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Le birre analcoliche UNA NUOVA FRONTIERA
birre artigianali in lattina, anch’esse all’inizio identificate con le mass market lager delle multinazionali ma che ora stanno riscuotendo un inarrestabile successo: molti nuovi birrifici e beer firm partono commercializzando esclusivamente lattine e altri produttori, anche tra i pionieri, affiancano lattine alle loro tradizionali bottiglie che agli albori del movimento rappresentavano, per foggia e design, uno dei nostri aspetti più riconoscibili.
Ricordo nitidamente la data dell’11 aprile 2004, domenica di Pasqua. Mentre a casa mia stavano impiattando il leggendario agnello al forno di mia mamma io, in volo verso San Diego, toglievo con terrore la copertura di stagnola che purtroppo liberava il contenuto del simil-pranzo fornito dalla Delta Airlines. Era la mia prima volta come giudice alla World Beer Cup. Non potrò mai scordare il mio primo tavolo di degustazione: non solo per il parterre de Roi con il mio Maestro Mi- chael Jackson in testa, ma anche per le prime birre che dovemmo valutare che, con mia somma sorpresa, erano quelle della categoria 1, cioè le analcoliche! Immagino che come me, all’epoca, la maggior parte degli addetti ai lavori e gli appassionati identificassero le birre analcoliche con quelle inodori e insapori proposte dalle multinazionali. E infatti quella convinzione fu totalmente confermata dalle medaglie assegnate in quella occasione. Riscontro delle chiare analogie con l’avvento delle
Tra mille difetti, uno dei pregi che mi viene riconosciuto riguarda la mia apertura mentale verso innovazioni che portino a un cambiamento di mentalità. Farò l’esempio del fenomeno del caffè in capsule, ormai da tempo affermatosi nel nostro Paese: tanti anni fa assistetti alla presentazione di una start-up per il lancio nel mercato italiano del caffè in capsule, ideato negli anni Ottanta dall’ingegnere svizzero Eric Favre. Il relatore fu deriso un po’ da tutti e uno dei presenti predisse un flop sicuro, citando addirittura Eduardo De Filippo nella famosa scena del balcone in “Questi fantasmi” dove, con la sua inimitabile flemma, si prepara un caffè seguendo un rituale a dir poco maniacale.
Seppur nel nostro campo le cose siano velocemente cambiate, ancor oggi vengo visto con diffidenza quando affermo in pubblico che le birre artigianali analcoliche non saranno una nuova sfida futura ma che rappresentano già una realtà da tenere in grande considerazione e in rapido sviluppo. Permettetemi una semplice considerazione: non capisco perché un appassionato non abbia il diritto di reperire birre analcoliche di accettabile qualità se per motivi di salute, per il mettersi alla guida, dopo un’attività sportiva o perché si torna al lavoro dopo la pausa pranzo o, nel caso di una donna, che sia in stato interessante, non possa tranquillamente bersi un paio di birre, meglio se buone.
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Zero alcol, zero gusto?
Ho volutamente scritto “di accettabile qualità” in quanto le prime non industriali che assaggiai negli anni Ottanta e Novanta, perlopiù bavaresi da agricoltura biologica, trovate esclusivamente in negozi salutistici ed erboristerie, rappresentavano già un bel passo in avanti ma non potevano ancora certo reggere il paragone con le artigianali alcoliche di bassa gradazione: avevano corpo troppo esile e tenue intensità degli aromi percepiti, dei gusti e delle sensazioni boccali. Il cambiamento era però nell’aria e, a parte interessanti ma sporadici tentativi, chi se non i lungimiranti visionari, imprenditori punk del birrificio scozzese Brewdog potevano scioccare il ristagnante mondo delle birre? Ed ecco che, come una bomba, arrivò nel gennaio 2020 la notizia dell’apertura, a Londra in Old Street, dell’AF (Alcohol-Free) bar che serviva solo birre di ABV (Alcohol by Volume) inferiore allo 0,05%, limite al di sotto del quale in alcuni paesi come il Regno Unito una bevanda è considerata analcolica. Amici del CAMRA (Campaign of Real Ale), del quale faccio parte da sempre, mi confermano che nel Regno Unito si definisce “Alcohol-Free” una birra non oltre lo 0,05% ABV, “De-Alcoholised” non oltre lo 0,5% ABV e “Low-Alcohol” non oltre l’1,2% ABV.
