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QUANDO IL QUINTO QUARTO e i salumi sono di pesce

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BIRRA E CIOCCOLATO

BIRRA E CIOCCOLATO

L’abbinamento birrario alla prova dei tagli ittici meno nobili

Ci sono due elementi dell’enogastronomia che più di tutti mi affascinano e che, per alcuni versi, in certe occasioni, riescono a fondersi. Da una parte, il mondo per me familiare delle fermentazioni, macerazioni, acidificazioni i cui esiti frequento quotidianamente e che non finiscono di sorprendermi, non smettono di farmi pensare alla bellezza misteriosa di questa millenaria interazione invisibile: trovo semplicemente coinvolgente la capacità di questi piccoli amici, invisibili a occhio nudo, di riuscire a vivere di riciclo, di mettere continuamente a disposizione delle creature di questo pianeta materia nuova, frutto di un lavorio costante, di trasformazioni indispensabili, geniali, a volte irripetibili.

Dall’altra parte, invece, c’è la vera e propria arte del recupero culinario, della valorizzazione dell’umile scarto che, ben lavorato, diventa piatto buonissimo, che tanto è connessa al nostro essere umani e che molto ha a che vedere con la poca disponibilità di cibo, con la mancanza di tecnologie di conservazione e con il saper fare delle nostre non- ne, sempre più da foto in bianco e nero, sempre più temporalmente distanti, brave a fare tanto con poco, a generare una zuppa dai sassi.

Questi due elementi così fertili si toccano proprio nel momento in cui, in cucina, per trasformare e conservare, bisogna essere bravi a interagire con il mondo micro-organico: il punto d’incontro sta proprio nel “complesso governo dell’anarchia”, nella capacità di preparare il terreno a lieviti e batteri e incanalare il loro lavoro verso una direzione conveniente. Ciò che nel mondo birrario accade, di fatto, per la produzione del caro lambic.

Avendo questi due elementi sempre in testa e con la voglia di sperimentare casi e applicazioni, mi trovo un pomeriggio da due amici, Silvia Mazzone e Marco Giuseppetti, coppia nella vita e nel lavoro, che nel loro ristorante fanno proprio di questa fusione, applicata alle preparazioni del pesce, una splendida peculiarità. Mentre nel silenzioso giardino della loro casa bevevamo e discorrevamo informalmente di cosa si aveva nel calice, del meteo e del necessario più e meno, mentre il primo sole primaverile usciva e rientrava dalle nuvole per salutare le nostre chiacchiere, ho tirato fuori l’argomento e ci siamo chiesti come fosse possibile che non avessimo mai pensato prima a dedicare un pranzo ai salumi e al quinto quarto di pesce abbinandoli alle birre artigianali.

In pochi minuti abbiamo deciso il come e il quando e dato l’avvio a tutti i necessari preparativi organizzativi. Andandomene, già eccitato al pensiero di questa esperienza, ho pensato che l’amicizia sia proprio una cosa importante e meravigliosa, che regala momenti di condivisione e intelligenza affettiva che non hanno prezzo e che invece hanno tantissimo valore, in quanto moltiplicatori di idee e di energie positive.

Un lavoro difficile

Marco e Silvia, lontano dalle grandi città, dove di certo le proposte alternative e gli azzardi conoscono richiami più favorevoli, stanno portando avanti con competenza e convinzione un lavoro basato proprio sulla seconda vita dei cosiddetti avanzi e sulle loro tecniche di trasformazione-conservazione: qualcosa di diverso e di davvero interessante rispetto alla sterminata offerta di locali con offerta turistica (leggi: piatta), da spaghetti con le vongole e fritture di paranza. Sono impegnati già da sei anni nel progetto gastronomico de La ricciola saracena. Nato rilevando l’omonima osteria presente nella guida tematica di Slow Food, dunque improntata sui piatti della tradizione, e apportando, anno dopo anno, una presa di consapevolezza dopo l’altra, un percorso di studio e ricerca dopo l’altro, cambiamenti che hanno reso l’ambiente e la proposta sempre più rispondenti alla loro visione di ristorazione.

Siamo a Sperlonga, splendido borgo allignato su uno sperone roccioso dell’estremo litorale sud del Lazio, con evidenti influenze campane nelle inflessioni dialettali e culturali, e caratterizzato da uno dei mari più godibili della regione. Nel centro storico non c’è spazio per le automobili, ma solo per le passeggiate a piedi, salendo scalette e attraversando vicoli. Proprio in una delle tante stradine in cui ci si può imbattere, senza nessuna possibilità di perdersi e con molte possibilità di ritrovarsi improvvisamente di fronte a scorci della splendida costa, troviamo l’antico Palazzo Sabella, al cui piano terra trova indirizzo La ricciola saracena, nello stesso sito dove anticamente operava un frantoio, con una mola trainata da muli.

