivere l’architettura. Gli standards prendono largo piede e gli oggetti diventano sempre più coerenti con i luoghi e, questi ultimi, sempre più coe renti con le destinazioni d’uso [R. De Fusco, Made in Italy. Storia del design italiano, Laterza, Roma-Bari 2007]. Sarà sempre grazie ad una donna, Julia Child, chef americana che nel 1948 si trasferì a Parigi, che verrà introdotto un nuovo modello di cucina, più aperto, in linea, frutto della sua esperienza da cuoca: questa tipologia distributiva le appariva assai più comoda per il lavoro da svolgere in cucina [J. Child, Mastering the Art of French Cooking, Ed. Alfred A. Knopf, New York 1961]. Attraverso l’allestimento di un ambiente cucina in un programma televisivo, nacque la famosissima ‘cucina all’americana’ che spopolerà in tutte le case sino ai nostri giorni. Era un oggetto macchina nel cui interno venivano integrati gli elementi e gli elettrodomestici necessari alle azioni del cucinare (oggi questa cucina è esposta al National Museum of American History di Washington). Lontana dagli elementi in blocco distinti per funzione del passato, intesa quasi come un arredo, la cucina diventa un condensato di tecnologia ed evoluzione dei prodotti [M. Tedeschi, Una cucina italiana, in Domus n. 292, Milano 1954, pp. 75-77]; Per dirla con Renato De Fusco: «deve implicare la corrispondenza dell’oggetto a tutte le pratiche esigenze cui deve servire, e non solo alle esigenze di questo o quell’individuo o gruppo sociale, ma alla media delle esigenze collettive, e porsi come uno standard»9; De Fusco affronta la questione dell’architettura in senso più ampio, tuttavia la citazione delle sue parole è
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assai calzante nel rapporto fra ‘contenitori e contenuto’, tema qui proposto. Sarà proprio lo ‘standard’ la parola chiave con cui si metteranno a punto studi e ricerche di stile e processi ergonomici più complessi, sino a condurre le realizzazioni a standards di qualità [R. De Fusco, Made in Italy. Storia del design italiano, Laterza, RomaBari 2007]. La cucina diventa il luogo del progetto: espressione del linguaggio contemporaneo di forma e materia da un lato, e dall’altro di tecnologia pura e applicazione tecnologica di processi sempre più innovativi. Il XXI Secolo È stato un lento processo di avvicinamento e sovrapposizione: si è visto come i luoghi della cottura e del consumo del cibo si sono riuniti: nuove metonimie10 contemporanee (Treccani, enciclopedia on-line). I due luoghi acquisiti prima come differenti ma dipendenti fra loro, contigui ed affini, ora li percepiamo come ‘comuni’ nella retorica della parte-tutto. Non è un caso che messi difronte alla parola cucina non siamo più certi a cosa essa alluda: se all’insieme delle pratiche e delle strategie di cottura; se al luogo della casa o a quello di un ristorante, di una barca o di un camper; se all’insieme di mobili componenti un prodotto industriale affine al mondo culinario, o a qualche programma televisivo. Quel ‘focolare’ prima inteso come piano del camino o piano di cottura vicino al fuoco, in senso figurato, ora inizia ad acquisire l’aggettivo ‘domestico’ che implica un principio sociale il cui profumo ci riconduce alla casa e alla famiglia, alla dimora. Il focolare domestico wrightiano ben riconduce al concetto, poiché prende proprio spunto dal bivacco americano degli antichi indigeni intorno al quale la vita ruotava e tutto si compiva [R. Bellafiore, Le avventure della socializzazione, Mimesis edizioni, Quaderni di Teoria Critica della Società, Sesto San Giovanni (Mi) 2018].
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Oggi questo lugo è sempre più un punto cardinale e si dimostra paradigma del quotidiano. È diventato uno spazio sempre più aperto, che va oltre la cucina abitabile prima citata (Grete, 1926). La cucina si mostra non solo quale parte costituente ed integrata
delle nuove domus, ma anche come un ambiente e un luogo da ‘vivere’ e presentare, ancora interno ma intorno al quale far ruotare ogni attività (come fa Wright). L’ambiente cucina è ora il luogo della esaltazione sia dei sapori sia del progetto cibo, ma anche office, area tv, area relax, zona lettura e di connessione internet, ambiente dove ci si incontra a mediare i rapporti fra gli individui della famiglia. Intorno al luogo cucina si realizzano tutti i tipi di dinamiche, sia private sia pubbliche. Cucinare e consumare il pasto insieme e nel medesimo luogo sono una nuova modalità del vissuto, e ciò accade nella nostra epoca in senso ancora più aperto ed esteso: si pensi ai ristoranti che propongono la propria cucina (vetrina espositiva) come atto del fare e mostrare, come spettacolarizzazione delle metodologie del fare ad arte. In Australia alcuni recenti studi (fonte Global Kitchen, 2017) affermano che solo nello 0,36% dei casi gli individui hanno una cucina chiusa, indipendente dal resto della casa; mentre il 18,17% hanno una cucina e sala da pranzo uniti, ma con soggiorno separato; contro la maggioranza del 81,47% delle persone che posseggono una cucina a vista aperta sul soggiorno. Conclusioni Abbiamo assistito ad un avvicinamento di due scenari assai diversi, quello del cuocere e quello del consumare il cibo. La storia ci consegna un approccio sociale assai diverso da come lo viviamo oggi. Intorno al mondo domestico sono avvenute trasformazioni sempre più prossime alla sovrapposizione dei costumi, forse per necessità, forse per più disinvolti usi, forse per accezioni spaziali, o forse ancora per rinnovati costumi che trovano nella riunione dei comportamenti nuove forme di libertà collegate con lo spazio che le contiene. I nuovi Anni Venti quasi certamente ci consegneranno la ‘cucina-casa’, ovvero la casa dove tutto si sovrapporrà con il luogo del cucinare; una cucina aperta al punto da contenere ogni funzione prevalente del mondo domestico; un focolare al cui intorno graviteranno tutte le cose. Non si tratta della logica del loft (ben noto per altri aspetti), quanto dell’accezione di ‘una parte per il
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tutto’, ovvero la rappresentazione dell’intero mondo domestico attraverso una sua sola parte: la cucina, appunto. Molto più movimento, ergonomia, tecnologia, velocità, facilità, internet, dispositivi intelligenti e connessi, soluzioni sostenibili, detteranno le linee di un nuovo spazio condensato, dove funzionalità ed estetica saranno riunite per parlare di casa in senso più largo partendo proprio dalla cucina (P. Lissoni, La cucina domestica nell’era della globalizzazione. Riflessioni su usi e tendenze globali in cucina e relativo ruolo nella casa del futuro, in AA.VV., “Global Kitchen”, ed. Cosentino S.A., Almeria (Spagna) 2015, pp. 48-50).
Un luogo che assecondi l’esperienza dell’utente, che parlerà di agricoltura, di orto, di ecosistema, di conservazione, di smaltimento, di tracciabilità dei prodotti, di rigenerazione, di assenza di spreco; una casa connessa da remoto che partendo dalla cucina governi tutto in modo più facile ed intelligente, una cucina-casa inclusiva e senza rischi di nessun genere. Come Dorothy Gale ci ricorda nel Mago di Oz: «nessun posto è bello come casa propria soprattutto se hai tutto ciò che ti serve in ogni momento ed in ogni circostanza del vivere». Come l’acqua di Camilleri, la cucina prenderà presto la forma di tutta la casa, all’interno della quale ogni cosa avrà il suo posto ma tutte interagiranno fra loro come in un vorticoso mulinello di adattabilità alle condizioni, ove la socializzazione mediamente ristretta ovvero allargata, sarà intesa in senso sempre più ampio.
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1 Triclinius maius: era intesa la grande sala da pranzo dove avevano luogo i banchetti conviviali nell’antica Roma. Poteva esser posta all’esterno o all’interno, o spostata in ragione del movimento del sole e delle stagioni. 2 Si tratta di vesti di colore chiarissimo molto larghe legate in vita da un legaccio in lino o cotone che indossavano i Romani per esser più sciolti durante la cena; spesso cambiate durante il pasto. Diversamente dagli abiti della servitù che invece erano di colori assai variopinti per consentire di individuarli facilmente. 3 Ampi ed alti credenzoni a più livelli su cui venivano allocate le pietanze che via via venivano poi riposte in più piccoli piani di appoggio a servizio di un numero più ristretto di individui. 4 Il garum era una salsa liquida d’interiora di pesce e mistura di pesci salati che i Romani aggiungevano come condimento a molti primi e secondi piatti. Lo scopo era quello d’insaporire, ma in realtà serviva ad impastare e
mascherare gli odori sgradevoli di pietanze andate a male. Marziale lo descrive come nauseabondo, ma gustosissimo: «Si usino pesci grassi come sardine e sgombri cui vanno aggiunti, in porzione di 1/3, interiora di pesci vari. Bisogna avere a disposizione una vasca ben impeciata, della capacità di una trentina di litri. Sul fondo della stessa vasca fare un altro strato di erbe aromatiche disseccate e dal sapore forte come aneto, coriandolo, finocchio, sedano, menta, pepe, zafferano, origano, sale» (V.M. Marziale, Xenia, libro XIII). Capace di esser conservato a lungo, il più prelibato era preparato in Spagna di cui i Romani facevano larghissimo uso. Oggi è ancora prodotto in Campania (colatura di alici di Cetara). 5 È infatti in questo tempo che compaiono le prime tavole imbandite, intorno alle quali si consuma il pasto, con tutte le sue ritualità. 6 Tipologie di cerimoniale nell’alto medioevo, in «Letture per giovani Scudieri» n. 15, La e-biblioteca degli Schildhöfe di Coi e Col, Zoldo Alto, 2015. Il Prof. Enzo Marigliano, storico medievalista, nel maggio 2014 ha presentato al Seminario dell’Associazione Nazionale Cerimonialisti Enti Pubblici, la dissertazione sopra citata. 7 Sperone Speroni (Padova 1500/1588) fu scrittore e filosofo interessato alla vita e ai costumi del suo tempo. 8 Aldo Rossi convinse Ludovico Quaroni a raccogliere in un unico testo diversi scritti tutti inerenti la città, “La Torre di Babele” del 1967, dove si riscontra la celebre definizione di Architetto. 9 Tratto dalla Enciclopedia Italiana - VI Appendice (Treccani 2000) alla voce ‘Design’ di Renato De Fusco, Carlo Martino. 10 Le metonimie e le sineddoche sono figure retoriche che risultano da un processo psichico e linguistico di una parte del tutto. Dire vela può voler significare dire barca. Affermare: “hanno rubato Monet”, non significa che qualcuno abbia sequestrato l’individuo, quanto un quadro a lui riferibile. 11 Dorothy Gale è un personaggio fantastico del romanzo scritto dall’inglese L. Frank Baum Il meraviglioso Mago di OZ nel 1900.
