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BARONE, PER SEMPRE

STORIE di Giovanni Lucchesi

I MAESTRI SI RICONOSCONO, NON SI DIMENTICANO. DEVONO VIVERE. IN ETERNO. RICCARDO SALES: IL MIO MAESTRO. IL MAESTRO DI MOLTI. “IL REALISMO E IL GRANDE SPIRITO SONO LA CULLA DI QUESTA SQUADRA” DICEVA DELLA SUA CREATURA AZZURRA. DAL SUO RICORDO MI FACCIO CULLARE

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Ne ho scritto varie volte, ne ho parlato molte, lo penso spesso. Sarà che questa età ogni tanto immalinconisce, altre ti chiede semplicemente di mantenere il “ricordo” al centro del tuo percorso, ma senza esserne schiavo. Eppure di Riccardo, sì, Riccardo Sales conservo tante cose; le custodisco, pur non essendo guardiano per altri, ma solo per me stesso e dei miei valori. Questi valori, piacciano o no, sono parte della vita e delle sue sorti, “le magnifiche sorti e progressive”, tanto per citare Leopardi e fare un po’ di scena. Ma Riccardo incarna per me un concetto che in Italia non si ama applicare alla cultura sportiva, specie degli sport di squadra: il concetto di Maestro. Li abbiamo dimenticati, ignorati, etichettati come vecchi e antiquati, financo sorpassati nemmeno fossimo ad una competizione di moto GP. Ed invece i Maestri servono, indispensabili punti di raccordo tra passato, presente e futuro: traghettano ed aprono una strada, nello stesso tempo rendendosi cassaforte di tante idee. Mauro Berruto scrive a proposito dei Maestri:

“Tutti siamo cresciuti incrociando sulla nostra strada persone che ci hanno insegnato delle cose. Spesso da adulti (che è proprio quel momento in cui, finalmente, si può vedere il quadro dalla distanza di cinque metri) abbiamo capito più distintamente che qualcuno di quei maestri ci aveva davvero cambiato la vita. Un familiare, un insegnante, un allenatore. Qualcuno a cui abbiamo riconosciuto un carisma, in cui abbiamo intravisto una magnitudine intellettuale o addirittura spirituale. Qualcuno di cui ci siamo fidati e a cui ci siamo affidati, qualche volta anche incondizionatamente, semplicemente convinti del fatto che la parola del nostro maestro fosse in qualche modo così autorevole da non poter essere messa in discussione...”

Chiedo scusa a Mauro Berruto se approfitto di queste sue meravigliose righe, ma questo è il significato di Maestro e di cosa Riccardo Sales “semplicemente” ha rappresentato per me. E non solo per me. Perché quando un maestro se ne va, senti la mancanza di un interlocutore di cui riconosci la statura morale, culturale e pure fisica (perché quando ti abbracciava ti faceva sentire all’interno di una custodia confortevole e inattaccabile).

Quando “partì”, sollevato dai dolori di quel male carogna e impietoso era il maggio del 2006. Fra un po’ saranno 13 anni. Tanti. Lo conobbi e mi riconobbe 12 anni prima, nell’estate del 1994. Era stato appena nominato CT, per una felicissima intuizione del presidente Petrucci che individuò in lui un possibile volano del settore femminile. Il primo in assoluto che dal mondo del settore maschile entrava in quello femminile; come lui, anni più tardi, altri grandi allenatori come Ticchi, come Capobianco, come ora Crespi. Era una novità, ed una novità ero anche io per lui. Io umile allenatore di club da riconoscere. Letteralmente. E per riconoscere qualcuno cosa c’è meglio di una fotografia? Ecco perché mi aspettava con una foto presa da un vecchio Giganti, la bibbia cestistica di allora: “Sei molto meglio in fotogVafia…” e in un attimo seppe annullare qualunque distanza. Jovanotti allora cantava “Penso positivo”: Riccardo era la positività.

Primo raduno a Norcia (già, la meravigliosa Norcia ora così ferita…) e subito dopo partimmo per S. Pietroburgo, obiettivo Goodwill Games, una di quelle manifestazioni che ai tempi, a volte, nemmeno apparivano nel curriculum di una Federazione. Volammo con una squadra sperimentale. Lui, carico di entusiasmo virale, voleva confrontarsi. E capire, non giudicare; voleva essere sempre “dentro” la vita, mai all’esterno, ed io in quel debutto gli ero di fianco, come lui lo era stato ai grandissimi del basket: grandi Maestri anche loro. Sentivo di non voler perdere nemmeno un’istante di quella irripetibile frequentazione. L’impatto del torneo fu terribile: Stati Uniti, Russia e Canada ci passarono sopra.

