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TURISMO BIRRARIO

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L’INTERVISTA

L’INTERVISTA

C’ERA UNA VOLTA IN AMERICA: viaggio on the road a caccia di birra artigianale

Per molti gli Stati Uniti sono la culla della birra artigianale moderna. Nonostante si tratti di un prodotto importato è qui che, sotto l’impulso della sua fervida comunità di birrai casalinghi, si è fatta la “rivoluzione” artigianale, dando luogo a una tendenza che si è rapidamente propagata prima nell’enorme Paese e successivamente nel resto del mondo. Si è partiti dalle birre stra luppolate e si è arrivati alle modaiole spremute di luppolo, passando attraverso interpretazioni originali delle Saison belghe, che forse ha senso distinguere con il nome di Farmhouse Ale, fino ad arrivare alle birre a fermentazione spontanea, in passato esclusiva belga. C’è poco da fare: gli Stati Uniti sono una delle capitali mondiali della birra artigianale. Sognavo di fare un viaggio on the road negli Stati, anche a caccia di birra, da chissà quanto tempo. Probabilmente dal primo momento in cui ho iniziato a

La mappa dei visitatori del birrificio. L’Italia c’è!

ficcare il naso nel bicchiere, affascinato dai prodotti d’importazione e alimentato dall’entusiasmo dei miei vicini di bancone. Mi reputo oltremodo fortunato di avere realizzato questo mio piccolo desiderio prima del previsto e ben al di sopra delle mie più rosee aspettative: 42 giorni, 14 stati federali e circa 35 birrifici artigianali visitati. Un’esperienza che caldamente consiglio e di cui durante la lettura di questa raccolta di mirabolanti avventure spero di riuscire a trasmettervi parte del mio entusiasmo, assieme a qualche utile consiglio che non guasta mai. Ci siamo lasciati qualche mese addietro proprio all’inizio del viaggio, con il racconto della città di Filadelfia e i suoi birrifici. Stavolta si sale a bordo della macchina che ho noleggiato e che per circa un mese mi ha scorrazzato da una costa all’altra degli Stati Uniti. Rotta verso la Pennsylvania, alla scoperta di altri due birrifici artigianali: Pennsylvania

Brewing Company e Tröegs Indepen

dent Brewing. Prima però vorrei riportare un paio di constatazioni in merito alla birra artigianale negli USA. E’ veramente una delle capitali della birra artigianale mondiale? Assolutamente sì. Così come gli Stati Uniti dettano legge in molteplici settori, dall’esportazione delle derrate alimentari all’economia fino alla musica, idem con patate vale per la birra artigianale. Esattamente come i miei vicini di bancone, il prodotto che arriva da lontano ha un fascino eccezionale, talvolta esagerato, qualche volta giustificato dall’effettiva bontà del prodotto. Tutti conosciamo la delicatezza del prodotto artigianale e le conseguenze di una spedizione dall’altra parte del mondo. I lunghi viaggi stancano e penalizzano le birre più delicate e quelle generosamente luppolate – la maggioranza. Eppure, nonostante ne siano consapevoli, le teste di luppolo continuano ad andare in brodo di giuggiole quando si tratta di assaggiare l’ultima arrivata da parte del birrificio “tal dei tali”. In verità

20 anni e non sentirli: la storia di casa Tröegs

vi dico che tra un prodotto esportato e un prodotto consumato in loco non vi è paragone. Me ne sarei accorto di persona, visitando un birrificio colossale come Stone, giusto per menzionare un birrificio rappresentativo, oggi sulle tavole e i banchi di molti italiani. Pur con le dovute misure ho dovuto rivedere molte posizioni personali in merito alla qualità di alcuni tra i più famosi birrifici americani. Per converso ci sono molti altri i quali, limitandosi ai pochi deludenti assaggi effettuati comodamente seduti da questo lato del globo, basano la loro conoscenza del prodotto internazionale. Non è così che funziona. Viaggiare è prerogativa del cacciatore birrario, un dovere morale nei confronti dei produttori ma anche una fonte di autentico divertimento. Come potrebbe essere diversamente? Viaggiate che sennò poi diventate razzisti e finite per credere che la birra italiana sia l’unica che valga la pena assaggiare. Ma bando alle ciance, andiamo a scoprire i due birrificio dei quali ho fatto menzione poc’anzi. Allacciate le cinture: si parte! L’orgoglio di essere indipendenti: Tröegs Independent Brewing Mi trovo ancora nello Stato del Pennsylvania, poco distante – miglia americane parlando – da Filadelfia. Sono a Hershey, la città del cioccolato, a giudicare dalle insegne stradali. La conferma arriva dagli onnipresenti manifesti pubblicitari, sui quali è disegnata una barretta di cioccolato in stile fumetto che invita a visitare la più grande fabbrica di cioccolato degli Stati Uniti. Chi l’avrebbe mai detto che la fabbrica di Willy Wonka esiste davvero? Per fortuna il cioccolato non ha potere su di me e Hershey mi scivola addosso come pioggia su un impermeabile. La mia destinazione è un’altra: si chiama Tröegs. Un nome che tradisce origine nord europea, scandinava magari. E invece no: è americano a tutti gli effetti. E’ il cognome dei fratelli John e Chris Trogner. Sono loro i Tröegs della situazione, nome di fantasia che nasce dall’unione del loro cognome alla parola fiamminga kroeg (‘pub’).