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Quando i Giganti cadono. Fenomenologia della Memoria FRANCESCO DEL SOLE
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Il Gigante è colui che riesce a vedere tradotta la propria visione del mondo in un modello architettonico, a plasmare il territorio con monumenti che testimoniano il potere di autorappresentarsi ed esibirsi in un’immagine. Quando si usa la parola monumento, di solito si ha in mente l’immagine di una “cosa degna di esser vista”, distinta dal resto dei manufatti artistici, poiché possiede alcune caratteristiche specifiche: è solitamente un oggetto di grandi dimensioni; appartiene allo spazio pubblico, occupandone un posto ben preciso; è realizzato in materiali durevoli; è destinato a commemorare un evento o un personaggio importante per la comunità in cui è inserito [R. Koselleck, I monumenti: materia per una memoria collettiva?, in “Discipline filosofiche”, 13, 2, pp. 9-33]. Sironi definisce il monumento “una voce sopra ad altre voci”. [M. Sironi, Monumentalità fascista, in La rivista illustrata del popolo d’Italia, pp. 84-93]. Questa definizione è utile per risalire al significato più profondo di questo termine, che deriva dal latino monere, rimandando al senso del ricordare, far presente, ammonire ed esortare1. È il fulcro di uno spazio che diviene luogo di memoria, posizionato in modo da essere una fonte diretta della storia, prodotta volontariamente dalla società secondo un processo di intenzionalità diretta della memoria [P. Nora, a cura di, Les Lieux de Mémoire, Gallimard, Parigi 1997]. Il monumento pubblico deve essere analizzato in relazione al suo ambiente, non solo nella sua componente scultorea, ma anche nello spazio costruito attorno ad esso, per mezzo del quale
assume un suo significato specifico. La scelta, da parte dei governi di impronta più o meno dittatoriale, di costellare i territori di monumenti pubblici (per la maggior parte di natura colossale) a propria immagine e somiglianza, si configura quindi in relazione alla capacità del monumento di dialogare con le tre sfere del Passato, del Presente e del Futuro. Il Passato / La scelta del fuori-scala Leggendo gli scritti di Albert Speer, uno degli artefici del programma estetico del Terzo Reich, si capisce quanto il dittatore dipinga se stesso come un “grande architetto” che si appresta a ridisegnare il mondo a propria immagine. [A. Speer, Memorie del Terzo Reich (1969), New York, The Macmillan Company 1970, tr. it. Mondadori, Milano 1971].
L’architettura, scrive Sudjic, “attrae i fanatici e li induce a costruire sempre di più, su di una scala sempre più vasta”. [D. Sudjic, Architettura e potere. Come i ricchi e i potenti hanno dato forma al mondo, Laterza, Bari 2011, p. 13]. In un regime dittatoriale dove, ai fini
della costruzione dell’identità nazionale, assume sempre maggiore rilevanza una convincente coreografia di Stato, anche l’architettura è fondamentale. Essa può essere considerata un vero e proprio linguaggio con cui si veicolano messaggi, una sorta di uniforme militare, strumento potente per segnalare fedeltà e aspirazioni, per tenere uniti i propri sostenitori e relegare in un angolo i propri nemici. Il monumento pubblico non si limita quindi ad essere un orpello; è considerato simbolo di un’intera epoca e costituisce una delle fibre più profonde del potere totalitario. Il connotato che lo caratterizza sotto il profilo architettonico è la filosofia del grandissimo2, fatta di imponenti progetti, da taluni definiti “architetture da megalomani” [Cfr. E. Pirazzoli, Disumana e quotidiana. La scala monumentale del nazismo, in G.P. Piretto, Memorie di pietra. I monumenti delle dittature, Cortina, Milano 2014, pp. 117-136].
A questo carattere colossale dell’architettura si va accompagnando anche una prospettiva di durata ugualmente smisurata. Questa ricerca di eternità si concretizza soprattutto nella scelta di materiali durevoli, quali la pietra, il marmo o il granito, in modo da poter sfidare i secoli e mostrare ai posteri la grandezza del re-
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gime, così come hanno fatto gli imperi dell’antichità, a cui lo sguardo è sempre rivolto soprattutto per quanto riguarda le imprese architettoniche3. Nella Germania nazista Hitler e i suoi architetti arrivarono a progettare gli edifici del Terzo Reich anche in funzione del loro futuro decadimento, seguendo la cosiddetta teo ria delle rovine proposta dallo stesso Speer. Secondo tale “teoria”, il monumento dittatoriale doveva esser costruito con materiali atti a garantirne un decadimento rovinoso. Anche secoli e millenni dopo la loro edificazione, i monumenti del Reich – sotto forma di rovina, non di maceria – avrebbero dovuto conservare intatto il senso di grandezza e di austerità della società che li aveva realizzati [J. Fest, Dialoghi con Albert Speer, Garzanti, Milano 2008; J. Petropoulos, Artists Under Hitler: Collaboration and Survival in Nazi Germany, Yale University Press, 2014]. Quando pose la prima
pietra (riferendosi alla costruzione della Kongresshalle), Hitler, facendo eco a Speer, affermò che «anche se la voce del nazionalsocialismo dovesse essere ridotta al silenzio, queste vestigia susciteranno ancora meraviglia» [D. Sudjic, op. cit., pp. 52-53]. Nel momento in cui il dittatore acquista sicurezza, la manifestazione più eclatante del suo ego diventa la costruzione di un colosso a propria immagine e somiglianza, per fare in modo che la figura del leader diventi l’unico collante che lega il passato glorioso al mitico presente. Si tenta in questo modo di convincere i cittadini che il proprio capo è un vero padre della patria capace, come la statua al centro di una grande piazza, di stringere a sé tutto il popolo guardando al futuro, dall’alto del suo piedistallo. La scelta di erigere un Colosso – il cui archetipo è la statua dedicata ad Helios a Rodi, tanto remoto da richiamare il famoso canone delle sette Meraviglie del mondo antico – è dunque una vera e propria evocazione del passato, uno dei modi “prodigiosi” di imporre al mondo il proprio desiderio di magnificenza; dall’altro lato è anche uno dei mezzi più efficaci per ricollegarsi alla storia figurativa di questo archetipo antico, che non è mai stato dimenticato nonostante la sua breve vita [M. Fagiolo, Le Meraviglie e il meraviglioso, in “Psicon. Rivista internazionale di architettura”, 7, anno III, Grafica style, Firenze 1976, pp. 3-9; F. Del Sole, Viaggio nella Meraviglia: descrivere, immaginare, ri-costruire, Congedo, Galatina 2019].
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Leggendo le fonti antiche che lo descrivono, il Colosso di
Rodi, anche se crollato, costituisce ugualmente una Meraviglia. Ed è proprio questo il fine che il dittatore persegue nella creazione del proprio mito: restare impresso nella memoria nonostante la propria caduta4. Il Presente / La monumentalizzazione del territorio Nel tempo, in molti Stati sono sorte vere e proprie istituzioni che hanno il compito di pianificare la monumentalizzazione del territorio, quel processo in cui si individuano una serie di luoghi di memoria degni di trasmettere un ricordo, legato per lo più a personaggi o eventi che hanno segnato la comunità e tramite i quali la gente può rispecchiarsi in un ideale, che riguarda la convinzione di vivere in una società in cammino verso un futuro di felicità e prosperità, fondata sulla coesione, l’indipendenza di aiuti e contributi esterni, sul legame ancestrale con il territorio nazionale. Si pensi, a tal proposito, all’Istituto dei Monumenti di Cultura fondato nel 1965 in Albania o all’Università di Belle Arti fondata negli anni Quaranta in Corea del Nord [Cfr. A. David West, North Korean aesthetic theory: Aesthetics, beauty and man, in “Journal of Aesthetic Education”, 47, 1, 2013, pp. 104-110].
Da questa istituzione deriva Mansudae Art Studio, il centro artistico di Pyongyang, il più importante della Corea del Nord. La base fondante della nazione nordcoreana è la celebrazione dell’Idea Juche. Questa particolare concezione filosofico-politica prevede che l’uomo debba essere completamente autosufficiente e artefice del proprio destino. Il complesso monumentale realizzato per esprimere al meglio tale ideologia politica è la Torre dell’Idea Juche, che costituisce il centro fisico dell’intero impianto urbanistico di Pyongyang e il centro gravitazionale attorno al quale ruota la nazione intera. Attualmente è la più alta torre in pietra del mondo, con in cima una fiaccola che ha il compito di trasmettere il messaggio della Juche al resto del pianeta. Fin dagli anni Settanta, il Mansudae Art Studio ha lavorato alla costruzione di grandi opere commissionate da paesi esteri, compresi i Colossi, soprattutto nei paesi africani. A livello culturale il Mansudae ha offerto ai nascenti governi nazionali un linguaggio visivo che ha fatto presa sui leader locali. Può sembrare strano che un
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governo africano racconti la propria storia di libertà prendendo in prestito il linguaggio visivo nordcoreano. Le radici di questo fenomeno vanno ricercate nella loro comune storia di lotta antimperiale, che ha reso possibile la nascita di uno stato autonomo. Si possono individuare decine di monumenti e grandi complessi architettonici realizzati dal Mansudae Art Studio in Angola, Senegal, Namibia, Guinea e nella Repubblica Democratica del Congo. Tale fenomeno di monumentalizzazione del territorio non accenna a placarsi, tant’è che solo nel 2010 è stato completato il Monumento al Rinascimento Africano, nei pressi di Dakar. Il Colosso più importante del Mansudae Art Studio rimane il cosiddetto Grande Monumento di Pyongyang: due simulacri bronzei, di venti metri d’altezza, disposti uno affianco all’altro; l’uno tende il braccio verso il futuro, l’altro lo accompagna con lo sguardo. Non meno importante appare lo spazio scelto e modellato per accogliere il monumento. Per giungervi, è necessario scalare un piccolo colle, un percorso ascensionale che si apre su una piazza. Vige un preciso codice etico-comportamentale da seguire nel corso della visita. Non è possibile dare le spalle ai due Colossi e ogni visitatore deve depositare fiori ai piedi delle statue in segno di rispetto; la piazza stessa è concepita per permettere a coloro che intendono scattare delle fotografie di retrocedere di qualche passo facendo in modo che l’inquadratura colga entrambi i colossi a figura intera, ponendo attenzione nel non tagliare loro testa o piedi. Il processo di monumentalizzazione del territorio, come testimoniato da quest’ultimo esempio, fa sì che il luogo della memoria divenga un vero e proprio luogo sacro. Il Futuro
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Il complesso monumentale, seppur ancorato a un ricordo del passato, è proiettato anche verso il futuro. È questo il paradosso degli hypomnemata, quei luoghi (od oggetti) nati come dispositivi per conservare la memoria al di fuori dell’uomo. Essi costituiscono una memoria materiale delle cose, offrendole così come un tesoro accumulato per la rilettura e la successiva meditazione [J.E. Young, Memory, counter-memory, and the end of the monument, in “Harvard Design Magazine”, 9, 1999, pp. 1-10].
