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L’OPINIONE
CARO BIRRAIO, SVEGLIA!
Un suggerimento per i microbirrifici interessati a migliorare
Piccolo avvertimento: partirò dal presupposto, romantico ma probabilmente errato, che il successo professionale di un microbirrificio sia direttamente proporzionale alla qualità delle sue birre. L’aspetto economico, invece, meriterà qualche riflessione un po’ più approfondita su cui torneremo. Qual è, nel 2020, il valore qualitativo medio delle birre artigianali italiane? Rispetto a qualche anno fa oggi il movimento è senz’altro più maturo e il livello dei microbirrifici italiani si è sicuramente alzato, parallelamente alla crescita del fenomeno craft nel nostro paese e nel mondo. Schifezze abominevoli se ne scovano sempre più raramente e, mediamente, chi apre qualcosa la birra la sa anche abbastanza fare. Non mi vorrei addentrare in una stima della numerosità reale dei microbirrifici attualmente presenti sul territorio, la cifra cambia parecchio a seconda che si considerino o meno le
beer-firm e non le escluderei dal ragionamento. Diciamo 1500, beerfirm compresi, tanto per fare cifra tonda: la precisione, in questo caso, non è importante. Però ... quanti saranno, in percentuale, i produttori che veramente si stagliano ben oltre la soglia di una “aurea mediocrità”? Quanti, intendo, gli autori di birre davvero imprescindibili per le quali valga effettivamente la pena di muovere il sedere e recarsi al beershop o al pub di turno per spenderci allegramente i non pochi danari necessari, senza dubbi di sorta? Esagero e dico 150: il 10% rispetto alla stima iniziale. Come ho detto, sto esagerando. 150 nomi al di sopra di ogni sospetto esisteranno pure, ma sono abbastanza convinto che pochi di noi siano in grado di indicarmene tanti, tranne forse qualche ultras della categoria che probabilmente li includerebbe tutti. Attenzione, non mi riferisco a birrifici in grado di brassare roba potabile, quelli andavano bene dieci anni fa, ora la concorrenza - locale ed internazionale - è cresciuta esponenzialmente e per legittimare la propria esistenza sul mercato ci vuole di più. Attualmente quindi ci sarebbe un 10% circa dei nostri addetti ai lavori che se la cava bene: questa la tesi. Sempre più o meno gli stessi... nomi relativamente nuovi, in grande ascesa, non è che se ne vedano poi tanti: Mutnik, Altotevere, Bonavena, Della Fonte... pochini e ancora piuttosto distaccati dai grandi.
Allora, ci si potrebbe chiedere, cosa manca all’altro 90%, e ai novizi, per fare il salto di qualità? in teoria molte cose: tecnica, preparazione, professionalità, visione, approccio, passione, creatività. Ma in pratica? Una volta che l’impianto ce l’hai, o te lo forniscono e che il mestiere l’hai imparato e non è che ci voglia Leonardo Da Vinci, cosa servirebbe per puntare, se non all’eccellenza, almeno ad avere birre davvero buone e relativamente costanti? A mio parere una cosa, in particolare: la capacità di migliorar(l)e. E qua ho l’impressione che in molti si fermino. A volte per puro disinteresse, immagino, ma più spesso, ritengo, per una molto più prosaica inabilità sensoriale. Molti bravi birrai non sono degustatori altrettanto bravi e quei (pochi) che lo sono mostrano talvolta dei comprensibili limiti nel giudicare il proprio stesso lavoro e quindi ad ottimizzarlo. Eppure di degustatori più che decenti ormai in giro ce ne sono parecchi e molti di loro sarebbero sicuramente ben disposti a collaborare attivamente con i microbirrifici, anche solo - temo - per un tozzo di pane (raffermo). Pur con le ovvie differenze tra i due prodotti, mi sembra interessante far notare come, nel mondo del vino, la figura del Sommelier sia molto considerata, per non parlare del ruolo dell’enologo e credo che ben pochi produttori considerino l’assaggio come parte trascurabile della loro attività. Nella birra, invece, questo aspetto pare interessare a pochi. In generale, l’atteggiamento dei birrifici verso i degustatori fluttua tra la totale indifferenza e il malcelato fastidio, con punte di arroganza e di aggressività qualora qualcuno dei suddetti si permetta addirittura, in casi del tutto eccezionali, qualche velata critica. Perché? Personalmente direi che: ❱ il 30% dei produttori non ha mai nemmeno preso in questione l’esigenza di migliorare il prodotto, più preoccupati da questioni ben più fondamentali
tipo la grafica artistica dell’etichetta sulle bottiglie, o la scelta di un nome “geniale”; un altro 30% crede di fare già la birra migliore del mondo; il 15% lavora su margini di guadagno talmente risicati che rischia di capottare al minimo intoppo e il lusso di un consulente esterno non lo ritiene nemmeno considerabile; un altro 15% si rende conto del problema ma non si fida di nessun altro tranne sé stesso infine il 7% chiederebbe pure supporto a un degustatore, ma pensa che esista solo Kuaska!