Marco, dalla gentilezza proverbiale, si occupa della sala e della carta dei vini, composta e proposta con attenzione, caratterizzata dalle fermentazioni spontanee e sottoposta a una costante rotazione ragionata; Silvia, invece, è “la signora della cucina”, piena di idee e di energie, e ha cambiato gradualmente la proposta alimentare, sempre ancorata alla cucina di mare, ma interpretata in maniera tecnica ed espressivamente più libera, con il presupposto filosofico dello “scarto zero”, che si materializza nei piatti di macelleria di mare dalle innovative tecniche di frollatura. La materia prima di base è il pescato locale, con prospettive di cottura e manipolazione ampliate. Così oggi nel menù possiamo trovare: plin di ricciola con estratto di cavolo rosso e miso, saltimbocca di pesce spada alla romana, tonno rosso “in tre tagli”, crudi di pesce variamente frollati, tacos pulled fish, guacamole e pico de gallo

Forchetta e calice in mano!

Ecco allora la cronaca di questo pranzo certamente fuori dal comune, durante il quale è stato divertente azzardare abbinamenti e sperimentare anche stili poco noti: non ci sarebbe stato spazio per raccontare tutte le impressioni, le riflessioni e suggestioni provocate dagli abbinamenti non riusciti, ma ancora una volta questi esiti sottolineano come l’abbinamento sia la più inesatta e meravigliosa delle scienze.

Ho trovato ancora più speciale che Marco e Silvia si siano seduti assieme a noi, rendendoci ancora più consapevoli dei dettagli del lavoro svolto per realizzare questo menu, confrontandosi apertamente sugli esiti delle preparazioni e sugli effetti gustativi delle tecniche usate.

L’abbrivio ce l’ha dato un morbidissimo pan brioche fatto in casa con salsa tzatziki, alga dulse e coppa di pesce (ritagli di varie specie, impastati e cotti a bassa temperatura, aggiunti di spezie ed erbe aromatiche, messi in forma come un piccolo bauletto da tagliare a fette sottili), e guarnizione finale con pomodorini confit e un’alga galiziana chiamata lechuga

Piatto dalla delicatezza rara, in grado di porgere un’ampiezza gustativa e aromatica che va dal lattico allo speziato, dall’erbaceo al sapido, con un morso rotondo, dinamico e coinvolgente, che ha messo perfettamente in mostra il modo di lavorare e il tocco della chef

Per l’abbinamento abbiamo scelto la Zerbster bitterbier di MC 77 (Serrapetrona, MC), 4.5%, ispirata allo stile omonimo e praticamente scomparso anche nella sua patria natia (Zerbst, nel länd tedesco di Sassonia-Anhalt, Germania del nord) ed ennesima prova della classe produttiva di Cecilia Scisciani e Matteo Pomposini (che peraltro, incredibilmente, ho scoperto essere cari amici di Silvia e Marco. È proprio vero, “le persone interessanti finiscono sempre per incontrarsi”, come diceva Vinicius De Moraes).

Prodotta con malto affumicato su legno di ontano e fermentata con un lievito tedesco ad alta fermentazione, da qualche anno allevato in casa e utilizzato già per altre etichette, conferisce una nota fruttata e profila una birra fragrante e leggera.

L’abbinamento raccoglie consensi e soddisfazioni: l’interazione è decisamente lieta, i malti si integrano con la cremosità della salsa e la grassezza della coppa, incontrando proficuamente erbe e alghe, mentre sul finale le note affumicate sposano in modo entusiasmante le percezioni umami. La gasatura leggera e la lievissima acidità detergono il palato lasciando in bocca un’incantevole sensazione affumicata, che rimanda a uno speck di pesce.

Una ricetta contro lo spreco

Proseguiamo con un assiette di salumi ittici dalle variegate e profumate conce: ventresca di tonno con alloro; coda di pesce spada con barbabietola; filetto di pesce spada con rosmarino, alloro e ginepro; ricciola con lavanda. Oltre alla realizzazione curata e alle intuizioni aromatiche, quello che - almeno a mio avviso - ha elevato la godibilità del piatto è l’elemento intangibile e totalmente culturale dell’aspetto filosofico e del pensiero ecologico. Pensare che nella quasi totalità dei ristoranti le parti utilizzate per queste preparazioni vengono butta- te nel secchio fa diventare tristi: niente di edibile può essere gettato, mai, ma ciò è ancora più vero nei tempi attuali, dovrebbe essere considerato un peccato imperdonabile ed entrare nella testa di tutti come una prospettiva inderogabile. Vista la varietà dei salumi in assaggio e la presenza di variegati intingoli l’idea è stata di muoversi su due opzioni: a tavola è così comparsa la Space Girl, Vermont APA di Eastside brewing (Latina), 5%, dorata e lievemente velata, che si offre con un naso generosamente fruttato (tropicale) e resinoso, mentre in bocca si caratterizza per la setosità complessiva, accompagnata da una certa secchezza, senza amari soverchianti. Il tutto le permette di funzionare molto bene in abbinamento con gli affettati tal quali, attenuandone le sapidità o accompagnandone le invitanti note aromatiche. Associando invece i salumi agli accompagnamenti presenti – cavolo rosso fermentato, sambal (salsa di origine malesiana) di fragole e peperoncino, burro alle erbe, giardiniera – abbiamo fatto uscire dal frigorifero la Larkin street, Double IPA di Porta Bruciata (Rodengo