1. L’abbattimento Se, da un lato, il monumento è il mezzo più appropriato per fissare un ideale e far sì che la nazione si riconosca in esso, dal l’altro è proprio nel momento in cui si sceglie di affidare un ricordo a un supporto esterno che la società stessa può permettersi di dimenticarlo. È il processo di damnatio memoriae, noto fin dal l’Antichità, che viene adoperato per fare in modo che venga cancellato ogni ricordo dei personaggi colpiti da una tale sorte. Ad ogni rovesciamento di un governo dittatoriale, il primo gesto che i ribelli compiono è quello di abbattere le statue, oltre che distruggere i monumenti, emblemi e insegne del regime appena sconfitto. Questo fenomeno è stato definito da alcuni storici “vandalismo rivoluzionario”. La violenza con la quale questi gesti vengono compiuti fa capire il forte potere simbolico dei monumenti dittatoriali, in grado di far esplodere la rabbia popolare dopo la caduta del leader. Sia nel momento della loro costruzione che nel momento della loro distruzione, i monumenti sono vocaboli essenziali del linguaggio culturale di una comunità, quello che stabilisce e comunica al mondo i princìpi che sono alla base della propria identità conquistata con fatica, pagando un alto prezzo a suon di guerre e ribellioni. Non è dunque difficile comprendere ad esempio la ragione che spinse il popolo di Budapest nel 1956, nel corso della rivolta ungherese, a rischiare la vita per demolire la gigantesca effige di Stalin eretta nel centro della città. L’abbattimento era una risposta al potere idolatrico del dittatore. Le pagine di cronaca, nel corso degli anni, sono ricche di casi analoghi e trasmettono ogni volta lo stesso messaggio: una comunità finalmente libera dal regime ha la necessità primaria di liberare il proprio territorio dai simboli di una dittatura. Nella maggior parte dei casi, nell’abbattere le statue, il popolo si accanisce sul colosso, con un gesto tanto liberatorio quanto irrazionale, replicando il trattamento riservato nelle guerre ai prigionieri nemici. Caso esemplare è la distruzione, nel 1961, del monumento dedicato a Stalin in una strada di Berlino [L. Faber-Jonker, Stalin’s ear: on the material (after) lives of a statue, in T. Hyunhak Yoon, op. cit., pp. 97-115].
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Come molto spesso accade in queste circostanze, il governo decide di eliminare la statua nottetempo, senza preavviso, quasi a fare in modo che i cittadini, il giorno dopo, possano avere l’impressione di vivere in uno spazio diverso, non più costellato dalle ombre del passato. In questo caso, l’ordine fu preciso: non occorreva solo abbattere la statua, essa andava distrutta in ogni sua parte. Gli operai si misero al lavoro ma uno di essi pensò bene di reciderne un orecchio e portarlo via prima di completare la distruzione del monumento, proprio come era usanza fare in battaglia con i nemici, ai quali venivano recisi il naso o le orecchie per conservare un macabro trofeo di guerra. In quell’operaio tedesco potrebbe esser scattata la stessa voglia di rivalsa e l’asportazione dell’orecchio doveva far sì che quel dittatore, che aveva la fama di essere un gigante che “tutto vedeva” e “tutto sentiva”, potesse finalmente scomparire. 2. Anti-monumentalità Quando non si impone il processo di damnatio memoriae, il valore di un monumento come documento può essere rovesciato. Si può fare in modo che esso stesso divenga un anti-monumento; il luogo della memoria finisce in questo caso per conseguire un risultato diametralmente opposto al fine per il quale era stato concepito, promuovendo una memoria negativa di ciò che è stato [A. Pinotti, Antitotalitarismo e antimonumentalità. Un’elettiva affinità, in G.P. Piretto, op. cit., pp. 17-33]. È proprio questo il concetto di
anti-monumentalità, un ribaltamento degli stessi elementi che caratterizzano il monumento dittatoriale (linguaggio, spiccata verticalità, eternità del messaggio) e che fanno venir fuori, con la stessa potenza espressiva del complesso monumentale originario, i contrassegni di tutti coloro che a tali regimi sono stati costretti. 2.1. Enver-Never
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Allo stesso modo della rappresentazione figurativa, anche le parole scolpite hanno assunto un significato profondo nell’etica dei regimi dittatoriali. Si pensi ai circa novecento “Presente” scolpiti nel granito del Sacrario di Redipuglia, a simboleggiare la voce convinta di tutti quei soldati eroicamente morti per la patria
[Vedi M. Giuffrè, F. Mangone, S. Pace, O. Selvafolta, a cura di, L’architettura della memoria in Italia. Cimiteri, monumenti e città 1750-1939, Skira, Milano 2007]. Ci sono voluti dieci giorni a Sheme Filja per comporre il nome “Enver” sul monte Shpirag in Albania nel 1968, in omaggio ad Enver Hoxha, con lettere alte cento metri che dominavano il paesaggio [Cfr. G. Jandot, L’Albanie d’Enver Hoxha (1944-1985), L’Harmattan, Parigi 1994]. Poco tempo dopo, Armando Lulaj, giovane artista, ha scambiato le prime due lettere del vocabolo, tramutando la parola “Enver” in “Never”, “Mai più”. Il semplice scambio delle prime due lettere ha radicalmente mutato il senso e l’impatto del luogo, costruendo un vero e proprio anti-monumento. Sostituire un nome proprio con un avverbio non equivale a nasconderlo, ma ad evocarlo, facendo al tempo stesso riflettere su quel “Mai più”, che appare come un rifiuto, un monito, una negazione del passato tirannico [F. Lubonja, Between the glory of a virtual world and the misery of a real world, in S. Schwandner-Sievers, B.J. Fischer, a cura di, Albanian identities. Mith and History, Indiana University press, Indianapolis 2002, pp. 91-103].
2.2. Progetti per il Memorial a Ground Zero, New York Il Gigante che cadde l’11 settembre 2001 sotto l’attacco dei terroristi islamici, non fu un dittatore, ma l’intera nazione degli Stati Uniti d’America [S. Stephens, Immaginare Ground Zero. Progetti e proposte per l’area del World Trade Center, Rizzoli, Milano 2004].
L’offensiva ebbe come obiettivo il cuore pulsante degli USA, il World Trade Center. Le torri gemelle erano per l’intero popolo americano il simbolo di un’era, quella che aveva coniato il termine grattacielo, dando vita fin dalla metà dell’Ottocento a quella “guerra per la supremazia in altezza” che dura ancora oggi. Le cosiddette “torri del progresso” avevano dunque un significato profondamente simbolico, rappresentando il miracolo economico e tecnologico, la “grande icona architettonica del capitalismo in sviluppo” [P. Melis, Architettura e revival del cristallo nella città contemporanea da Joseph Paxton a Kevin Roche, in “Psicon”, n. 6, Firenze 1976, p. 89]. Subito dopo la caduta delle torri, moltissimi
sono stati i progetti di ricostruzione del sito, fra i quali son stati
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scelti quelli vincitori per la realizzazione dei due elementi fondanti dell’area di Ground Zero: la Torre e il Memorial. Se da un lato l’idea di innalzarsi nuovamente verso il cielo con la nuova Freedom Tower mette in luce tutta la forza di un’America che intende risollevarsi da una tragedia, dall’altro emerge la volontà di ricordare l’accaduto, dando un nome alle vittime e proponendo un monumento che sia un ammonimento per il mondo intero. Il concorso per il Memorial ha visto la partecipazione di numerosi progettisti, molti dei quali hanno proposto un vero e proprio anti-monumento, un progetto architettonico che mettesse in evidenza la catastrofe avvenuta, ribaltando il valore architettonico fondante del World Trade Center: la verticalità. Fra questi, affascinante è quello dell’olandese Van der Erve, che propone due pozzi gemelli nello stesso posto occupato dalle torri abbattute, profondi 110 piani, immagini speculari rispetto alla costruzione precedente [S. Stephens, op. cit., p. 208]; va ricordato anche il progetto di Nicholson, con il sito delle torri originali occupato da labirinti e un pozzo profondo 150 metri [S. Stephens, op. cit., p. 171]; ancor più simbolica è la scelta di Mockbee di collocare una cappella commemorativa a 911 piedi sottoterra, cifra che ricorda la data degli attacchi [S. Stephens, op. cit., p. 167]; la rappresentazione dell’America, dopo quel tragico spartiacque, è riassunta nella proposta di Solomon, in cui sono progettate due torri d’acciaio e vetro che si levano più in alto di quelle originarie, intimamente collegate a due memorial, sotto le fondamenta, che raggiungono la profondità di 110 piani, stessa altezza delle torri crollate [S. Stephens, op. cit., p. 166]. L’esempio di Ground Zero fa capire quanto l’anti-monumentalità sia una scelta che va molto al di là della sfera dittatoriale e interessa ogni comunità che intende imprimere un ricordo nello spazio pubblico, che sia slancio verso il futuro. È proprio questo il messaggio che si può cogliere nella verticalità orizzontale del memorial di Fred Bernstein, in cui le torri, invece che proiettarsi verso il cielo, si slanciano nell’oceano, sotto forma di due moli delle loro stesse dimensioni. Il molo, simbolo di una partenza e di un nuovo viaggio da compiere, avrebbe recato incisi i nomi delle vittime dell’11 settembre [S. Stephens, op. cit., p. 206].
