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DA UN RUOLO ALL'ALTRO
from PINK BASKET N.11
by Pink Basket
DA UN RUOLOALL’ALTRO
IL PASSAGGIO DAL PARQUET ALLA SCRIVANIA O DAL CAMPO ALLA PANCHINA NONÈ FACILE, PORTA CON SÈ TANTE NUOVE SFIDE. MASCIADRI, GORLIN, MENEGHELE GIANOLLA CI RACCONTANO LE LORO. IL COMUNE DENOMINATORE? L’AMORE SINCEROPER LA PALLACANESTRO E LA VOGLIA DI RIMETTERSI IN GIOCO
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FOCUS di Alice Pedrazzi
Dal campo alla scrivania. Biglietto di sola andata. Il ritorno, in questo caso, non è mai previsto. E’ forse per questo che la decisione di smettere i panni del giocatore risulta difficile, sofferta, pensata e ragionata. Il talento sta nel scegliere il momento esatto: non un attimo prima, non uno dopo. Dare al campo tutto ciò che si ha, fino all’ultimo, non chiedere al campo (ed a se stessi) ciò che non si può più dare. Nella vita di un atleta, o meglio, di chi è atleta da una vita, è senza dubbio questa la decisione più difficile da prendere, perché porta con sé tutti quegli interrogativi che per anni sono rimasti sopiti, forse scacciati, a volte negati: cosa saprò essere e quanto varrò fuori dal campo?
Il campo è casa, per un atleta, prigione e rifugio al tempo stesso. Abbandonarlo è un passo che si fa con titubanza, perché ci si va a posare su un terreno sconosciuto. E’uscire, come direbbero i formatori aziendali d’oggi, dalla propria “comfort zone”. Nel caso del nostro piccolo (e bel) mondo dei canestri, il materiale su cui poggiarsi, almeno, è lo stesso: dal legno del parquet a quello della scrivania. Ma la differenza di posizione costituisce un cambiamento radicale: dal correre da una parte all’altra del rettangolo di gioco senza pensieri (perché il più delle volte meno si pensa, meglio si gioca), al dover ragionare di organizzazione, di programmazione, di metodi di allenamento. Il cambio di prospettiva con cui si guarda il campo è totale. Per questo il passaggio è tutt’altro che banale e l’automatismo “grande giocatore-ottimo dirigente” o “grande giocatore-allenatore vincente” non è mai esistito. Mentre esiste forte una correlazione tra alcuni tipi di atleti - volitivi, determinati e con una prospettica e ben chiara visione di ruoli e responsabilità - e la capacità di portare con successo queste doti, unitamente a quelle di chi è abituato ad allenarsi e far fatica per raggiungere dei risultati, anche dietro una scrivania dirigenziale o su una panchina.
Guardando al giardino di casa nostra, vediamo fiorire sempre più rose che sbocciate sui campi, stanno portando un profumo di professionalità e visione, anche nelle stanze dirigenziali ed in quelle tecniche. C’è chi lo fa ormai da molto tempo, come Lidia Gorlin, ex capitana della Nazionale, playmaker della Vicenza d’oro, 10 scudetti e 6 Eurolega nel suo scintillante palmares, che dal 2006 dirige le operazioni organizzative del Basket Le Mura di Lucca; chi può cominciare a vantare adesso una discreta esperienza, come Roberta Meneghel, che dal 2013 è dirigente della Reyer Venezia, ultima sua “famiglia” da atleta, che l’ha adottata anche per il post campo; e chi ha appena iniziato: Raffaella Masciadri, capitana azzurra e neoscudettata con Schio, dopo aver messo il punto sulla sua carriera da record (15 scudetti, 10 Coppa Italia, 13 Supercoppe, 1 Eurocup) è andata subito a capo, diventando Team Manager di quelle che fino a giugno erano le sue compagne di squadra o Angela Gianolla, play dalle mille battaglie e i tanti successi che, appena conclusa l’ultima stagione a Ragusa, è volata a Bormio, al corso di allenatori nazionali, per poi tornare in Sicilia, dove il coach che l’ha allenata fino all’ultima finale scudetto, l’ha voluta come sua assistente.
Storie e tempi diversi, per queste quattro donne di basket, simbolo di molte altre che stanno facendo altrettanto bene in ruoli lontani dal parquet (come Giulia Gatti, vice allenatrice in A2 a Crema, Guia Sesoldi che si occupa della comunicazione di Empoli, Mascia Maiorano dirigente a Costa o Francesca Zara impiegata nello staff azzurro…), ma con più di un minimo comune denominatore, partendo dalla passione massima per uno sport che diventa motivo di vita. In ogni discorso, con Lidia, Roberta, Raffaella o Angela emerge forte l’amore sincero per la pallacanestro e la voglia di rimettersi in gioco, anche dopo aver chiuso la parentesi forse più esaltante, quella del basket giocato. “Sono cresciuta masticando pallacanestro dentro e fuori dal campo – racconta Roberta Meneghel, parlandoci della pallacanestro vissuta come “storia di famiglia” -. Ho attraversato le vicissitudini di mio papà da giocatore, allenatore e direttore sportivo, per cui forse ho sempre avuto un po’la mentalità dirigenziale”. Che l’ha aiutata in un passaggio non facile, segnato da alcune difficoltà, come quella che racconta l’ex capitana azzurra Masciadri: “La cosa più difficile? – dice sorridendo “Mascia” – accontentare tutte e tutti”. Già, perché sul campo sei protagonista e sei abituata ad avere “altri” che pensino a come metterti nelle condizioni migliori per giocare ed esprimerti al massimo, quando si passa dall’altra parte della scrivania, invece, i ruoli si ribaltano: “Al rispetto dei ruoli – confida Angela Gianolla, neo vice del suo ultimo coach, Recupido, sulla panchina di Ragusa – sono particolarmente attenta. E’ vero che in questa fase alleno 5 delle mie ex compagne, per cui potrei vivere lo spogliatoio con loro ed in parte lo faccio anche, condividendo alcuni momenti dopo gli allenamenti. Ma sto anche attenta a non confondere i piani, perchè all’ interno di un sistema che funziona, ognuno deve avere bene in mente il proprio compito”.