Dal mio personale conteggio rimane escluso un 3% a rappresentare quei pochi birrifici illuminati che probabilmente si avvarrebbero, o già si avvalgono, di un taster; credo sia una stima per eccesso: tra i degustatori che conosco solo pochissimi, quattro al massimo cinque, svolgono FORSE (c’è un’omertà che non vi dico, nemmeno si trattasse di collaborare con la Sacra Corona Unita) un ruolo di questo tipo per qualche produttore. Eppure non ditemi che un microbirrificio di media qualità non avrebbe tutto da guadagnare nel farsi dare qualche suggerimento da gente tipo XXX (i nomi che avrei in mente preferisco ometterli, sempre in considerazione della “riservatezza” alla quale accennavo). C’è pure da dire che la categoria dei degustatori, oltre ad essere piuttosto eterogenea - ossia di affidabilità ovviamente variabile - fa spesso del suo meglio per rendersi invisibile agli occhi dei PRO, oppure tende a dimostrarsi talora un po’ troppo dedita all’esaltazione del prodotto artigianale a prescindere, piuttosto che ad una disanima critica un po’ più super partes. Anzi, ed è questo a mio parere il problema principale, è proprio il riferirsi ad una fantomatica categoria di degustatori (di birre) ad avere ancora - purtroppo - poco senso. Sparpagliati come siamo (mi ci metto anch’io) tra N associazioni diverse, grandi, medie, piccole e piccolissime, tutte più interessate a differenziarsi o in molti casi a barcamenarsi, piuttosto che a fare gioco di squadra, per provare a conferire una dignità ed un’utilità pratica ad un ruolo e a delle professionalità che ormai da tempo lo meriterebbero. Ma questo è un parere personale che non inficia la ormai evidente disponibilità di ottimi taster italiani, né la loro indubbia utilità potenziale in un microbirrificio; semplicemente risulta un po’ più difficile scovarli.
