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Lavoro povero: sì al salario minimo Annarita D’Agostino

di Annarita D’Agostino

CONTRO IL LAVORO “POVERO” IL SALARIO MINIMO È NECESSARIO. MA NON BASTA

Di salario minimo, in Italia, si discute da oltre venti anni. Consultando gli archivi delle proposte di legge di Camera e Senato, si individuano almeno 9 diverse iniziative legislative. Ferme nelle commissioni parlamentari per anni. Il tema è tornato in auge con la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, che fissa le procedure per introdurre salari minimi adeguati nell’Ue. Cosa cambierà per il nostro Paese? «Formalmente nulla», afferma Michele Raitano, professore ordinario di Politica economica presso l’Università La Sapienza di Roma e membro del Gruppo di lavoro sugli “Interventi e le misure di contrasto alla povertà lavorativa” in Italia, istituito nel 2021 dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. «La direttiva - spiega - si applica ai Paesi che hanno un livello di contrattazione collettiva che copre meno dell’80% della forza lavoro o che hanno mi-

nimi salariali talmente bassi da creare condizioni di concorrenza sleale, come i Paesi dell’Europa dell’Est. In Italia, sostanzialmente, tutto il lavoro dipendente è coperto da contrattazione collettiva, quindi non c’è un obbligo di salario minimo legale, ovvero imposto per legge. Sicuramente però, grazie alla discussione sulla direttiva UE, si è ricominciato a porre attenzione ai temi salariali e, in particolare, al lavoro povero». Quello della povertà lavorativa, conferma Raitano, è purtroppo oggi un “problema strutturale” del mercato del lavoro italiano, dovuto a salari stagnanti e contratti sempre più precari. Ma anche un fenomeno “diffuso”. «Il lavoro povero non è solo dovuto ad un basso salario, ma anche a forme contrattuali atipiche, tempi di lavoro limitati, carriere frammentarie. Posso avere un salario orario alto - spiega l’economista - ma, se lavoro poche settimane in un anno o part-time per poche ore a settimana, il mio livello retributivo certo non mi permetterà di vivere dignitosamente. Si tratta di una condizione peraltro persistente, che non riguarda solo i giovani all’ingresso del mercato del lavoro ma rimane tale per molti anni e arriva ad incidere sulle pensioni, creando le condizioni per una generazione di anziani che saranno sempre più poveri, oltre che più numerosi».

Il salario minimo è una misura preoccupante fenomeno?

Possiamo dire che è una condizione necessaria ma non è assolutamente sufficiente. Il salario minimo può funzionare, ma nella cornice della contrattazione collettiva. Infatti, nei settori economici in cui la contrattazione collettiva è forte, i salari minimi sono più alti. Bisogna considerare poi che un contratto non garantisce solo i minimi salariali, ma anche una serie di diritti, dalle ferie al TFR al welfare.

«Il salario minimo può funzionare, ma nella contrattazione collettiva - (nella foto) -. Infatti, nei settori economici in cui quest’ultima è forte i salari minimi sono più alti» Il problema è che, nel corso degli anni, il lavoro si è indebolito molto e oggi ci sono settori dove i salari sono davvero bassi nonostante i contratti collettivi. Penso alla logistica o alla ristorazione, per fare solo alcuni esempi. Oppure sono vigenti contratti “pirata” siglati da associazioni sindacali non rappresentative. Si tratta di contratti che riguardano pochi lavoratori, ma che rappresentano comunque una minaccia per l’equità salariale.

Ma perché le imprese pagano salari bassi?

In molti casi perché si posizionano su segmenti poco produttivi, dove negli anni hanno potuto sopravvivere anche grazie alle politiche pubbliche. Paradossalmente i bassi salari sono una trappola: se l’impresa può pagare poco il lavoratore, continua a fare produzioni a basso valore aggiunto in cui compete sul costo del lavoro. Invece, un paese innovativo, ricco di risorse e di capitale umano come l’Italia dovrebbe cercare di muoversi verso produzioni a più alta tecnologia.

All’Italia quindi può servire un salario minimo?