Riccardo aveva bisogno di capire meglio e per una notte “ripassammo” il basket femminile. Con una tuta grigia e le sue ciabatte che alleviavano il malessere dei suoi enormi piedi dolenti, mi travestii da umile Virgilio: raccontavo al Sales/ Dante l’inferno, il purgatorio e il paradiso di quel movimento anni 90. Raccontai stili di gioco, protagoniste e protagonisti, attori e attrici e autori, metodi e peccati. Lui se ne stava seduto con un blocco notes sulle ginocchia vecchie, come amava definirle. Stilammo una lista infinita di atlete: qualcuna l’avrebbe comunque vista di sfuggita, ma l’ansia era quella meravigliosa di non trascurare nessuna, per sapere sempre e con chiunque di chi e di cosa parlare. In quei Giochi c’erano giocatrici che poi avrebbero fatto storia, anche da noi e per noi: Lisa Leslie, Sheryl Swoopes, Katie Smith, Dawn Staley; e poi Isabelle Fijalkowski, Melain, Antipova, Boucher, e Bonfiglio, Balleggi, Caselin, Paparazzo, Rezoagli, Adamoli, Zara! Non ci fu gloria, ma punto di partenza di un progetto di lavoro di un Uomo meticoloso, sereno e chiaro come la sua scrittura, che sembrava stampa gradevole. Lavoro, lavoro, lavoro fino alla vigilia dell’Europeo di Brno, anno 1995. Mara Fullin, una delle colonne non c’è. Un lutto terribile ed ingiusto le toglie una sorella adorata e la gioia del gioco. E di quei momenti di dolore ho un’immagine nel cuore e negli occhi. Di fronte alla laguna, nel sole e nel vento, come in un olio su tela, vedo ancora adesso l’abbraccio di Riccardo a Mara: un abbraccio di un affetto paterno nel giorno invece più buio nei colori quasi crudeli di un cielo limpido. Nella grigia Brno, campionato europeo, la sua “competenza di un altro mondo” (parole di una grande del basket, Cata Pollini) fece si che in quei giorni luminosi la femminile fosse sorella del maschile, finalmente basket e non pallacanestro. L’Italia del Barone vinse l’argento con milioni di occhi davanti alla tv, e il diritto di giocare un’Olimpiade. Era un sogno? Se lo era, comunque quel sogno continuò con l’Universiade in Giappone, con Marta Rezoagli a correre intorno al campo con la bandiera in mano, immagine felice e per niente confusa di un legame strettissimo con la maglia azzurra.

Il tempo vola, ecco l’Olimpiade: il sogno di ogni sportivo. 21 giugno 1996. Italia nel girone con Brasile, Russia, Giappone, Cina e Canada. Avversarie forti, ma l’Italia di Sales ha fiducia. Esordio e Cina battuta (62-53)! Seconda partita e il Canada si arrende; si lotta alla pari con la Russia e si è superati 75-70; riscatto con il Giappone e poi il Brasile ci sorpassa all’ultimo giro di lancette. Ma è qualificazione, comunque. Ecco i quarti: ci tocca ancora una volta l’Ucraina che all’europeo ci aveva battuti in finale. Sconfitta, ma quel che più conta è la partita che sentenzia che nulla sarà più come prima. La favola, amaramente, si tramuta in storia: incomprensione, stanchezza, interesse. Nulla, appunto, resta uguale. Altri due europei: Budapest e Poznan coincidono con due undicesimi posti, con gruppi in rinnovamento. Lo stesso mondo che aveva accolto Riccardo come un salvatore, lo trasforma in demone. Ironia della sorte: Sales fu “rimproverato” di aver spinto le “sue” giocatrici italiane a scrivere contro l’aumento delle straniere dell’allora campionato. Quello che adesso viene sentito spesso come una legittima necessità (spazio ai nostri giocatori/giocatrici) o quantomeno un sensato argomento di discussione allora lo portò dal paradiso all’inferno, usando una scala mobile ormai solo settata sulla discesa. Viene cancellato il ricordo, e la riconoscenza lascia il posto all’arroganza, quasi al fastidio. L’autoreferenzialità vince la partita, senza neanche bisogno di un supplementare. Lo andai a trovare l’estate successiva all’uscita dalla nazionale: era al camp del figlio, Andrea. Barba lunga, provato: il male cominciava a bussare alla porta del suo corpo. Mi poggiò addosso gli occhi tristi e le mani grandi e mi baciò. La rabbia, il dolore, l’amarezza che aveva dentro aprirono definitivamente quella porta. In quegli anni ci sentivamo per gli auguri, per qualche rapido ricordo: l’affetto e il legame rispettoso di sempre. La solitudine inframmezzata dalle considerazioni sull’impossibilità di vivere questo mestiere come insegnamento, schiavi del successo a tutti i costi. Controcorrente, perché Lui era Uomo senza peli sullo stomaco, che non ha mai accettato il valore sempre attuale del “fine che giustifica i mezzi”, della furbizia come qualità principale. Riccardo sapeva arrivare all’anima ed apprezzarla. Scriveva alle sue ragazze alla vigilia delle Olimpiadi di Atlanta: “Vi auguro Olimpiadi indimenticabili e poiché la squadra è composta da persone estremamente razionali, per questa volta ci accontentiamo di una impresa impossibile”.

Lo sentii un’ultima volta, poco prima della sua morte. Lo sapevo malato, ma non mi lasciò chiedere di lui: voleva sapere di me, del mio fare ed essere, il suo male veniva dopo. In silenzio, nel mese delle rose, se ne andò. Al suo funerale, con poche persone e tante, troppe dimenticanze, piansi come poche altre volte. E ancora adesso ne sono orgoglioso.

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