Ma torniamo brevemente al quesito iniziale: fare buona birra, paga? Ha senso, per un microbirrificio italiano del 2020, investire sulla qualità della propria birra? In termini “pratici”, intendo. Davvero, migliorare la propria produzione, da un punto di vista organolettico, rappresenta uno step utile verso un corrispondente riscontro in termini commerciali? Io direi di sì: fortunatamente, in un paese di buongustai come il nostro, la meritocrazia qualitativa esiste ancora. Non dico che il risultato sia garantito, puntare sulla sola qualità può non bastare. Un po’ di spirito imprenditoriale ci vuole, un pizzico di professionalità in quello che si fa, del resto non viviamo nel mondo dei sogni! Ma un prodotto valido è pur sempre una solida base sulla quale costruire e se non ce l’hai diventa tutto più difficile. Soprattutto ora. Qualche anno fa era un po’ diverso. Ad inizio millennio i pochi piccoli produttori che iniziavano ad affacciarsi sul mercato nazionale, sulla scia della novità e della scarsità di concorrenza, po-
tevano riuscire abbastanza facilmente a piazzare birre anche non impeccabili. Adesso c’è sicuramente più interesse, ma l’offerta è aumentata esponenzialmente, oltre le più rosee aspettative, e bisogna competere. Perciò, o sei un genio del marketing in grado di scovare valangate di clienti indipendentemente dalla qualità del tuo prodotto (e pochi lo sono: non è un tipo di professionalità facile da improvvisare ed è piuttosto oneroso costruirla da zero) oppure ti conviene - innanzitutto - provare a fare delle buone birre - e poi - lavorare per promozionarle, affinché il mondo se ne accorga. Ribaltare questa logica (prima la promozione, poi - eventualmente - la qualità), in genere non funziona. E comunque, se nella vita hai deciso di fare questo mestiere, non conviene provare a farlo bene, anche solo per soddisfazione personale? Stabilito quindi, che investire sulla qualità della propria birra sia effettivamente utile e accettando il presupposto che la collaborazione con un (bravo) taster rappresenti un possibile viatico per poter ottenere dei risultati in tal senso, resta da spendere qualche parola su come un rapporto di questo genere dovrebbe configurarsi, al fine di poter funzionare in maniera virtuosa. La mia opinione è che l’apporto del degustatore non possa prefigurarsi come una prestazione professionale occasionale, della quale il birrificio possa avvalersi una-tantum, a scatola chiusa, ma che vada piuttosto impostato come un percorso di affiancamento sul mediolungo periodo, orientato ad una crescita comune verso obiettivi condivisi fin dal principio e via-via reindirizzati, man mano che le due parti acquisiscono una sempre maggiore conscenza l’una dell’altra. Una jam session più che un assolo, volendo usare un gergo da musicofilo, durante la quale i due interpreti, virtuosi in modi diversi, possano influenzarsi a vicenda, avvalendosi del talento altrui per valorizzare ulteriormente il proprio e giungere ad un risultato complessivo maggiore dei singoli contributi. Un lavoro lungo e impegnativo, insomma, decisamente meno banale - e a buon mercato - della tipica consulenza on-demand alle quali siamo (poco) abituati, che vede il taster di turno, spesso a casa sua, assaggiare le 3-4 birre, speditegli chissà come, un singolo lotto, e compilare una scheda gustativa-olfattiva, magari anche ben fatta, ma a ben guardare abbastanza velleitaria, buona al limite per copiare due note sull’etichetta o sulla brochure di presentazione. No, per ottenere dei risultati utili il rapporto tra birrificio e taster deve essere continuativo, assiduo, simbiotico, esagerando un po’ oserei direi quasi morboso. Un lavoro impegnativo per entrambe le parti, è vero, ma in questo modo i risultati, ci scommetterei, non tarderebbero ad arrivare, sia in termini di miglioramento evidente del prodotto che di crescita professionale del produttore.
E giunti all’obiettivo, vuoi mettere la soddisfazione?
Insomma, caro birraio, sveglia! Ti basterebbe guardarti un po’ intorno per scovare qualche collaboratore valido e motivato che ti potrebbe aiutare a migliorare nettamente sia la tua arte sia le tue amate opere. Non mi pare una considerazione trascurabile: si tratterebbe di un cambio di prospettiva virtuoso, dal quale avrebbero un po’ tutti da guadagnare, l’intero settore della birra artigianale; a partire dal birraio, che migliorerebbe la propria produzione e la propria professionalità nonché, auspicabilmente, i propri riscontri. Il taster e le associazioni di riferimento che vedrebbero finalmente riconosciuta, concretamente, una professionalità oggettiva, maturata con impegno (anche economico) ma che attualmente pare non interessare a nessuno. E, ovviamente, anche il cliente finale, che trarrebbe beneficio da questa collaborazione, beneficiando di birre sempre migliori! ★