Un dettaglio dell’impianto di produzione

Nati e cresciuti al centro del Pennsylvania, i due fratelli si separano per frequentare università diverse: Chris va in Colorado e John a Filadelfia. Proprio in Colorado Chris trova una fiorente attività birraria e, incuriosito da tutto quel fermento, si lascia contagiare. Inizia anche lui a produrre birra in casa. Ci vuole poco affinché anche il fratello John, incuriosito dalla cosa, lo raggiunga in Colorado. Assieme troveranno lavoro in un piccolo birrificio, ponendo le basi di quello che sarà il loro grande sogno. La primogenita fu la Tröegs Pale Ale,

prima di una lunghissima sfilza di

birre. Eppure, nonostante l’entusiasmo, i due fratelli devono presto affrontare la dura realtà. Il loro primo impianto di Harrisburg non era stato progettato per estendersi all’infinito e a un certo punto si trovarono con le spalle al muro. Il birrificio cresceva a vista d’occhio ma non abbastanza per soddisfare la più che crescente domanda. Appurato che quella situazione non sarebbe stata sostenibile a lungo decidono di ripensare la loro filosofia pro

duttiva e anche il modo di comunicarla. E iniziano a sperimentare. Nuove ricette, nuove tecniche, ingredienti insoliti: ogni birra viene dotata di personalità ed estetica grafica. La primogenita del nuovo corso è l’archetipo della rivoluzione Tröegs. Si chiama Troegenator, è una Doppelbock – ‘ator’ è il suffisso normalmente dato alle birre di questo stile – ed è considerata ancora oggi una delle migliori birre del birrificio. Dopo 15 anni giunge il momento di salutare e ringraziare Harrisburg. Ed ecco che il cioccolato torna in causa: nel 2011 il birrificio si trasferisce a Hershey proprio nella vecchia fabbrica di cioccolato. Mi sono reso conto di essere davanti a un birrificio diverso dal solito già prima di scendere dall’auto: dalla strada principale sono ben visibili i giganteschi maturatori posti all’esterno del birrificio. All’interno le dimensioni colossali non scherzano neppure. Esattamente all’ingresso, dove c’è una vera e propria reception, si trovano i giganti di legno: tre botti colossali delle dimensioni di 300 HL cadauna, le più grandi di tutti

Nella stanza delle meraviglie

gli Stati Uniti. La ragazza alla reception mi sorride e forse è una fortuna che mia moglie non l’abbia notato. Mi avvicino con disinvoltura e le allungo il mio biglietto da visita, annunciando il mio appuntamento con Jeff Herb, responsabile marketing. Avevo indirizzato la mia email a lui e l’aveva accolta con enorme entusiasmo. La signorina mi invita ad attendere, la mia visita era già stata annunciata. Dopo qualche minuto arriva Jeff: alto, classica camicia di flanella di colore verde e fantasia quadrettata, da vero boscaiolo; occhiali da vista, capelli ricci lunghissimi raccolti in una lunga coda. Un vero rocker, oppure un Roberto Baggio a stelle e strisce. Jeff, già autore del blog The Pour Travelers (antipodo americano di Birramoriamoci), mi ha accompagnato durante il tour del birrificio e di fronte a qualche birra della casa mi ha raccontato la sua storia. Appassionato di musica fin dai tempi del liceo e musicista in numerose band, è poi entrato nel circolo della birra artigianale. Galeotta fu la Wheat Beer della casa. L’assaggio gli ha rivoluzionato le papille gustative. E anche la vita. Jeff ha in