3. La decontestualizzazione La vita di un monumento cambia quando cade l’ideologia fondante che lo ha generato. Da un momento all’altro un segno potente può perdere il suo significato: “Senza valore reale alcuno, il significante finirà, semmai, nei depositi dei relitti strani pervenuti da un sistema defunto” [M. Jakob, Grutas, in “Doppiozero”, 8 dicembre 2019]. Per evitare di distruggere ogni traccia del regime sconfitto, un altro mezzo efficace per far perdere valore al monumento è proprio quello di decontestualizzarlo, rompendo il suo legame col territorio. È questo il momento in cui l’architettura diviene, da mezzo politico, un mezzo per criticare le mancanze politiche. 3.1. Il parco di Grūtas in Lituania e il Memento Park di Budapest Occupata dall’Unione Sovietica, la Lituania fu il terreno perfetto per mettere in atto una fitta monumentalizzazione. Il territorio venne cosparso di colossi di Lenin e Stalin, a simboleggiare l’occupazione materiale e simbolica del territorio. L’indipendenza raggiunta l’11 marzo 1990 non portò soltanto allo smantellamento del repertorio monumentale, ma sollevò il problema della risistemazione degli oggetti imponenti del passato. Il corpus, composto da più di ottanta monumenti, non fu distrutto, ma finì a Grūtas, esposto ai visitatori all’interno di un ampio parco tematico. Esso contiene, oltre alle sculture disseminate in una specie di foresta della memoria, un ristorante, un’area giochi, un piccolo museo, un mini zoo e alcuni elementi metonimici del sistema Gulag, divenendo l’opposto di una santuarizzazione del regime sovietico. Un destino simile è toccato ai monumenti sovietici ungheresi. Dopo la caduta del regime comunista nel 1989, nel 1991 si decise di collocare tutte le statue rimosse in un museo all’aperto nella capitale, il Memento Park. Si tratta di uno spazio monumentale che parla della tirannia e al tempo stesso, proprio in quanto sito in cui è ammesso parlare di tirannia, è un monumento alla democrazia. In esso sono presenti 42 statue raffiguranti vari leader comunisti. Di fronte all’ingresso è presente una replica degli Stivali di Stalin creata nel 2006 dallo stesso Ákos Eleőd, in occasione dei cinquant’anni della rivoluzione ungherese del 1956, durante la quale la colossale statua del dittatore situata nel parco municipale venne buttata giù dal suo piedistallo e rimasero
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solo gli stivali. È difficile non pensare alla ben più antica immagine di un colosso crollato dal suo piedistallo: il Colosso di Rodi che Antonio Tempesta raffigura abbattuto con il solo piede rimasto su un alto basamento. Come scrive Jakob, “le contraddizioni che hanno portato alla creazione di questo parco a tema sono le stesse della storia che le ha prodotte. E il fatto che un’atmosfera sovietica opprima il visitatore, anche se ha appena mostrato la lingua a Lenin o riso davanti a Stalin, esprime lo spirito storico di un’epoca in cui il terrore totalitario la faceva da padrone” [M. Jakob, op. cit.]. Le monumentali statue della propaganda comunista che un tempo intimidivano gli osservatori con le loro dimensioni sono oggi solo una testimonianza di una gloria passata. L’idea ambiziosa di salvare i cimeli del vecchio regime dal processo di damnatio memoriae è stata molto efficace: è nel loro apparire qui, sradicati e solitari, che i giganti del passato subiscono la disfatta più cocente, proprio tramite quei monumenti che avrebbero dovuto trasmettere ai posteri l’eternità del loro regime.
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1 Si vedano, a questo proposito, le teorie di Alois Riegl che, a cavallo fra Otto e Novecento, fu incaricato dall’Imperial Governo Regio di riorganizzare il settore della tutela delle opere d’arte, producendo il celebre testo intitolato Il culto moderno dei monumenti, la sua essenza e il suo sviluppo (1903). In questo saggio, Riegl introduce una distinzione tra monumenti “voluti” e monumenti “non voluti”. 2 «All’inizio del 1939, a una riunione di operai edili, Hitler volle motivare il carattere colossale del suo stile architettonico dicendo: “Perché sempre il grandissimo? Perché voglio restituire ad ogni tedesco la coscienza di sé. Perché voglio ripetere a ciascuno in cento occasioni diverse: ‘Noi non siamo assolutamente inferiori ad alcun popolo: siamo invece del tutto pari a qualunque altro popolo’”» (A. Speer, op. cit., p. 84). 3 Il Fuhrer, in un discorso del 1937, così si espresse sull’argomento: “Questi edifici non devono essere pensati per l’anno 1940, e neppure per l’anno 2000, ma ergersi come le cattedrali del nostro passato per i millenni futuri” (cit. in E. Pirazzoli, op. cit., p. 121). 4 Non meno interessante appare la ricerca del Colosso personale di Mussolini, il famoso Colosso Littorio. Una nota di una vecchia pagina di giornale, a proposito di quest’opera, utilizzava come sottotitolo la frase “l’unghia del suo alluce era grande come un cortile” (G. Quintini, Nella bottega del colosso, in “Il Tempo”, a. XLV, n. 202, 10 agosto 1988, p. 14). Il riferimento alle parole di Plinio, anche in questo caso, è palese. Riferendosi al colosso di Rodi, lo storico in un passo affermava: “Pochi possono abbracciare il suo pollice, e le dita sono più grandi che molte altre statue tutte intere” (Naturalis Historia, XXXIV, 18).
Libri, riviste e mostre
C. D’Amato, La Scuola italiana di architettura. 1919-2012. Saggio sui modelli didattici e le loro trasformazioni nell’insegnamento dell’architettura, Gangemi International Editore, Roma 2019. Non può non assumere il valore di un testamento, il libro che Claudio D’Amato ha voluto pubblicare nell’ultimo anno della sua vita. Formalmente quella accademica aveva dovuto lasciarla, con rimpianto, già nel 2015, compiuti i settant’anni. Ma non aveva lasciato l’ex Facoltà di Architettura del Politecnico di Bari – di cui nel volume ricorda di essere stato l’ultimo dei Presidi – che continuava a frequentare come Professore Emerito, dopo averla fondata negli anni Novanta e guidata, come un padre-padrone affettuoso e dispotico, per oltre vent’anni. Temuto e amato, detestato e rispettato, D’Amato è stato certamente un protagonista della scena istituzionale dell’architettura italiana, che ha sempre voluto caparbiamente pensare con questa aggettivazione, italiana appunto. Tanto è vero che alla Scuola italiana ha voluto intitolare il volume, mettendo in secondo
piano la sua articolazione in Sedi, anche se soprattutto per pronunciare un verdetto amaro sulla sua sorte. Di questa Scuola infatti il volume racconta la storia in modo quasi impudicamente lineare, senza alcuna concessione a narrazioni più complesse, con un inizio glorioso e un inglorioso finale. Da quel 1919 in cui Giovannoni fonda la Scuola di Architettura di Roma e ne definisce l’Ordinamento a quel 2012 che segna per D’Amato la fine di un processo, da lui interpretato come progressivamente dissolutorio. La struttura del libro dice molto sul consapevole schematismo della sua visione istituzionale. A cominciare dalla dedica “agli Eccellenti Architetti che hanno insegnato nelle Regie Scuole”. Ma su questo torneremo più avanti. Prima i fatti, come chiederebbe l’Autore. Il volume, 295 pagine dense, corpo minuto, interlinea minima, è organizzato in due parti precedute da un’introduzione. Nella prima parte, dal titolo emblematico: 1919-2012: origine e fine di una originale tradizione di insegnamento, l’A. periodizza la sto-
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ria delle Facoltà di Architettura italiane raccontando il passaggio da quello che chiama “modello organico” (1919-1967) a quello che definisce “modello didattico-seriale” (1969-2012). Nel primo, di impronta giovannoniana, le materie di insegnamento (provenienti da un lato dall’ingegneria e dall’altro dall’Accademia di Belle Arti), organizzate in cicli didattici, erano considerate tutte necessarie alla formazione dell’architetto integrale ma sotto messe tutte all’esercizio del pro getto (composizione architettoni ca); nel secondo, che l’A. chiama anche “aziendale”, la separazione tra i settori disciplinari (todos caballeros) si accompagna prima alla sessantottina liberalizzazione dei piani di studio e poi alla proliferazione delle sedi universitarie che, dalle originarie 7 fondate prima della seconda guerra (nell’ordine Roma, Venezia, Firenze, Napoli, Torino, Milano, Palermo), nell’immediato post-sessantotto diventano 10 (si aggiungono Genova, Pescara e Reggio Calabria) e negli anni Novanta proliferano (quando lasciano il posto ai Dipartimenti, con la riforma Gelmini del 2010, le Facoltà di Architettura erano 25). Il tutto è accompagnato e spesso determinato dalle riforme della tabella XXX che ha ordinato gli Studi universitari di Architettura, modificata in tre occasioni: nel 1969 sotto la spinta dei movimenti studenteschi, nel 1982 nell’ambito della più generale riforma universitaria e nel 1993 sulla scorta della Direttiva Europea sulla formazione degli Architetti. Segue un affondo sulle 10 sedi storiche (ricco di notizie e di dati) che mette in luce affinità e differenze tra le diverse Scuole, portando in primo piano le figure dei Presidi,
secondo l’A. molto rilevanti nello spirito giovannoniano. È qui che D’Amato porta alle estreme conseguenze la sua interpretazione intenzionalmente manichea della storia delle Facoltà di architettura italiane, sottolineando la sua intenzione di dedicare il libro “agli Eccellenti professori di Composizione” (con un esplicito richiamo, per niente ironico, al Vasari delle Vite), il cui elenco viene da lui prodotto scuola per scuola, e ai quali viene assegnato, e riconosciuto a un tempo, il ruolo di “continuatori/conservatori” del modello organico. Nonostante tutti i tremendi guasti che il tempo ha prodotto, secondo l’A., la dialettica che Giovannoni aveva istituito co me Presidente dell’Accademia di San Luca con le Scuole individuò nel tempo quegli Eccellenti archi tetti che con il loro operare e con il loro insegnamento continuarono a dare prestigio alle Scuole e alle Facoltà, nonostante le loro rivali tà, divisioni, differenze. In questa operazione di “riconoscimento”, D’Amato non si limita a indicare i “buoni” ma elenca anche tutti quei “compositivi” a cui non intende dedicare il volume: in pratica (quasi) tutti quelli che oggi costituiscono il corpo docente dei corsi di architettura italiani. La seconda parte del volume, 1990-2012: il modello didattico della Facoltà di Bari è una sorta di biografia/annuario della scuola barese, il cui inizio e la cui fine sono segnate dalla presidenza di D’Amato (D’Amato I e D’Amato IV, solo due altri Presidi nel frattempo). Appena una decina delle quasi 100 pagine del capitolo contengono il racconto della storia della Facoltà; il resto sono repertori accuratissimi, elenchi di “cose fatte” e di “persone che le hanno fatte”, (un’attività a cui l’A si