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Come si sa, io assaggio tutto, dalle birre degli hard-discount ai più celebrativi e classici capolavori e lo stesso faccio per le birre analcoliche. Sono già terribili quelle analcoliche industriali di prima fascia, potete immaginare come siano quelle di seconda! Se nelle prime, le note di DMS ti aggrediscono come se si stesse bevendo il liquido scolato da una scatoletta di mais, nelle seconde, se possibile ancor più scarse di corpo, tali note interagiscono con quel poco di luppolo creando una sorta di vegetale bruciacchiato che preferiremmo non trovare. Se può sembrare difficile riconoscere una birra alcolica industriale dalle altre, in realtà ciò è possibile e ve ne darò un esempio concreto. Nel 2003, da delegato dell’EBCU, fui invitato al Festival di Hallein in Austria, vicino a Salisburgo. Tra le iniziative per il pubblico, gli organizzatori di Bier IG (associazione di consumatori austriaci), avevano organizzato una specie di concorso che consisteva nel sottoporsi ad una prova che, se superata, dava diritto a partecipare all’estrazione di premi, tra cui una fiammante moto. Tale prova consisteva nel degustare birre da cinque bicchieri: nei primi due la stes- sa birra, nel terzo e nel quarto un’altra birra e nel quinto una singola birra, non accoppiata, da riconoscere, così come andavano identificate le due coppie. Sembra incredibile ma la moto rimase al suo posto, non assegnata, in quanto, tra i visitatori, nessuno aveva superato la prova. Questo gioco-esperimento mi colpì e lo adottai in seguito per studenti e appassionati ricavandone un dato statistico interessante: la media di chi lo superava si attestava sul 20% ma se per il quinto bicchiere utilizzavo una birra “discount” la media saliva; molti riuscivano a identificarla, anche se magari sbagliando poi le accoppiate degli altri quattro bicchieri. Lo stesso lo volli fare un paio di volte con birre analcoliche industriali di prima fascia, senza però dire il tipo di birra, ma nessuno riuscì a completare l’esperimento. Pro- verò con un’analcolica “discount”: non credo però sia meno difficile da identificare a riprova della scarsa intensità di aromi e gusti presenti in tali birre. Intensità, complessità e carattere che però troviamo nelle prime promettenti birre analcoliche artigianali!
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Birre analcoliche: la nuova sfida
Da quando, dopo aver accettato e promosso le lattine, individuai nelle birre analcoliche la successiva nuova sfida ai pregiudizi, una serie di curiose coincidenze mi sono piovute addosso. Nei pochi ma significativi concorsi internazionali cui partecipo come giudice (oggi giorno ormai ce ne sono così tanti e quindi con così tante medaglie che sembra di essere entrati nel campo del wrestling) mi assegnano, sembra incre- dibile, sempre la degustazione di birre analcoliche. Per fortuna non più quelle insipide del mio primo tavolo di giuria del 2004! Inoltre, oggi sono chiamate “non-alcoholic new style”: penso che, in questo caso, l’appellativo “new” sia molto adatto in quanto non sono servite solo lager, come le prime analcoliche, ma birre dagli stili più disparati; in prevalenza IPA ma non solo, con sorprendenti novità come Imperial Stout e Abbey Ales!
Altre curiose coincidenze mi capitarono recentemente a Nashville, in occasione della mia partecipazione alla World Beer Cup 2023: dopo essere uscito dal Johnny Cash Museum carico di regali per mia nipote, fan del famoso cantante country, raggiungo gli amici in un locale nei pressi della Broadway. Scelgo una birra leggendo nel menù solo il nome “Golden”. Mi piacque e pensai fosse una session, invece scoprii essere una birra analcolica e pure gluten-free! Precisamente, la Upside Dawn con luppoli britannici e americani, dell’Athletic Brewing Company che ha due siti di produzione, a Mildford nel Connecticut e, in California, a San Diego. L’ultimo giorno a Nashville, poco prima della cerimonia di premiazione della World Beer Cup, i giudici possono assaggiare birre locali e a me cosa capita? Un’analcolica ovviamente!