La tap room vista da una posizione privilegiata

terpretato quell’illuminazione come un segno del destino: lascia il suo vecchio (noioso) lavoro nelle telecomunicazio- ni e invia una candidatura spontanea al birrificio. I tempi devono essere stati azzeccati visto che oggi di quello stesso birrificio Jeff ne è ambasciatore. Nell’enorme capannone trovano posto due sale cotte separate: quella da 100 barili destinata alle birre a produzione stabile ed equipaggiata di hopback – si- stema per l’estrazione a caldo dei com- posti volatili del luppolo – e quella più piccola (15 barili), utilizzata per le birre sperimentali chiamate Scratch Beer Se- ries. Tra i due impianti trovano posto la Barrel Room e la Tasting Room, dove è possibile assaggiare le birre al massi- mo della loro freschezza. Ci sono anche una cucina, un forno per sfornare pane e derivati e una macelleria, dove vengo- no preparati alcuni piatti da asporto o da consumare in loco. Tutto viene pro- dotto internamente fatta eccezione per i Bretzel, dei quali Chris è innamorato e che pretende siano solo ed esclusiva- mente gli originali. Grande il birrificio, grande la gamma del- le birre: 17 le birre stabili, 4 le stagio- nali e tantissime le speciali. Perpetual IPA è tra le birre di maggiore successo ma la birra di bandiera rimane sempre e comunque la Sunshine Pilsner. Oltre alla linea Scratch ci sono la Splinter, de- dicata alle maturazioni in botte, e Hop Cycle, che dà voce al luppolo.

Gli assaggi

Green Beer (Hopback Amber

Ale), 6% ABV: si tratta di una bir- ra “verde”, ovvero non completa- mente maturata e pertanto dal carattere acerbo. Quasi completamente maltata, totalmente priva di carbonazione e con una presenza alcolica esuberante che brucia il palato. Immatura, certo, ma con un potenziale interessante che si evince dall’intensa nota di pompelmo, preludio di quello che sarà il suo carat- tere amaro a fine maturazione.

★ ★ ★

Juvial, Dubbel, 7%: la ricetta originale è stata realizzata in occasione del matrimonio di Chris. Agli ospiti è piaciuta così tanto da convincerlo a replicarla per il birrificio. Aroma dominato dal caramello con l’abbraccio di zucchero candito e un tocco di frutti rossi (amarene). In bocca è vivacemente carbonata, con l’indice puntato verso il profilo maltato, con note di caramello e accenni di cola. Meno intensa la frutta rossa, in compenso la birra si arricchisce del tocco croccante di nocciola e biscotto.

Perpetual IPA, 7.5% ABV: l’aroma è un invito a tuffarsi nel bicchiere. Luppolatura massiccia che non pregiudica l’equilibrio. Domina il carattere agrumato, che si riflette nelle note di buccia d’arancia amara e pompelmo. In bocca è virile, addirittura aggressiva, erbacea con un tocco di pompelmo. Finale secco e retrogusto amaro persistente. I malti possono solo accompagnare.

Sunshine Pils, 4.7% ABV: profumi delicati che coniugano pane e miele da una parte ed erbaceo dall’altra. Delicato anche il sapore, che si divide equamente tra malti (ricco miele) e luppoli (nuovamente erbaceo). Sempre il luppolo caratterizza il sottile ma persistente retrogusto. Una birra deliziosa, dal profilo apparentemente semplice ma dal carattere deciso.

Raspberry Bramble Gose (RBG),

4.5% ABV: inconfondibile la presenza dei mirtilli, dal carattere gelatinoso. L’immagine è quella di uno yogurt con topping di frutti di bosco. Meno edulcorata in bocca, dove l’acidità della frutta e quella lattica sono rese più vive da una leggera nota sapida, con i mirtilli che mutano consistenza da gelatina

Mrs. Heinz!

a bevanda. Il finale lascia una punta di sale sulle labbra e la voglia di berne ancora è tanta.

Troegenetor, Doppelbock, 8.2%

ABV: caramello e zucchero candito, con suggestioni vinose di Marsala. Basta il naso per percepirne la consistenza viscosa. Eppure in bocca si insinua agile e snella, qualche bollicina appena, di sensazione tattile vellutata. Ancora una volta caramello e biscotto. L’alcol accompagna l’intera sorsata, fa

vorendo la chiusura secca e ripulente e invitando a berne con moderazione, dopo aver vuotato il primo bicchiere.