era già dedicato in precedenti pubblicazioni, con ossessiva esaustività). Che si dia a Cesare quel che è di Cesare. Le due parti benché formalmente chiuse da un comune “epilogo” (che ossimoricamente porta come sottotitolo: “un nuovo inizio”) potrebbero essere lette indipendentemente l’una dall’altra. Se non fosse evidente che il modello didattico della Facoltà di Bari ha la funzione di “modello”, appunto, e sembra voler sottolineare non solo cosa è stato fatto a Bari, ma cosa si sarebbe potuto fare anche altrove. Tra l’una e l’altra delle due parti, la pubblicazione integrale delle “discussioni didattiche” giovannoniane (che testimoniano i contenuti delle giornate di dibattito che portarono alla fondazione della Regia Scuola di Architettura di Roma), serve a chiarire che cosa è per D’Amato quella “originale tradizione di insegnamento” che gli consente di parlare di una Scuola italiana e di cui lamenta il progressivo abbandono; e che ha cercato di “continuare” con l’esperienza barese, nonostante tutte le bordate burocratiche che ne hanno compromesso la compiutezza. Un po’ come in una tesi di dottorato, alla sintetica introduzione che precede le due parti è dato il compito di anticipare l’intenzione del volume: il cupio dissolvi che innerva il racconto serve all’A. per dare visibilità a uno scarto improvviso, per segnalare la volontà indomita che lo porta a formulare in conclusione un’ipotesi che secondo lui potrebbe essere salvifica. Un possibile “ritorno alle origini” che sarebbe al tempo stesso un formidabile ricominciamento e una potenziale giusta vendetta: poiché lo Stato ha progressivamente destituito di senso l’ipotesi giovannoniana dell’“archi
tetto integrale”, bisogna sottrarre la Scuola italiana di Architettura al suo dominio. E, allora, via il valore legale del titolo di studio, e via libera all’“ar chitetto integrale 2.0”, un Artdesigner (così lo definisce la Rhode Island School che ha inventato il termine STEAM poi ampiamente adottato in USA, sostiene D’Amato), capace di entrare nell’acronimo STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics) collocando la flessibile Architettura in una posizione intermedia tra le materie “dure”: il che conduce a trasformare i modelli educativi, gli orientamen ti di ricerca e perfino a guidare l’in novazione. E, soprattutto, via libera a sog getti pubblici e privati … che po trebbero associarsi per promuove re questo esperimento innovativo, fuori dalle maglie burocratiche dell’Università statale. Una doppia apertura all’innovazione, inattesa per coloro che sanno che la “galleria dei maestri” che D’Amato riconosceva si fermava a Gropius (escluso) e che lo hanno considerato uno tra i massimi esponenti di una logica accademica d’an tan, quella in cui il Ministero romano reggeva centralisticamente e liberamente le sorti delle Università italiane. Après moi le déluge, potrebbero pensare i più maliziosi, ma bisogna riconoscere che D’Amato, in modo singolarmente sintetico, dopo una faticosa serie di mosse, sulla scacchiera che incrocia sedi e protagonisti della ormai secolare struttura accademica dell’architettura italiana, mette sotto scacco il re, da un lato usando le recenti “aperture” offerte dalla revisione della Direttiva CEE sulla professione degli architetti, dall’altro stigmatizzando le mosse difensive del Consiglio
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Nazionale degli Architetti e del CUN. Il re è il mondo accademico attuale a cui guarda con diffidenza, e con un disprezzo neanche tanto celato: dalla sua ha una crisi evidente della formazione in architettura, testimoniata non solo dal calo delle iscrizioni degli studenti ma anche e forse soprattutto dalla difficoltà della generazione di docenti che insegnano composizione architettonica e “che hanno fatto il dottorato di ricerca”, a identificare il proprio profilo accademico: non più “professionisti” e non più “maestri”, d’accordo; ma allora cosa? E non a caso sono proprio gli attuali professori ordinari di Composizione architettonica che D’Amato accusa di molte nefandezze (dal non aver fatto la licenza superiore por tando tutte le materie, al non aver studiato la storia dell’architettura, all’essere intellettuali capaci di scrivere saggi ma con pochi edifici alle spalle, all’aver voluto troncare i legami con le generazioni prece denti, all’essere una vera e propria corporazione che difende con le unghie e con i denti il proprio ter ritorio accademico). Niente di nuovo sotto il sole, visto il difficile rapporto tra “generazioni” tipico del mondo universitario: molte delle accuse sono probabilmente ingenerose, e il taglio generazionale non è neanche così preciso, soprattutto quando l’A., nel fare i nomi di quelli che definisce sede per sede “gli eccellentissimi architetti” è costretto a fare alcuni slalom (solo in parte giustificati dalla volontà di sovrapporre questa “eccellenza” a quella degli Accademici di San Luca). Per me, che l’ho fatto spesso nel corso delle nostre frequentazioni, non ha senso, oggi che non può rispondere, polemizzare con lui: della
sua cupa analisi (apparentemente priva di qualsiasi forma di autocritica generazionale) e delle soluzioni prospettate non condivido quasi nulla, benché sia consapevole che le questioni messe sul tappeto vedono oggi “i compositivi” in difficoltà nel tentativo di trovare soluzioni a una ramificata condizione di crisi, e spesso addirittura incapaci di individuarne le articolazioni. Preferisco guardare a questo provocatorio testamento di D’Amato come a un dialogo interiore tra la parte construens e quella destruens della sua azione istituzionale. La damnatio memoriae che anima il suo racconto fornisce l’escamotage per uscire dal circolo vizioso delle responsabilità e delle colpe; per evitare lo scoglio psicoanalitico del rap porto maestri/allievi e viceversa; per soprassedere sulla pretesa dell’A. di aver tenuto i fatti separati dalle interpretazioni; per guardare con indulgenza l’ombra del “convitato di pietra” che aleggia deformando continuamente in senso autobiografico il plot narrativo; soprattutto quando il Commendatore (nel nostro caso Accademico di San Luca) sembra esprimersi in rappresentanza di altri abitanti di un empireo dell’Architettura, fatto di numi tutelari e di Eccellenti in carne e ossa che, distanti e al sicuro, guardano agitarsi un mondo accademico sempre più afflitto dalla “perdita del centro”. Una forma di pietas che è dovuta, perché tutto si può dire dell’A. del volume tranne che praticasse forme di irresponsabilità, che fosse disponibile a mettersi da parte e a guardare con indifferenza la scomparsa del mondo che più ha avuto a cuore fino alla fine. Proprio per questo D’Amato era certamente consapevole che il suo messaggio non poteva che essere ri-
volto proprio alla generazione che aveva messo sotto accusa. La generazione dei Dottori di Ricerca, che peraltro lui stesso ringrazia esplicitamente, perché è anche attraverso il lavoro dei dottorandi che la utile parte documentaria del suo volume è stata messa a punto. Una generazione che non è poi così estranea alla pratica del progetto: solo che sta cercando di individuare spazi diversi da quelli immediatamente professionali per testarne il valore di ricerca e la trasmissibilità didattica. Che in genere non è disponibile a considerare l’appartenenza disciplinare come un recinto chiuso e non ha paura di perdere centralità, visto che è consapevole del disorientamento ma anche delle opportunità della “rete”. Che quasi sempre conosce la storia, anche se è orientata a sentirne l’invadenza oltre che l’“amicizia”. Che conosce la dimensione improduttiva di una “maestria” autoritaria e non autorevole, e cerca di rivisitarne le forme nella entropica condizione contemporanea. A questa generazione è affidato il compito di immaginare risposte ad alcune ineludibili domande poste dal volume: e provare, per esempio, a testimoniare che non solo fuori ma anche e soprattutto dentro l’Università pubblica il “pensiero progettuale” può continuare a farsi concreto nella didattica e nella ricerca. E non solo operando sintesi a priori e a posteriori, ma anche esercitando la sua più originale capacità: quella di fondarsi coraggiosamente su ipotesi incerte, per proporre trasformazioni della realtà capaci di intercettare le domande più urgenti del mondo contemporaneo. E di provare con fiducia a mostrarne in modo convincente l’utilità. R. A.
L. Prestinenza Puglisi, La storia dell’architettura 1905-2018, Luca Sossella editore, Milano 2019. A distanza di pochi anni dall’uscita de La storia dell’architettura 1905-2008, disponibile esclusivamente in versione online dal 2013, Luigi Prestinenza Puglisi ricorre ad uno strumento “tradizionale” per veicolare il suo racconto storiografico sull’architettura contemporanea. Il risultato è un testo voluminoso, con un aggiornamento riguardante il decennio successivo al terminus ad quem del libro precedente. Come il testo del 2013, esso scaturisce dalla fusione di una trilogia pubblicata per i tipi di Testo & Immagine negli anni 1999 (This is tomorrow. Avanguardie e architettura contemporanea – dal 1956 al ’76), 2001 (Silenziose avanguardie. Una storia dell’architettura. 1976-2001) e 2003 (Forme e ombre. Introduzione all’architettura contemporanea 1905-1933), con testi tratti da un saggio del 2008 (New Directions in Contemporary Architecture: Evolutions and Revolutions in Building Design Since 1988 – fino al 2008). Chiarito il quadro bibliografico che conforma il libro, veniamo alle sue caratteristiche per così dire “formali”, per poi entrare nel merito delle questioni storiografiche. Innanzitutto, è opportuno precisare che il volume in esame è il prodotto di un’attività pubblicistica e di studi che hanno avuto nel tempo un duplice canale di diffusione: quello “tradizionale”, come abbiamo visto a stampa, e quello dei cosiddetti social media, che, come ha spesso dichiarato l’autore, garantiscono una libertà di accesso alle informazioni, richiedendo un tipo di comunicazione diretta e sintetica – peraltro, Prestinenza Puglisi ha pubblicato un Breve corso di scrittura critica (Lettera-
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Ventidue 2011), in cui spiega alcune regole e accorgimenti, validi anche per gli accademici più ortodossi, utili per evitare scritti ridondanti e inutilmente prolissi. Tale approccio, filtrato dunque da una cultura digitale di cui Prestinenza Puglisi è stato tra i primi promotori nel campo della critica architettonica, permane in questo testo che gode di una simile agilità di consultazione, favorendo anche letture disordinate, cui si aggiunge una volontà di giudizio che rende manifesta la posizione dell’autore rispetto alle questioni trattate. In linea con gli intenti che hanno da sempre animato l’attività critica dell’autore, il testo assume tra i suoi scopi precipui quello di risultare accessibile ad un pubblico vasto, sia in termini pratici che teorici. Da un lato, il prezzo risulta basso rispetto alla mole del libro (20 euro per 767 pagine), anche se a rimetterci sono la qualità dell’impaginato e la resa grafica delle immagini, tutte in b/n, nonostante un certo grado di ricercatezza ed il formato spesso piacevolmente adeguato ai tipi di illustrazione. Dall’altro, ed è il punto più problematico, tale “spirito divulgativo”, dichiaratamente espresso, pone alcuni quesiti che potrebbero indurre a riconsiderare il nobile intento dell’economicità, o meglio, a rimodulare il rapporto qualità-prezzo. Di certo, e non è un aspetto secondario, la proprietà di sintesi e la ricerca di informazioni essenziali, espresse con un linguaggio semplice, costituiscono uno dei punti di forza del volume. Tuttavia, la scelta di sacrificare introduzione, note e riferimenti bibliografici, complica l’orientamento sia dei più avveduti, costretti a risalire autonomamente a quanto l’autore avrebbe potuto espli citare in apertura, sia dei meno esperti, mancando il corredo neces-