Il gruppo di lavoro sulla povertà lavorativa con l’ausilio dell’Inps ha calcolato che circa 1 lavoratore su 4 guadagna meno di 9 euro lordi all’ora. Dunque un salario minimo a 9 euro lordi all’ora potrebbe servire ad alzare i livelli salariali più bassi (in questa cifra non sono inclusi però tredicesima e TFR; inoltre, non tutti i contratti prevedono la quattordicesima e le stesse misure di welfare, n.d.r.). La discussione è quindi complessa, in parte anche perché alcune imprese non rispettano neppure i minimi previsti dai contratti. Non rafforzando la contrattazione, con un aumento dei minimi salariali le imprese potrebbero addirittura rispondere

riducendo l’orario di lavoro o pagando una parte di stipendio “fuori busta” e dunque alimentando il lavoro nero.

C’è quindi anche un problema di rispetto delle norme vigenti.

La parte più innovativa, a mio avviso, della Relazione del Gruppo di lavoro sulla povertà lavorativa è proprio quella relativa alla “vigilanza documentale”. I documenti per controllare il rispetto delle norme sono già disponibili: si conosce a quale comparto appartiene l’impresa e che Ccnl deve applicare; basterebbe aggiungere alcune informazioni che l’impresa può fornire a costo zero al momento del pagamento dei contributi, come il livello di inquadramento del lavoratore e le ore lavorate. A quel punto, è facile verificare se sta pagando il giusto.

E combattere anche distorsioni della contrattazione collettiva come i contratti “pirata”?

In questa direzione, una legge sulla rappresentanza sarebbe prioritaria rispetto a una legge sul salario minimo. Ovvero una norma che stabilisca chi ha diritto di siglare i contratti collettivi e quali sono i perimetri precisi di applicazione del contratto stesso per evitare, come succede oggi, che un’impresa possa scegliere di applicare il Ccnl di un altro settore perché più conveniente.

Per alzare i salari non sarebbe meglio rimodulare le scale?

La riforma fiscale ha senso per redistribuire risorse fra

chi può di più e chi di meno, ma non possiamo pensare di alzare strutturalmente i salari abbassando il cuneo perché significa dare con la mano destra e togliere con la sinistra. Alla fine ci sarebbe un conto pubblico da saldare, e chi lo pagherebbe? Di nuovo i lavoratori e i pensionati attraverso le imposte, perché su di loro grava gran parte del carico fiscale. Inoltre, l’aumento salariale che si può avere attraverso il cuneo fiscale è molto limitato, a meno che non si vada ad intaccare i contributi previdenziali tagliando l’aliquota del 33%, ma questo è impensabile perché vuol dire, ancora una volta, dare oggi per togliere domani. Significa mettere a rischio la garanzia di pensioni decenti in futuro. Non è innanzitutto capire quanto questi professionisti lo siano per libera scelta e quanto per celare forme di lavoro che andrebbero riportate nell’alveo del lavoro dipendente. Basti pensare che il nostro Paese ha circa il 25% di forza lavoro che non è inquadrata come dipendente, mentre negli altri Paesi europei con un livello di sviluppo simile siamo fra l’8 e il 10%. All’estero gli autonomi sono in primo luogo imprenditori; in Italia abbiamo una pletora di forme lavorative. Di nuovo, se noi rafforzassimo il sistema produttivo evitando che il costo del lavoro o l’evasione fiscale siano strategie competitive, le forme di lavoro autonomo “involontario” scomparirebbero e si valorizzerebbe anche il vero lavoro indipendente.

possiamo certamente giocare a fare le cicale. L’unico modo per aumentare i salari in modo equo e strutturale è incentivare le imprese alla produttività e rafforzare il lavoro combattendo quei comportamenti di mera ricerca del profitto che, sul lungo periodo, sono un danno per lo sviluppo economico dell’intero sistema Paese.

Non c’è solo il salario minimo dei dipendenti, ma anche il tema dell’equo compenso dei professionisti... Non sarebbe una questione di equità pensare a tutte e due le facce della medaglia?

Esiste certamente un problema di povertà lavorativa per molti professionisti, ma non si può pensare genericamente che alzare parcelle o tariffe sia una soluzione. Il punto

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