Visitare la Troegs Brewery è stata solo la prima di una lunga serie di fortunati eventi. Quella sera io e Jeff abbiamo im

provvisato un bottle sharing a casa di un

amico homebrewer. Abbiamo stappato di tutto e di più, brindando all’inizio di un’amicizia. Un’amicizia di un solo giorno ma che sarebbe durata tutta la vita. Perché la vita negli Stati Uniti è così, esagerata, più di quella del Blasco.

L’Oktoberfest che non ti aspetti: Pennsylvania Brewing Company

Dalla città di Filadelfia mi sposto verso Pittsburgh. A giudicare da Google Maps le due città sono vicine. Peccato che negli Stati Uniti il concetto di vicinanza è destinato inesorabilmente a fallire. Qui le distanze si misurano in miglia anziché km e mettersi in macchina, qualunque spostamento si consideri, significa anche trascorrere ore e ore nell’abitacolo. In compenso la guida negli Stati Uniti è semplice: basta piantarsi sulla corsia di destra, spingere l’acceleratore fino alla velocità di crociera, inserire il cruise control e godersi il viaggio con una mano sullo sterzo e l’altra fuori dall’abitacolo. La strada corre dritta e inesorabile, fino all’orizzonte. Le corsie sono enormi e non si corre rischio di emozionarsi. Il mito della Mother Road, la famosa Route 66 americana, vive ormai di vecchie glorie, memoria di tempi in cui le strade avevano ben altra forma. Due cose interessanti sulla città prima di procedere alla visita del birrificio. In

Dal menù: maialino arrosto tagliato sottile su un letto di patate fracassate e verdure al vapore

città si trova il Museo della Birra, dove è possibile vivere un’esperienza ludica sulla falsariga della Rock’n’Roll Hall of Fame. Inoltre ha qui sede il Heinz History Cente, ex fabbrica trasformata in un museo di cinque piani che raccontano

Il fiore all’occhiello della Penn Brewery: le gallerie di pietra sotterranee. Perdonate il caos!

250 anni di storia dell’azienda Heinz. E guarda caso il birrificio si trova esattamente di fronte a una delle fabbriche dell’azienda del ketchup e dei fagioli in scatola. Arrivo alla Pennsylvania Brewing Company, per gli amici Penn Brewery, in un tiepido primo pomeriggio, in corrispondenza dell’ora di pranzo. Una grande fortuna, cosicché la visita si trasforma nell’occasione per fare una pausa pranzo pantagruelica come solo la cucina tedesca può fare. Ciò che infatti carat

terizza Penn Brewery è l’identità tede

sca, che si riflette nella gamma birraria, nell’arredamento bavarese e nella cucina opulenta. Non solo: proprio quel giorno il birrificio era in fermento e quella sera sarei stato ospite dell’edizione annuale del tradizionale Oktoberfest. Ciliegina sulla torta? Quella sera ho dormito all’interno dei locali dismessi del birrificio, mentre tutt’attorno la birra scorreva a fiumi. Ma andiamo per ordine. Il nome Penn Brewery esiste dal 1986 ma è dal lontano 1848 che in questo luogo si produce birra. A quei tempi le famiglie Eberhardt e Ober emigrarono dalla Germania ad Allegheny, successivamente rinominata Pittsburgh, nel quartiere olandese, dividendo lo spazio con colossi dell’industria alimentare del calibro di Heinz. E sono gli stessi dove venne prodotta per la prima volta la Samuel Adams Boston Lager, altra birra che ha fatto la storia della birra artigianale americana. Sebbene nel tempo si siano successe diverse società, gli edifici originali sono rimasti integri, splendidi esemplari di architettura iscritti al registro nazionale degli edifici storici. Al loro interno ci sono ancora gallerie e caverne di pietra, tali e quali alle Keller tedesche, originariamente utilizzate per la maturazione a freddo tipica delle birre a bassa fermentazione – una tradizione che mette radici nella storia antecedente alla rivoluzione industriale e all’introduzione del raffreddamento elettrico. In origine era una sola birra, la Penn Pilsner, prodotta presso impianti esterni. Quella stessa etichetta è oggi la birra di bandiera. Nel frattempo sono arrivati un birrificio e un ristorante. La doppia apertura ha reso Penn Brewery il primo brewpub del Pennsylvania dalla buia epoca del proibizionismo. Aperto come birrificio tradizionale e im

prontato sulle birre a bassa fermen

tazione, prodotte nel rispetto dell’Editto di Purezza tedesco (Reinheitsgebot), il birrificio ha progressivamente diversificato la sua gamma includendo birre luppolate più affini coi moderni palati americani e birre con ingredienti inconsueti come cioccolato e zucca. Anche la cucina, che comprende tutti i grandi classici teutonici, gioca ad asso raccogli-tutto: ci sono wurstel e schnitzel ma anche pierogi e goulash della cucina dell’est Europa.