sario alle loro esigenze. In ciò questo volume segna uno scarto rispetto a quelli della trilogia suddetta, i quali sono completati da appendici antologiche, tavole cronologiche e bibliografie ragionate, tutti elementi ancor più necessari per un testo di tale estensione. A supportare la lettura concorrono soltanto una serie di link, presenti alla fine di ogni paragrafo, che rimandano a contenuti audio-visivi finalizzati ad estendere il portato informativo del manuale verso le potenzialità della rete. Un’operazione che, lungi dal sopperire alle mancanze appena evidenziate, può riservare aspetti positivi. Evidentemente, la distanza da un’impostazione tradizionale, almeno nelle sue connotazioni “formali”, è una presa di posizione dell’autore, di cui ci limitiamo a mettere in luce alcune criticità, convinti che un approccio più sistematico possa ancora giovare alla formazione dei futuri architetti. È dal punto di vista storiografico che emergono le questioni più interessanti. Guardando alla struttura del testo sorgono alcune riflessioni preliminari, confermate poi dallo studio delle singole parti. Innanzitutto, l’indice è suddiviso in quattro parti – cui si aggiunge la breve appendice finale sul decennio 2008-2018 –, ognuna delle quali risulta puntellata da una serie di capitoli e da una moltitudine di paragrafi, ordinati cronologicamente e intervallati da pochi momenti di sintesi. Analisi monografiche su singoli architetti si alternano all’esposizione delle diverse correnti architettoniche, il tutto attraverso trattazioni sintetiche che, se in certi casi volgono verso informazioni ricercate, in altri avrebbero richiesto una maggiore estensione. Ne discende un quadro frammentato dell’architettura contemporanea, capace di
offrire possibilità di letture multidirezionali che, talvolta, eludono le più consolidate gerarchie, a partire dagli effetti della dimensione allo stesso tempo centripeta e centrifuga del Movimento moderno. Ciò non vuol dire che l’autore contesti gli ineludibili effetti di tale definizione o che rifugga gli inevitabili confronti che essa ingenera, ma che si determina una redistribuzione delle densità dei contenuti verso il secondo Novecento, fino ai giorni nostri. Emerge una sorta di affinità elettiva tra la visione di Prestinenza Puglisi e quella propria delle concezioni postmetafisiche che fanno da sfondo alle rizomatiche evoluzioni dell’architettura degli ultimi decenni, cosa che spiegherebbe una certa propensione dell’autore verso le più recenti correnti architettoniche. Una metodologia d’indagine che trova perfetta corrispondenza in un passo di Ignasi de Solà-Morales nel quale spiega il cambio di orientamento storiografico scaturito dall’abbandono del “mo dello esplicativo hegeliano”: Più che dedicarsi alla ricerca di nuovi modelli che permettano di giungere a una chiarezza totale, la storia tenta di mettere insieme percorsi trasversali, microstorie, sezioni inesplorate, alla ricerca di significati diversi. Si abbandona così la “grande narrazione”, a favore di una visione che suggerisce al lettore diverse possibilità interpretative – a questo proposito, adeguati riferimenti bibliografici avrebbero facilitato l’imbocco di tali possibili percorsi. Tuttavia, a voler ricercare un assetto portante di tutto l’impianto storiografico, esso può rintracciarsi in quella che l’autore definisce come la svolta avvenuta tra la prima e la seconda metà del Novecento: proviamo a immaginare questo se
colo diviso in due ere. La prima è segnata dalla modernizzazione e dal meccanicismo. […] La secon da era è quella dei mass media, del consumismo, del boom economi co. […] Orientate l’una verso i cambiamenti dei processi e l’altra verso i cambiamenti dei compor tamenti o dei linguaggi attraverso cui il soggetto si relaziona con la realtà, le due ere sono distanti tra loro, quasi geologicamente diver se. Tale frattura segnerebbe, per l’autore, il passaggio dal moderno al contemporaneo, cosa che in termini storiografici complica ancora di più il quadro dell’annosa querelle sul l’uso delle due definizioni e delle rispettive periodizzazioni – non potendo qui affrontare la questione, si rimanda al testo di Renato Barilli Moderno, contemporaneo, postmoderno, pubblicato in Tutto sul Postmoderno. Le due metà del secolo si polarizzano, rispettivamente, attorno ad alcune figure che assumono un peso determinante: per la prima, i più ricorrenti sono Gropius, Le Corbusier, Loos e Wright; per la seconda, Eisenman, Gehry, Hadid, Ito, Koolhaas e Tschumi. Al di là delle convenzioni storiografiche, quella di Prestinenza Puglisi è una storia del l’architettura che, nel suo impianto, volge lo sguardo da un lato a Bruno Zevi, per l’adesione alla definizione di un contemporaneo “breve” che parte dalle Arts and Crafts e dai cosiddetti “pre-moderni”, dal l’altro a Marshall McLuhan per l’assunzione del fattore tecnologico quale elemento di svolta capace di influenzare anche l’ambito artistico. Della sua storia si apprezza la ricercata multiformità delle correnti architettoniche – altrove trattate a compartimenti stagni –, a volte trattate a più riprese per spiegarne le evoluzioni alla luce di eventi deter-
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minanti, e quella degli stessi protagonisti di quest’ultime, di cui non vengono celate le contraddizioni. Interessanti sono, altresì, i riferimenti ad architetti – molte volte gli allievi trascurati dei celeberrimi maestri – e fenomeni artistici poco sondati nell’ambito delle trattazioni manualistiche, così come il richiamo a riviste, teorie e posizioni filosofiche di sovente ignorate nella descrizione delle ragioni profonde che sottendono gli orientamenti architettonici e che connotano lo spirito dell’epoca. Significative, per la tipologia di testo, sono le diverse incursioni nel panorama architettonico italiano, spesso trattate con dovizia di particolari, nonostante alcune reticenze, tra cui fa riflettere la scarsa attenzione dedicata alla figura di Giancarlo De Carlo, un architetto che si è sempre distinto per il suo atteggiamento antidogmatico, antiaccademico e distante dalla tanto criticata – da Prestinenza Puglisi – linea dell’autonomia, incarnata in Italia dalla Tendenza. In conclusione, ci interroghiamo sui destinatari privilegiati di questo manuale, a partire da uno slogan riportato nella quarta di copertina: una storia dell’architettura utile per gli studenti per il costo conte nuto e la facilità di consultazione, fondamentale per gli studiosi per ché sfata mitologie, preconcetti e luoghi comuni. È interessante notare l’evidenziazione in rosso – visibile nel testo a stampa – degli aggettivi “utile” e “fondamentale”, che induce a considerare la diminutio del primo termine rispetto al secondo. In effetti, non poche sono le caratteristiche che, a valle delle considerazioni fatte finora, farebbero propendere l’efficacia del testo più verso gli addetti ai lavori che verso gli studenti più giovani. Inoltre, riteniamo che l’imple-
mentazione di note, bibliografia e altri apparati conclusivi, unitamente ad una cura redazionale più meticolosa – un upgrade che ci si sarebbe aspettati, specie nella trasposizione di un testo dal digitale al cartaceo –, avrebbero valorizzato il tono generale del volume e quegli aspetti storiografici di maggiore interesse. A. T. D. Dardi, V. Pasca, Manuale di storia del design, Silvana Editoriale, Milano 2019. L’ultimo lavoro editoriale in collaborazione tra Domitilla Dardi e Vanni Pasca, presente con la stessa casa editrice anche in versione in inglese, si mostra ricco di innovazione sia in merito ai contenuti che per la struttura. Il manuale tratta le vicende fondamentali, costituenti la c.d. storia del design, in modo sistematico ed esaustivo. Gli autori descrivono, infatti, i protagonisti, le vicende e le relazioni che si sono susseguite nel l’eterogeneo campo dell’industrial design, dalla macchina a vapore di James Watt, espressione della rivoluzione industriale, fino al social design. Nonostante, quindi, uno dei caratteri intrinseci sia l’essenzialità, l’opera si presenta articolata ed organicamente strutturata, con riferimenti agli altri settori che interagiscono in maniera complementare con il mondo del design quali l’architettura, l’arte, la moda, la politica, la sociologia e l’economia. Tutti i canoni impostati nel manuale si rifanno a quelli che sono i tre capisaldi della storiografia quali l’individualità, la causalità e la selettività. Sono, infatti, magistralmente narrate le singole vicende fondanti la storia del design, così
come è ben esplicitato il rapporto causa effetto tra le stesse ed il relativo macro contesto di riferimento. Il tutto in modo equilibrato ed integrato, nel rispetto di una trattazione lineare e scorrevole. I flashback, gli excursus e le previsioni si aggiungono ai continui rimandi al contesto attuale, dialogando egregiamente tra loro senza disorientare il lettore. Il lavoro è strutturato in nove capitoli che, con i relativi paragrafi, scandiscono sapientemente il tempo, individuando per ogni lasso temporale la tendenza imperante restituita tramite locuzioni, citazioni e keyword, selezionate con estrema perizia. Lo stesso dicasi per le opere icone associate a ciascun capitolo, alle quali sono dedicate delle schede descrittive. Emblematica, in tal senso, la seduta Chair One (2003) realizzata dal designer tedesco Konstantin Grcic e prodotta dall’azienda Magis, che interpreta a pieno la vicenda contemporanea. Ulteriore elemento distintivo è la struttura cronologica della narrazione. Una doppia sincronia, la prima orizzontale, che segue l’andamento lineare delle vicende che si sono succedute, la seconda verticale, dove entrano in scena approfondimenti su specifici temi e/o personaggi. Una storia nella storia, restituita graficamente attraverso un’escamotage editoriale: il box, una sorta di focus, presente in ciascun capitolo, differenziato graficamente mediante aspetti cromatici, attraverso il quale gli autori entrano nel vivo di episodi citati nella «narrazione quadro». Avvalendosi del pensiero di To más Maldonado, espresso in un testo di Giulio Carlo Argan del 1955, per cui non c’è un solo industrial design, ma ve ne sono parecchi, molto diversi l’uno dall’altro. La concezione monistica di industrial