Saiano, BS), 8%, più intensa, corposa, persistente e alcolica e in grado di mantenere un ricercato equilibrio tra le componenti aromatiche (mandarino, pompelmo rosa, melone bianco, resinoso) e gustative, caratterizzate dal notevole bilanciamento tra ingresso a tendenza dolce, percezioni amare e giusta asciuttezza.

Nell’interazione con la più articolata e complessa trama gusto-olfattiva fa emergere la sua maggiore personalità, mentre risultano decisive la componente maltata e il contributo della CO₂ per tenere testa alle piccantezze, alle grassezze e all’acidità.

Primo piatto

È il tempo del primo, degli spaghetti quadrati (realizzati da un piccolo laboratorio artigianale della vicina Fondi) alla ‘nduja di tonno, ricavata dalla paziente sfilettatura di ogni genere di ritaglio delle parti nobili del tonno: una salsa saporita, equilibrata, viva, per certi versi sorprendente. L’abbinamento con la Falesia, storica, buonissima e inossidabile bock di Birrificio Lariano (Sirone, LC), 7%, risulta convincente: i malti caramellati e le dolcezze sono necessari per mantenere la bocca in equilibrio, visto il piatto untuoso e avvolgente, e per incontrare al meglio le persuasive note sapide. È una birra dalla straordinaria versatilità gastronomica e dalla spiccata personalità gustativa, in grado di tenere testa a un piatto così esuberante. Dopo la deglutizione, in bocca resta un’avvincente sensazione di paprika dolce, che fa tornare al piatto con il desiderio di replicare il matrimonio.

Un secondo speciale

Per secondo Silvia ha preparato delle alette di tonno cotte sulla piastra ya- kitori (alimentata a carbonella e tipica della cucina giapponese): senza esagerazioni, questo piatto è stato un’illuminazione, una delle cose più buone e originali che abbia mai mangiato. Essendo una parte del pesce stimolata dal moto natatorio costante, ma anche attaccata alla ventresca, annovera sia la presenza di una parte grassa che di una muscolare, irrorata e tonica: un pezzo raro (poiché ogni tonno ha solo due piccole alette), ma veramente speciale, grazie anche alla peculiare cottura lenta, che libera strati aromatici nascosti e ricorda la consistenza di un pulled pork e il sapore (commovente) delle alette di pollo cotte alla brace (certamente una delle mie madeleine). Da giubilare come un soave dono inaspettato, lasciando nel piatto solo resti non alimentari di lische e brandelli.

Per l’abbinamento abbiamo chiamato in causa la Pavel, tmavè di Lieviteria (Castellana Grotte, BA), 5.5%, uno stile raro e sottovalutato, realizzato in ma- niera impeccabile e personale dalle sapienti mani di Angelo Ruggiero, vero cultore della Mitteleuropa brassicola. Muovendosi tra torrefazioni, zaffate caramellate e frutta secca, con un aspetto palatale che arrotonda, leviga e opportunamente monda le poche componenti untuose/grasse presenti, lascia in bocca una vaga sensazione erbacea e un dialogo costante tra le note proteiche e quelle tostate. Un accordo fecondo e insospettabile, che ci ha lasciato col sorriso dello stupore, nato da due elementi che non avrebbero mai avuto l’occasione di dialogare se non in un’occasione gioconda come questa.

Dulcis in fundo

Non potevamo farci mancare la chiosa dolce, a base di (un ottimo) savoiardo fatto in casa con spuma di mascarpone e sottile disco croccante di cioccolato: delicato, stuzzicante, poco zuccherino, che gioca più che altro sulle differenti consistenze, i contrasti gustativi e il vincente incontro tra la morbidezza lattica e il foglio di cioccolato a guarnire.

L’abbinamento con la sempre interessante Chocolate porter di Birra Perugia (Perugia), 5.3%, è risultato davvero fortunato. La birra è caratterizzata da una ricca base di malti (Maris Otter, Brown e Crystal, con aggiunta di avena e roasted barley), addizionata di granella del nobile cacao Arriba Nacional a fine fermentazione: al naso offre note di biscotto ben cotto, terroso, caramello, frutta secca e pane da farine scure, mentre in bocca si presenta con un deciso profilo maltato.

È quest’ultimo a interagire prolificamente con un dessert che non fa della dolcezza la sua ragion d’essere, accompagnando con le tostature l’atavica cremosità lattica e richiamando l’effimero ricordo del sottile disco di cioccolato. ★

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