Tutti ai posti di combattimento in occasione dell’imminente Oktoberfest

Nella formazione originale della Penn Brewery c’erano Tom, originario di Georgetown, e Alex, birraio. A loro si è recentemente aggiunto Nick, attuale birraio, altro pezzo di Germania trapiantato negli Stati Uniti, che avrei rivisto qualche giorno più tardi presso la Chestnut Brewery del Missouri. Bisogna invece aspettare il 2009 per l’arrivo di Corey e sua moglie Suzanne, coloro i quali mi hanno fatto da guida nel birrificio. Il brewpub si sviluppa su due ambienti diversi: internamente, in una grande sala su due piani in cui spicca il brillante colore rame dei condotti e dell’impianto, visibile oltre la parete di vetro; all’esterno, intorno all’edificio, dove si trovano il ristorante e il biergarten.

Gli assaggi Come ogni buon Oktoberfest quella sera la birra è andata via a fiumi. Per l’occasione era previsto il pratico formato tanica di plastica, modello Latte Più. Per fortuna sono riuscito a raccogliere qualche appunto di degustazione prima che il misto di stanchezza, sonno ed ebrezza prendessero il sopravvento.

Birra Oktoberfest, Märzen, 5.5%

ABV: colore rame brillante e cappello di schiuma pannosa colore perla. Il profilo organolettico è un tripudio di malti, in particolare frollino, pane tostato e biscotto, con una sfumature di miele. In bocca si insinua agile e snella, scorre come il velluto e prima del commiato lascia briciole di crosta di pane, di consistenza fragrante, assieme a note di caramello, delicata frutta secca (nocciola) e leggero biscotto. Inusuali esteri fruttati, memoria di banana.

Penn Pilsner, 5% ABV: crea confusione il fatto che, nonostante il nome, la birra di bandiera sia in realtà una Vienna Lager. Giustificato allora il colore ambrato limpido. I luppoli tedeschi (Hallertau Perle, Hallertau Tradition) rappresentano il punto di forza. L’erbaceo è la nota di testa, mentre frollino, caramello e crosta di pane occupano il secondo posto. Il sapore è eccezionale. Inizialmente il vibrante erbaceo, poi la carezza del caramello, una combo che lascia sbalorditi. Dopodiché l’erbaceo tornerà tenacemente a conquistare il palato.

Curl of the Burl, Schwarzbier,

4.9% ABV: in ricetta ci sono malti Pilsner, Munich, Cara, Chocolate e luppoli Perle. Il colore è il classico “falso” nero, di fatto ebano, limpido ma percepibile solo in controluce. Al naso emergono timide tostature (cacao e cioccolato al latte) con accenni di sciroppo di liquirizia. In bocca si risulta morbida e cremosa, meno tostata del previsto e più ricca di note caramellate. Pasta frolla, liquirizia, cioccolato al latte arricchiscono il sorso. Sfumature di luppolo, erbacee e speziate, hanno il compito di bilanciare e ripulire, contrastando la generale dolcezza e regalando freschezza.

Il cibo ha giocato un ruolo determinante per farmi calare nella festa. A pranzo uno stufato di carne di maiale con contorno di patate frantumate, a cena un gigantesco wurstel con crauti. Ma la ciliegina sulla torta è stato, come anticipavo, l’alloggio. Corey e Suzanne mi hanno presentato la possibilità di dormire all’interno dell’edificio, nella sua parte storica, inaccessibile al pubblico. Ovviamente ho accettato e quella sera ho dormito beatamente, circondato dai rumori della festa e da birra che continuava a scorrere a fiumi. Mistico!

Birre di ottima fattura, magari più edulcorate delle originali della Germania. Una licenza poetica che si può concedere, a fronte del rispetto dell’eredità tedesca. L’abbondante

Il latte che vorrei

Non è un vero Oktoberfest senza wurstel e crauti

impianto maltato è reso digeribile da un livello di attenuazione da manual e il risultato sono birre leggere, facili da bere e oltremodo gustose. Dal Pennsylvania è tutto, o quasi.

Dove: 800 Vinial St, Pittsburgh, PA 15212, Stati Uniti ★

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