design dovrà essere sostituita da una concezione pluralistica e condividendo l’impostazione culturale di Vanni Pasca, riportata nel Design negli anni Novanta (1996), secondo cui la presenza di una tendenza dominante non determina mai, nella storia del design, salvo che sulle pagine delle riviste di arreda mento o di costume, la scomparsa di altre tendenze, che continuano ad agire più o meno lateralmente, gli autori selezionano e descrivono gli attori che si sono mossi sul palcoscenico del design nelle rispettive sfere di competenza, ponendo l’accento su quelle che potrebbero definirsi le varie «storie» del design. Ancora, a supporto di questa struttura narrativa, il manuale in esame vanta un ricco corredo iconografico. Disegni, tavole, foto e locandine storiche, sapientemente selezionati, con didascalie commentate tali da costituire da sole un terzo livello di lettura in aggiunta ai due sopracitati. Starà quindi al lettore scegliere il proprio piano di lettura: conse quenziale, verticale (attraverso i box) o, addirittura, per immagini. Oppure, ancor meglio, di seguirli tutti. A ognuno, infatti, corrispon de uno stato di conoscenza e un ap profondimento che non esclude gli altri. E ogni livello è complementa re agli altri, così come lo sono le tante storie che qui si intersecano. Il volume termina con un’innovazione anche dal punto di vista storiografico. Inedito infatti l’ultimo capitolo intitolato Mappature contemporanee, all’interno del quale gli autori indagano su quanto accade oggi sulla scena del design. È innegabile che quella che si sta aprendo sia un’e poca di grandi pluralismi, dove l’arte è riferimento ineludibile e il design non appare più condiziona to dal dominio della visione, avven
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turandosi in nuove forme di senso rialità, più tattili, più emozionali. Partendo da grandi personalità come Karim Rashid o ancora Marcel Wanders ed il caso Moooi e citando l’iconismo teatrale provocatorio di Fabio Novembre, gli autori affrontano il nuovo modo di interpretare l’antica diade artificio-natura, il neoorganicismo frattale, nonché la nascita di un nuovo binomio: designscienza. Ancora indagano sulle ricerche portate avanti dai cd. designer enigmisti, miranti alla conquista di una nuova estetica industriale e sul fenomeno della globalizzazione. Quest’ultima, generatrice a sua volta di tendenze discordanti, da un lato spinge verso la riscoperta delle tradizioni locali in termini di autoproduzione e neo-artigianalità, dal l’altro induce al potenziamento della propria immagine attraverso processi di marketing e branding. A tal proposito fondamentale l’apporto dell’e-commerce che, oltre ad aprire nuovi canali di vendita e distribuzione, rende il designer imprenditore di se stesso, esplicativo tra tutti il caso di Tom Dixon. Il capitolo termina con un approfondimento sul ruolo, tutt’oggi in espansione, del narrative design nonché del social design. Interessante, infine, cogliere il metodo adottato dagli autori anche confrontandolo con opere analoghe. Si notano così le differenze con il Dizionario del design italiano, pubblicato nel 1995 da Anty Pansera e la Storia del design di Renato De Fusco del 1985, giunta ormai alla tredicesima edizione del 2010 con Laterza. Nel primo caso, il tema è affrontato seguendo l’ordine alfabetico di designer, opere e tendenze, il tutto cronologicamente ordinato. Nel secondo, nonostante il titolo, non si tratta una vera e propria storia del design, bensì una sua fenomenologia che muove
da un punto di riferimento, espresso nella teoria del quadrifoglio, da un artificio storiografico o un tipo ideale, secondo la lettura di De Fusco. Le due grandi innovazioni nel volume di Dardi e Pasca interessano aspetti differenti. Da un lato, infatti, risaltano le loro Mappature contemporanee, dall’altro, l’artificio narrativo del box tramite il quale ogni sezione è affidata ad un argomento della fenomenologia del design quale ad esempio il profilo di un designer, l’esposizione di una tendenza e/o l’esame di un singolo oggetto. L’estrema utilità dell’opera, in un’epoca in cui si è abituati a recepire informazioni sintetiche ed istantaneamente tramite i diversi dispositivi elettronici, a svantaggio di una lineare e corretta sequenzialità degli eventi, la rende indispensabile ad ogni livello di informazione sul design; anche, in particolar modo, nei tanti corsi universitari orientati alla disciplina. Una piccola nota critica: così come è stata affrontata la trattazione dell’Identità giapponese sarebbe stato utile, per il lettore, in un momento di multiculturalità ed eterogeneità, avere un quadro sull’orientamento assunto dai paesi emergenti come la Cina e l’India in merito a tali prodotti. Una digressione sul mondo orientale più profonda in un racconto, tendenzialmente, western-oriented. F. F. Gilles Clément, Breve trattato sul l’arte involontaria. Testi, disegni e fotografie, Quodlibet, Roma 2019. Il cambiamento della nostra percezione del mondo naturale, il suo significato, la relazione con l’artificiale e gli interrogativi sul destino dell’ambiente che ci circonda sono
temi che attraversano oggi numerose opere di artisti così come di architetti, offrendo molteplici prospettive di riflessione. Se pensiamo alle dirompenti opere di Land Art, che hanno cambiato l’approccio dell’azione architettonico-artistica e la sua posizione rispetto al paesaggio o alle immagini e ai lavori presenti nelle più recenti esposizioni internazionali – quali ad esempio la celebre Broken Nature. Design takes on human survival (Triennale di Milano, 2019) –, che pongono inquietanti interrogativi sulle nostre responsabilità di essere umani rispetto ai non umani e all’ambiente, sembra che mai come nella contemporaneità siamo portati a riconsiderare in modo urgente e necessario il nostro rapporto con la natura e a fermare il nostro sguardo sul paesaggio. Recentemente Klaus Littmann, riprendendo come spunto per la sua installazione For Forest (Klagenfurt, 2019) un disegno di Max Peintner (The Unending Attraction of Nature, 1970-1971), ha ricoperto l’intera superficie del campo da calcio di uno stadio con un bosco di circa trecento alberi, lasciando agli spettatori il compito di osservare in silenzio questa monumentale opera, una sorta di memoriale del paesaggio con l’aspetto di una foresta ricreata ad arte in una situazione distopica, alienante e potentemente evocativa. La recente riflessione di Gilles Clément sull’arte involontaria, pubblicata nella forma di breve trattato edito da Quodlibet, si muove intorno a simili tematiche, dove si mescolano l’opera antropica e quella ambientale, lo sguardo critico del l’uomo e l’ineluttabilità imprevedibile degli eventi atmosferici. Procede tuttavia in direzione opposta rispetto all’opera di Littmann e ci indica un’altra via per avvicinarci al
paesaggio, alla sua fragilità: la via della leggerezza. Il libro è la traduzione in italiano di un saggio del 1997 (Traité succint de l’art involontaire) e costituisce innanzitutto un piccolo manifesto poetico, una sorta di raccolta intima di esperienze che a un primo sguardo si avvicina sia alle esperienze fotografiche di alcuni autori del Novecento, come ad esempio Luigi Ghirri, che hanno posto al centro della loro estetica la condizione marginale dei territori, sia alla materia dell’informe delle sperimentazioni artistiche emerse a seguito delle teorizzazioni di George Bataille. Il piccolo formato e la struttura agevole del volume, nel quale si alternano fotografie, brevi testi e schizzi tratteggiati in nero che sembrano appena affiorare dal fondo bianco dominante della pagina, fa pensare anche a un taccuino di viaggio che Clément ha completato negli anni e successivamente organizzato in otto sezioni − Voli, Accumuli, Isole, Costruzioni, Erosioni, Installazioni, Tracce − grazie a un lavoro di sottrazione e limatura, piuttosto che di aggiunta e densificazione. Come chiarisce subito l’autore, la sua ricerca rifugge l’arte degli ar tisti e sorvola su quella parte di ar chitettura che spetta agli architet ti. Le combinazioni impreviste e surreali di situazioni o di oggetti organizzati conformemente alle regole d’armonia dettate dal caso, che appaiono immediatamente dalle prime immagini de La signora arrugginita a Perth (Australia) e di un Barile nel fiume Aigue Blanche a Saint-Véran (Francia), costituiscono un chiaro invito a cercare l’arte lì dove normalmente non si trova, lontana dai musei e dalle esposizioni. Sin dall’inizio del libro Clément ci conduce a interrogare con curiosità
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opere poco considerate, perché non premeditate, con uno sguardo inedito guidato da una consapevolezza etica, prima che estetica, orientato verso un paesaggio instabile colto nella sua condizione mutevole di processo, anziché di scenario permanente e immobile. Il tema del movimento si declina, in seguito, nella molteplicità di luoghi fotografati (Australia, Egitto, Madagascar, Namibia, Nuova Zelanda, solo per citarne alcuni), nel l’evoluzione degli oggetti (teli e sacchetti di plastica fluttuanti, riflessi cangianti su superfici riflettenti, apparizioni subitanee di oggetti in luoghi inaspettati, ecc.) e nella metamorfosi incessante di tutti gli elementi ambientali che li modificano, dove la parola stessa ambiēnte, participio presente di ambīre (andare intorno, circondare), evoca una situazione di azione sinestetica e di moto. Il vento che anima le foglie degli alberi, il suono del fiume o il trasmutare di essenze tra un giardino e l’altro in una sorta di vagabondaggio naturale o, se vogliamo, di auto-determinazione informale sono tematiche chiaramente rintracciabili e ampiamente sviluppate da Clé ment nel testo del celebre Le Jardin en mouvement, de la Vallée au parc André-Citroën (1994), ma che in questo ultimo saggio conservano l’immediatezza di un’intuizione e di un sentire ancora non teorizzati: si ha qui piuttosto l’impressione di accompagnare l’autore in un viaggio alla ricerca dell’origine di un’idea. I capitoli dei Voli e Accumuli definiscono ambiti assolutamente aleatori, soprattutto perché contengono il più inafferrabile degli attori, il vento. In queste categorie si possono annoverare tutte le materie amorfe, le sostanze di diversa granulome tria, la cui tendenza è quella di de
fluire, come fanno la sabbia e l’ac qua. Gli esempi citati sono testimonianze di momenti vissuti: La Risaia a Bali, Il campo da golf nel quartiere residenziale Mouille-Point (in Sudafrica) o Le Ouvèze (Vaison-la-Romaine), dove frammenti di teloni orticoli abbandonati dalla piena del fiume creano un effetto di «land-artizzazione temporaneo», permettendo infine alla città di ammirare gli scarti dei suoi rifiuti arenati e disposti sulle rive come antichi ornamenti. Il capitolo Isole inquadra una condizione transitoria tra solido e liquido, che parla di emergenze isolate che drammatizzano un carattere privato della loro natura, mentre i brevi paragrafi su Il veld a Khorixas in Namibia, sul File ad Assuan in Egitto, su La duna a Tinfou in Marocco testimoniano gli incontri improvvisi con un elemento estremamente diverso rispetto al suo contesto e il sentimento di meraviglia che questo incontro crea nell’osservatore. Le Costruzioni ed Erosioni considerano esiti di azioni del lavoro dell’uomo sul territorio che sfuggono a una decisione e a un disegno preventivi, ma sono piuttosto frutto di risposte dettate dall’urgenza e della gestione di una necessità improvvisa. Si ricordano gli esempi de Il bordo della strada verso lo Yuanmingyuan a nord di Pechino o La staccionata a Huonville (Tasmania), dove l’apparente solida e rigorosa disposizione degli elementi di una recinzione si trasforma, una volta soggetta al logorio del tempo, in una nuova composizione di forme deboli e usurate, producendo una sensazione di metabolizzazione ambientale che il tratto sempre più evanescente dello schizzo di Clément rappresenta con incredibile efficacia. Allo stesso modo l’esempio di Un Battello a Leticia in Colombia e del Porto di Montréal in