Ce l’ha chiarissimo Lidia Gorlin, artefice della meravigliosa storia sportiva de Le Mura che, dopo aver portato (nel 2006) a Lucca Mirco Diamanti, rinunciando al ruolo da allenatrice che fino a quel momento aveva svolto, si siede alle scrivania e programma, a quattro mani con il coach di Carrara, una ascesa che dalla serie B arriva al tripudio tricolore del 2017. “Un successo meraviglioso, quello dello scudetto – ricorda Gorlin -, soprattutto perché arrivato a coronamento di un cammino fatto di piccoli passi e grandi risultati, costruito a quattro mani con Mirco (Diamanti, ndr) che però, almeno a livello personale, non è paragonabile alla gioia travolgente provata quando si vince da giocatore”. Proprio Gorlin, giocatrice, allenatrice e oggi dirigente, offre uno spaccato incisivo delle differenti prospettive di ogni ruolo: “Da giocatrice provi delle emozioni totalizzanti, da allenatore sei un corpo unico coi giocatori e sei coinvolto fortemente, da dirigente sei un corpo alleato dell’allenatore, senti che il tuo ruolo è importante per la squadra, ma hai una angolazione un po’ più esterna”.
Una visione differente che pone chi decide di compiere il passaggio dal campo alla scrivania o dal campo alla panchina, davanti a sfide diverse, alcune previste, altre meno: “Avevo previsto che fosse una sfida e io “gioco” per vincere – confessa Meneghel - per cui mi sento a mio agio. Non avevo però immaginato che le gioie delle vittorie e il dolore delle sconfitte si amplificassero così tanto”.
Anche per Angela Gianolla, qualcosa di inaspettato: “Sono lentissima! Per preparare un allenamento di 10 minuti ci metto anche tre ore. Forse vado troppo alla ricerca della perfezione, ma davvero impiego tantissimo tempo…”. Anche Masciadri racconta, scherzando, di un qualcosa di inaspettato: “Non avevo certo messo in conto di dover cambiare telefonino e computer dopo un solo mese di lavoro perché già fusi! Mentre mi aspettavo di passare molto più tempo in palestra, rispetto a quando ero “solo” una giocatrice”. Già, il tempo. Un’altra costante che ritorna: “Non avevo valutato – confessa Gianolla – di quanto tempo, anche fuori dalla palestra, questo lavoro possa occuparti. Molto più di quello che prima dedicavo al campo”. E poi aggiunge una bellissima dichiarazione d’amore per il basket: “Ma sono felice, perché mi piace pensare alla pallacanestro e ragionare di pallacanestro a tutto tondo”. Una passione che per Meneghel è forse addirittura cresciuta nella metamorfosi giocatrice-dirigente: “Ho sentito ancora più forte il senso di appartenenza alla famiglia Reyer – racconta Roberta -. Un senso di responsabilità forse maggiore di quando giocavo, il che può sembrare strano ma è come se sentissi il dovere di far di tutto per non deludere la società e chi, come Brugnaro, Casarin e DeZotti, ha puntato su di me”. Questo senso di attaccamento allo sport ed alle squadre che sono state casa e famiglia per anni lunghi come una vita, quella da giocatrice appunto, permette a chi abbandona pantaloncini e maglietta per mettersi tailleur o tuta da allenatore, di avere una comprensione complessiva dei problemi di chi il campo lo calca.
Forse è anche per questo che Gianolla si rende conto che “i consigli o le cose dette da me sul campo, vengono presi in grande considerazione dalle ragazze. Anche per questo, credo, Recupido e la società hanno deciso di darmi questa grande occasione, per il mio modo di comunicare con le ragazze”. Anche Gorlin, nel suo approccio da dirigente, si è portata qualità che aveva sul campo: “Il ruolo di playmaker – racconta Lidia – per me non è mai stato molto complicato, perché ho sempre avuto una predisposizione mentale all’organizzazione. E’ questo stesso dna che mi ha aiutato anche nell’attività da dirigente”.
Già, perché il campo lascia un segno indelebile, che alle volte è dolcissima mancanza: “La competizione ed il lavorare quotidianamente di gruppo per il raggiungimento dell’obiettivo comune, mi mancano molto”, dice Masciadri. Che poi aggiunge: “Anche lo spogliatoio e quel legame intimo che si crea tra compagne di squadra è certamente una assenza”. Le fa eco Gianolla: “Mi manca sudare insieme alle mie compagne. Quel faticare che crea rapporti solidi ed importanti…”. Una mancanza che l’esperienza insegna a sdrammatizzare con un sorriso: “Mi manca l’odore del pallone tra le mani – dice Meneghel – e la sensazione di sfida ogni qualvolta che iniziava la partita. Ma per fortuna il parquet lo calco lo stesso... Coi tacchi!” Già, perché giocatrici quando lo si è per un giorno, lo si è per sempre.