Dal punto di vista prettamente olfattivo e soprattutto gustativo, denoto, almeno finora, una netta differenza tra le birre caratterizzate dall’impiego di una forte quantità di luppolo, American IPA in testa, e quelle con aggiunta di erbe, spezie, frutta, caffè ecc. Le prime reggono meglio l’inevitabile, seppur eterogeneo, paragone con le alcoliche, specie con le Session IPA, mentre le seconde, in genere, ma non tutte ovviamente, denotano una mancanza di equilibrio tra la già esile parte maltata, non sostenuta da un corpo adeguato e gli ingredienti in aggiunta: spesso questi risultano coprenti, tanto che a volte sembra di bere una bibita più che una birra.
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Dalla teoria alla pratica
Ciò gioca a favore dei tanti, spero solo temporanei, detrattori. Per spiegarmi meglio, propongo due esempi concreti, a mio avviso, sufficientemente indicativi, ricavati da mie esperienze personali con le due birre analcoliche che mi hanno maggiormente colpito, la prima caratterizzata da una generosa luppolatura e la seconda per la quale il birraio ha utilizzato numerosi altri ingredienti. La prima birra è la Coconut Grove, Juicy Pale Ale alkoholfrei di Kehrwieder Kreativbrauerei di Amburgo del geniale birraio, scrittore, storico e mio grande amico Oliver Wesseloh. Birra innovativa, un vero e proprio capolavoro a partire dall’olfatto con un bouquet esplosivo per un copiosissimo utilizzo di cinque luppoli che definirei “iene” come il Bru-1 portatore sano di ananas, il Galaxy con decise note di pesca, frutto della passione, guava e così via, il Sabro con cocco violento, Vic Secret (che ricorda il Topaz) con una macedonia di frutti tropicali e infine il Cryo-Talus che, grazie a Dio, conferisce gradite note fresche e floreali con punte di pompelmo rosa. Per fortuna Oliver ha fornito sufficiente corpo per sostenere un terrificante retrogusto grazie (o per colpa, a seconda delle opinioni) di un dry hopping da ultras dell’amaro. Vi ricordo che stiamo parlando di una birra analcolica che ho degustato con grande piacere tanto che, nel video che ho postato su Facebook e Instagram si nota che pensavo di bere una normale birra alcolica.
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La seconda birra si piazza invece agli antipodi della prima. Mi riferisco alla recente “new entry” Botanic, la prima birra analcolica griffata Baladin, da un’idea di Teo Musso, il birraio più geniale e visionario del nostro panorama artigianale. L’ho assaggiata per la prima volta a Rimini al Beer & Food
Attraction 2023 trovandola subito originale seppur in pieno stile Baladin: equilibrata, senza estremismi nell’olfatto e nel gusto nonostante venga definita “relaxing beer” e nonostante venga utilizzato un mix di erbe e spezie caratterizzate da note balsamiche e punte ficcanti come il coriandolo, la genziana, la passiflora e la canapa fresca come ingrediente principale. Superfluo poi sottolineare come gli ingredienti siano totalmente italiani, filosofia che Teo sente nel suo cuore e che ha sempre predicato. La Botanic non mi ha totalmente sorpreso perché Teo ha sempre dimostrato un amore e una propensione per l’utilizzo delle spezie, vocazione naturale per un birraio ispirato inizialmente dal mondo belga. Queste sue doti si sono rivelate decisive e vincenti per una birra unica, non paragonabile ad altre analcoliche.
Una nuova realtà
Ho preso come esempio queste due birre così opposte, con un enorme distanza: nello sconfinato spazio tra questi due estremi si possono posizionare un numero di birre analcoliche in continua crescita e di sempre maggior qualità, per poter dimostrare come ormai le cosiddette “non-alcoholic new style” rappresentino, volenti o nolenti, un’innegabile realtà. Lascio ad altri l’approfondimento su temi prettamente tecnici come le leggi e le normative, i lieviti consentiti e i processi produttivi, in particolare relativi alla fase di fermentazione, come le operazioni denominate “sottrattive” dal prodotto finito o quelle di interruzione della fermentazione stessa. Per fortuna io faccio il degustatore e, accanto alle birre alcoliche, oggi posso studiare anche quelle analcoliche “new style” con una certa curiosità e senza alcun pregiudizio. ★
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