Canada propongono gli effetti dell’erosione e della sua azione potentissima di cambiamento del paesaggio. Come nel caso de Le Jardin planétaire (1997), Clément si concentra su manifestazioni a piccola scala per veicolare la comprensione di fenomeni che agiscono su dimensioni ben più ampie, dato che per il paesaggio, l’erosione è rilievo, mo tore di un sistema in costante evo luzione, [mentre] per la città, l’ero sione costituisce rovina. D’altra parte Clément, che si auto-definisce «giardiniere», nelle sue descrizioni lascia intravvedere una consapevolezza mai superficiale delle realtà che descrive e, oltre ai suoi selezionati oggetti d’arte involontaria, inquadra precisamente con poche frasi l’ambiente e le vaste dinamiche in cui essi si collocano. Le Installazioni considerano opere che hanno un esito simile a quello dell’oggetto d’arte, ma ottenuto attraverso elementi puntuali posti nello spazio. L’Orice cassonetto in Namibia o La griglia di Wilpena in Australia sono forme modeste e ostinate, nate da residui di installazioni dell’uomo. Le Tracce si collocano in un ambito definito tra desiderio e caso: ospitano tutte quelle arti involontarie che non trovano posto altrove [e che] finiscono sempre per scom parire, ma inscrivono la propria storia in quella, più generale, del l’evoluzione. In questa categoria trovano spazio oggetti modificati dal tempo: ad esempio Il totem di Sandy Bay a Città del Capo o Le corde da legatrice a Creuse. L’ultimo capitolo, Apparizioni, illustra una fragile commistione tra forme e colori che, nel tempo di una foto, trasforma le componenti dello spazio in un quadro effime ro, come una raccolta di argilla nel Letto del fiume Swakop in Namibia
o la coincidenza di texture tra la camicia di un passeggero e la poltrona dove si siede nella foto scattata nel Treno ad alta velocità, prima classe, Parigi-Marsiglia. Il saggio di Clément, infine, lascia emergere alcune questioni piuttosto rilevanti, rispetto alle quali è inevitabile oggi prendere posizione e che sono state sviluppate anche nel suo Manifeste du Tiers-paysage (2004). Nell’indicarci la bellezza casuale che si realizza in spazi dove sono condizioni necessarie l’assenza di autore, di un progetto o di una committenza e, in generale, si verifica la mancanza di una compiuta gestione esterna da parte dell’uomo, risulta inevitabile interrogare la nostra smania interventista, la soggettività e il pensiero progettuale totalizzante. Clément con questo saggio sembra suggerire la possibilità di dare avvio a processi e pratiche che limitino il nostro fare ad alcuni accurati passaggi e simultaneamente accrescano la nostra conoscenza degli elementi naturali, per lasciare infine che questi agiscano ed evolvano insieme, seguendo le banali tappe della fabbricazione di un paesaggio. In uno scenario meno antropocentrico, dove il senso di ogni azione umana è ridimensionato e privato della carica soggettiva, ma si dilata nel tempo ibridandosi con una serie di contingenze ambientali e casuali e dove chi progetta o disegna deve diventare meno artefice e più spettatore, rimane comunque la centralità assoluta del pensiero creativo dell’uomo. Proprio a questo pensiero, che nasce da uno sguardo, Clément dedica la sua ricerca, poiché – scrive – è nello sguardo che si costruisce il paesaggio, ed è nella memoria che ha la sua dimora. C. P.
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Sommario dei fascicoli pubblicati
N. 141. Circolarità ermeneutica tra Theoria e praxis nel progetto di architettura - Il contributo della Biomimesi per un design sostenibile, bioispirato e rigenerativo - Fotografia e spettacolarizzazione del quotidiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 142. Nescio quid: riflessi del sublime nell’architettura contemporanea Continuando ad interpretare l’arte d’oggi - Le cose che contano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 143. Architettura: un riesame - Per il disgelo delle arti - Design: verso una riscoperta della cultura materiale - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 144. Architettura: due paradigmi tra ’900 e ’2000 - Contro l’arte d’oggi Radical design, Superstudio - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 145. Che cos’è la critica? - L’arte e la comunicazione dell’arte nell’era digitale - Quale storiografia per quale storia? Dalla storia universale alla scomparsa dell’Icar 18 - Edoardo Persico e il labirinto di Camilleri - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 146. Architettura e identità islamica - Umano / disumano. Un percorso nel ritratto del novecento - Il Grande Fiume del design italiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 147. Architettura e identità islamica - Umano / disumano. Un percorso nel ritratto del novecento - Il Grande Fiume del design italiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 148. Innovazione e tradizione tra origine e inizio - La Biennale d’Arte di Venezia 2013: il Palazzo Enciclopedico e i padiglioni nazionali - A cinquanta anni dal moplen: l’eredità pesante degli oggetti leggeri - L’autore e la firma nel progetto di design - Libri, riviste e mostre - Le pagine del l’ADI
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N. 149. Maker - La finzione in architettura - L’impegno pubblico degli artisti in Olanda, oltre “il tempo dei manifesti” - Se la critica entra in crisi: il dibattito del ventennio ’60-’70 - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI
N. 150. Abduzione e valutazione - Per una teoria dell’arte relazionale e connettiva - Designscape. Processi istantanei del design contemporaneo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 151. I primi cinquant’anni della nostra rivista - fascicolo speciale con una scelta dei saggi pubblicati e il sistema che comprende sia l’edizione cartacea sia quella digitale - Le pagine dell’ADI N. 152. Due modi di essere nel web - De mundo multiplo: pensare l’arte oltre la modernità - La crisi del prodotto nel “design del prodotto” - Libri, riviste e mostre N. 153. La fine del disegno? - Happening come rituale dell’interazione Confronto critico tra Victor Papanek e Alain Findeli - Libri, riviste e mostre N. 154. Historic Urban Landscape: un concetto in costruzione - Ancora sul rapporto tra arte e pubblico - Design: scenari morfologici della contemporaneità - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 155. Nuovo Realismo/Postmodernismo: dibattito aperto fra architettura e filosofia - Realismo sensoriale: per una diversa prospettiva fra Nuovo Realismo e Postmodernismo - Della omologazione in architettura - Arti visive: da zona franca a fronte comune - È del designer il fin la meraviglia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 156. Architettura in mostra: il caso «Comunità Italia» - Modern/post: un territorio in-between - «Mostrismo»: un’avanguardia globale per un paradigma espositivo - Moda: sistema e processi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI Campania N. 157. Editoriale - Una “ipostasi” della forma-tatuaggio - Aspetti e intenti del graffitismo d’oggi - Lebenswelt e architettura - Design vs Lebenswelt Libri, riviste e mostre N. 158. Architettura e qualità nell’età dei concorsi - La nostalgia nella cultura digitale - Conformazione e trasformazione degli spazi interni - La ricerca di una definizione di design - Libri, riviste e mostre N. 159. «Corporea» alla Città della scienza di Napoli - Mono-ha nel contesto globale. Poetiche e culture a confronto - Distruzioni e ricostruzioni a Berlino - Il tempo del tipo nello spazio del design - Libri, riviste e mostre N. 160. Il mestiere di architetto: prospettive per il futuro - Téchne e progetto d’architettura - Riflessioni sulla 57ª Biennale di Venezia e Documenta 14 a Kassel - Didattica e design, dal learning by doing al learning by design - La rivista «October»: temi e nuclei teorici - Libri, riviste e mostre N. 161. La metodologia circolare della progettazione in architettura - Aldo Rossi. Topografia urbana - Artisti italiani e realtà sociale nel secondo dopoguerra - La rivista «October»: novità metodologiche e crisi di un paradigma
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- Il design (morale) dell’ordine - Ernesto Basile. Dall’architettura d’interni all’industrial design - Enzo Mari. Opera, multiplo, serie - Libri, riviste e mostre N. 162. Il BIM. Un parere in evoluzione - Bruno Zevi e lo spazialismo architettonico - Semantiche del sublime architettonico - Brecht nostro contemporaneo - Il dono e l’arte, la festa e la dépense ai tempi di internet - Il “nuovo” nel modello Design-Oriented - Handmade in Italy - Libri, riviste e mostre N. 163. L’architettura è (ancora) un’arte? - Sull’unbelievable: Hirst, il fantasy, la post-verità - La Biennale d’architettura 2018 - Crossing the border: la storia dell’arte nell’epoca della globalità - La teoria in scena: Adolphe Appia - Libri, riviste e mostre N. 165. Organic and mechanical - Paesaggi dell’Antropocene - Carlo Ludovico Ragghianti “architetto”. Dal dibattito al museo - Oltre il biomorfismo: l’approccio bioispirato - Libri, riviste e mostre N. 166. Linguistica, semiotica e architettura - Il museo nell’era del web - La poesia scenica di Gordon Craig - Fare, pensare e progettare nel tempo della app economy - Essere designer: ruoli e dinamiche al confine con l’arte - Libri, riviste e mostre N. 167. Smart Cities - Fenomenologia della nostalgia - Olivetti in Messico: 1949-2002 - Donne e architettura: il Woman’s Pavilion di Chicago - L’opera, l’immagine digitale e il Digital Storytelling 2.0 - Sulle tracce dell’opera d’arte. Video-recording e XXI secolo - Incoming/Outgoing. Flussi trans e multiculturali nel design contemporaneo - Libri, riviste e mostre
Direttore responsabile: Renato De Fusco Autorizzazione del Tribunale di Napoli n. 4967 del 29 maggio 1998 «Grafica Elettronica» - Via Bernardo Cavallino, 35/g - 80128 Napoli
ISSN 0030-3305
maggio 2020
numero 168
Napoli: architettura internazionale anni ’70 - Telelavoro - Design quotidiano al tempo della vulnerabilità diffusa - L’Opificio Ber tozzi & Casoni: estetica, concetto e sapienza fabbrile - Tra il sacro e l’espositivo - Cucinare e consumare: la cucina-casa Quando i Giganti cadono. Fenomenologia della Memoria - Libri, riviste e mostre Spedizione in abbonamento postale / 70% Direzione commerciale imprese - Napoli
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